Infedeltà patrimoniale: la tutela del patrimonio sociale
L’infedeltà patrimoniale viene considerata una delle più rilevanti novità della riforma dei reati societari (D. lgs. 11 aprile 2002, n. 61), vista come risposta del legislatore per far fronte alla tutela del patrimonio sociale, contro gli abusi degli amministratori.
L’art. 2634 del codice civile recita quanto segue:
“Gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni.
La stessa pena si applica se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno patrimoniale.
In ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo.
Per i delitti previsti dal primo e secondo comma si procede a querela della persona offesa.”
L’infedeltà patrimoniale delinea un reato proprio, poiché può essere posto in essere solo dai soggetti qualificati, espressamente indicati dalla norma: amministratori, direttori generali e liquidatori. Sono esclusi i sindaci essendo estranei alla sfera di amministrazione attiva del patrimonio sociale, possono eventualmente essere chiamati per infedeltà patrimoniale solo a titolo di concorso.
Qual è l’interesse tutelato? Il patrimonio della società, nonché i beni eventualmente posseduti o amministrati dalla società per conto terzi. Il presupposto per la sussistenza del reato è una situazione di conflitto d’interessi. La condotta tipica richiede il compimento o il concorso alla deliberazione di atti di disposizione dei beni sociali. La nozione di beni sociali ricomprende i beni dell’ente mobili, immobili, materiali ed immateriali, quindi anche crediti, diritti di esclusiva su marchi, brevetti, opere dell’ingegno, programmi informatici ecc.
Il comma secondo regola un’autonoma fattispecie d’infedeltà patrimoniale, un conflitto d’interessi esterno fra società e clientela dei risparmiatori o investitori.
Il terzo comma rappresenta uno dei punti più rilevanti della riforma dei reati societari poiché tiene conto della complessa realtà dei gruppi, discostandosi da una visione meramente atomistica della società commerciale. È facile notare come il legislatore, in tema di elaborazione della fattispecie dell’infedeltà patrimoniale, abbia inteso regolamentare la tematica del conflitto d’interessi all’interno dei gruppi, adottando la teoria dei vantaggi compensativi ; occorrerà valutare gli interessi del gruppo e quelli delle singole società bilanciando gli uni e gli altri in una logica che viene definita appunto compensativa: l’interesse del gruppo non può a priori essere considerato extrasociale e quindi generalmente una situazione di conflitto (Musco, 2007, 221 s.)
La tutela penale e quella civile in tema di infedeltà patrimoniale si collocano su piani diversi d’intervento: la configurabilità del reato scatta in un momento successivo rispetto alle fasi e ai requisiti che rilevano in sede civile, per l’esercizio del potere di impugnativa delle delibere. Per il reato occorre un vero e proprio conflitto d’interessi tra amministratori e società, nonché il verificarsi intenzionale di un danno patrimoniale. Per l’esercizio del potere d’impugnativa in sede civile è sufficiente la mera violazione, da parte dell’amministratore interessato, dell’obbligo di comunicare l’interesse e la sola potenzialità dannosa (per la società) della delibera adottata.
Occorre porre l’attenzione al trattamento sanzionatorio che si prevede per il delitto in questione, la reclusione da sei mesi a tre anni. Nel caso di condanna o applicazione della pena su richiesta delle parti è prevista anche la confisca del prodotto o del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo o la confisca per equivalente, se non è possibile l’individuazione o l’apprensione dei beni. Il d.lsg n. 231 del 2001 non include l’art. 2634 nell’elenco dei reati societari per i quali è prevista la responsabilità della società, poiché nel caso di specie la società è la parte offesa del reato.
Mariaelena D’Esposito è nata a Vico Equense nel 1993 e vive in penisola sorrentina. Laureata in giurisprudenza alla Federico II di Napoli, in penale dell’economia: “bancarotta semplice societaria.”
Ha iniziato il tirocinio forense presso uno studio legale di Sorrento e spera di continuare in modo brillante la sua formazione.
Collabora con ius in itinere, in particolare per l’area penalistica.