venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Insider trading e confisca amministrativa

A cura di: Emanuele Cutrona

L’art. 187-sexies T.U.F. sotto la lente d’ingrandimento della Corte Costituzionale.

  1. Introduzione

 

È pacifico affermare che sulla scia della misura di sicurezza di cui all’art. 240 c.p., si siano sviluppate nel sistema penale vigente numerose ipotesi speciali di confisca che, per le loro peculiarità, si allontanano parecchio dalla matrice originaria[1] e il cui fine era quello di rafforzare, attraverso l’introduzione di strumenti di apprensione delle utilità economiche provenienti dal delitto, la risposta sanzionatoria dello Stato a fronte del proliferare della criminalità economica.

Tale tendenza ha interessato diversi settori del diritto[2], tra cui, per la materia che in questa sede rileva, quello strettamente finanziario. Invero, nel Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria[3] (d’ora in avanti, T.U.F.) è prevista all’art. 187 la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, per il reato di abuso di informazioni privilegiate ex art. 184 (cd. insider trading) e per il reato di manipolazione del mercato ex art. 185. È altresì prevista un’ipotesi di confisca quale sanzione amministrativa ex art. 187-sexies per i relativi illeciti amministrativi disciplinati dagli articoli 187-bis e 187-ter[4].

Ed è proprio segnatamente all’oggetto della confisca amministrativa che la recente sentenza della Consulta assume particolare rilevanza. Invero, nell’ampio dibattito che ha da sempre interessato sia dottrina che giurisprudenza circa l’individuazione di tale oggetto della confisca, il Giudice di legittimità, con la sentenza n. 112/2019 ha dichiarato che è costituzionalmente illegittima la confisca amministrativa dell’intero “prodotto” di operazioni finanziarie illecite e dei “beni utilizzati” per commetterle, anziché del solo “profitto” ricavato da queste operazioni. Questo è quanto stabilito dalla Corte rilevando che queste particolari forme di confisca, combinate con le elevatissime sanzioni pecuniarie previste dal T.U.F., conducono a risultati punitivi in contrasto con il principio della necessaria proporzionalità della sanzione, che i giudici hanno ritenuto applicabile anche agli illeciti amministrativi di carattere “punitivo”[5].

Ciò posto, prima di vedere più nel dettaglio le motivazioni della pronuncia in discorso, è opportuno definire, almeno brevemente, il quadro normativo e la vicenda entro cui ci si muove.

  1. L’art. 187-sexiesU.F.

 

Collocata al Capo III (Sanzioni amministrative), Titolo I-bis (Abusi di mercato), Parte V (Sanzioni), del T.U.F., art. 187-sexies e rubricato «Confisca», la disposizione qui in esame, nella sua formulazione vigente all’epoca dei fatti, statuiva «1. L’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente capo importa sempre la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo. 2. Qualora non sia possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente. 3. In nessun caso può essere disposta la confisca di beni che non appartengono ad una delle persone cui è applicata la sanzione amministrativa pecuniaria».

Lungi dal voler analizzare nel dettaglio la disposizione in parola, per cui si rimanda ad altre sedi[6], preme qui almeno specificare, ai fini della presente trattazione, il significato dei termini “prodotto”, “profitto” e “beni utilizzati” così per come definiti dalla stessa Corte Costituzionale.

Quanto al “prodotto[7], esso consiste in ciò che direttamente e immediatamente risulta dall’esecuzione del reato, ovvero le cose che furono create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato, o che ne sono una naturale conseguenza[8].

Il termine “profitto[9], invece, fa riferimento all’utilità economica conseguita mediante la commissione dell’illecito. Nel caso in esame, quindi nelle ipotesi di acquisto di strumenti finanziari, esso si sostanzia nel risultato economico dell’operazione valutato nel momento in cui l’informazione privilegiata, della quale l’agente disponeva, diviene pubblica, calcolato sottraendo al valore degli strumenti finanziari acquistati il costo effettivamente sostenuto dall’autore del reato per compiere l’operazione, così da quantificare l’effettivo “guadagno” (in termini finanziari, la “plusvalenza”)[10].

Infine, con l’espressione “beni utilizzati[11], nella sentenza in parola la Corte afferma che essi, in tema di abusi di mercato, non possono che consistere nelle somme di denaro investite nella transazione[12].

Poste le premesse di cui sopra, è opportuno ricordare che l’art. 187-sexies T.U.F. è stato novellato dalla recente riforma in tema di abusi di mercato operata mediante il d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107, entrato in vigore il 29 settembre 2018[13]. Invero, per come modificata dall’art. 4, co. 14 del presente decreto legislativo, la misura ablatoria della confisca ex art. 187-sexies ha subìto un ridimensionamento, essendo ora (rectius, prima della pronuncia qui in commento)[14], limitata, sia nella forma diretta che nella forma per equivalente, ai soli prodotto o profitto degli illeciti e non, come anteriormente, anche ai beni utilizzati per commetterli[15].

Orbene, è chiaro che con la pronuncia in commento, nonostante la questione dedotta fosse riferita alla norma nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 107/2018, la Corte ha comunque dichiarato l’illegittimità dell’art. 187-sexies T.U.F. per come oggi in vigore.

Ma veniamo ai fatti.

  1. La vicenda processuale.

 

Il procedimento de quo ruota attorno ad una vicenda che vede come protagonista l’amministratore di una società che aveva acquistato 30.000 azioni della società stessa al prezzo complessivo di 123.175 euro, essendo in possesso di un’informazione privilegiata sull’imminente lancio di un’offerta pubblica di acquisto (OPA)[16] volontaria e totalitaria di tale società, promossa da altra società costituita ad hoc e della quale egli stesso era socio. Al momento del lancio dell’OPA, il valore complessivo delle azioni acquistate era salito a 149.760 euro, con un conseguente profitto dunque di 26.580 euro.

Accertata la responsabilità per illecito amministrativo di insider trading[17], la CONSOB, nel maggio 2012, aveva irrogato una sanzione pecuniaria di 200.000 euro e la confisca di beni immobili fino a concorrenza dell’importo di 149.760 euro, che come già specificato, rappresentava l’intero valore delle azioni acquistate, nonché il “prodotto” dell’illecito.

Avverso tale provvedimento sanzionatorio della CONSOB, l’amministratore di tale società, aveva, dunque, proposto opposizione avanti alla Corte d’appello di Roma, che ha invece confermato il provvedimento con sentenza depositata il 20 novembre 2013.

A ciò ha fatto seguito il ricorso per cassazione che ha dato origine al procedimento incidentale di legittimità costituzionale concluso con la sentenza in epigrafe[18]. Nello specifico, il Giudice a quo dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 187-sexies T.U.F. nella parte in cui, prima delle modifiche attuali, imponeva la confisca non del solo profitto dell’illecito, ma anche del suo prodotto e dei beni utilizzati per commetterlo. Tali dubbi ruotavano intorno la proporzionalità di siffatta misura con riguardo agli artt. 3, 117, co. 3, Cost. e 49 CDFUE, nonché la sua compatibilità con le norme poste a tutela del diritto di proprietà, ovvero gli artt. 42, 117, co. 1, Cost., 1 Prot. addiz. CEDU e 17 CDFUE.

Orbene, la Corte Costituzionale ha dichiarato fondate le questioni in relazione a tutti i parametri invocati.

  1. Le considerazioni della Consulta

Il punto di partenza delle osservazioni dei giudici della Corte ha riguardato la questione del sindacato di legittimità costituzionale sulle scelte sanzionatorie del legislatore in materia penale. Invero, i giudici hanno osservato che nell’ambito del diritto penale, la costante giurisprudenza della Corte riconosce un’ampia discrezionalità al legislatore nella determinazione delle pene da comminare per ciascun reato. Tale discrezionalità opera soprattutto in relazione al quomodo e al quantum della pena, essendo, per l’appunto, riservata al legislatore, ai sensi dell’art. 25, co. 2, Cost., la scelta delle pene più adeguate allo scopo di salvaguardare i beni giuridici tutelati da ciascuna norma incriminatrice, nonché la determinazione dei loro limiti minimi e massimi. Tuttavia, proseguono i giudici, «tale discrezionalità, è soggetta, a una serie di vincoli derivanti dalla Costituzione, tra i quali il divieto di comminare pene manifestamente sproporzionate per eccesso».

In particolare, la Corte rileva che il sindacato sulla proporzionalità della pena, così come affermatosi nella giurisprudenza della stessa Corte, ha riguardo al principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. dal quale «si è tratta la naturale implicazione relativa alla necessità che a fatti di diverso disvalore corrispondono diverse reazioni sanzionatorie». I giudici proseguono richiamando l’art. 27, co. 3, Cost.[19], la cui valorizzazione, accanto all’art. 3, come in precedenti pronunce della Corte[20], ha condotto a estendere il proprio sindacato anche a ipotesi in cui la pena comminata dal legislatore appaia manifestamente sproporzionata non tanto in rapporto alle pene previste per altre figure di reato, quanto piuttosto in rapporto, direttamente, alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta, senza che sia più necessaria l’evocazione di alcuno specifico tertium comparationis da parte del rimettente[21]. Ciò, specificano i giudici, nella consapevolezza che pene eccessivamente severe tendono a essere percepite come ingiuste dal condannato e finiscono così per risolversi in un ostacolo alla sua rieducazione[22].

Per ciò che rileva in questa sede, inoltre, preme ricordare che la Corte stessa ha esteso in molteplici occasioni alle sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente “punitivo” talune garanzie riservate dalla Costituzione alla materia penale e ciò in particolare è accaduto ad alcuni corollari del principio nullum crimen, nulla poena sine lege ex art. 25, co. 2, Cost., quali il divieto di retroattività delle modifiche sanzionatorie in peius[23], della sufficiente precisione del precetto sanzionato[24], nonché della retroattività delle modifiche sanzionatorie in mitius[25].

Sulla base di quanto sopra osservato, dunque, non può dubitarsi, secondo il Giudice di legittimità, che il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito sia applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative, traendo la propria base normativa dall’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione. Ciò posto, nel caso di specie «non erra il giudice rimettente nell’identificare nel combinato disposto degli art. 3 e 42 Cost. il fondamento domestico del principio di proporzionalità di una sanzione che, come la confisca di cui è discorso, incide in senso limitativo sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito; né erra nell’identificare negli artt. 1 Prot. addiz. CEDU e nell’art. 17 CDFUE i fondamenti, rispettivamente, nel diritto della Convezione e dell’Unione europea, del principio in questione, in quanto riferito a una sanzione patrimoniale».

A tali basi normative potrebbe inoltre affiancarsi, nell’ambito del diritto dell’Unione europea, l’art. 49, § 3, CDFUE[26]. Infatti, la Corte di Giustizia dell’UE, sebbene tale disposizione faccia riferimento alle “pene” e al “reato”, ha considerato applicabile tale principio all’insieme delle sanzioni, penali e amministrative (quest’ultime avente anche di carattere “punitivo”), irrogate in seguito alla commissione di un fatto di manipolazione di mercato, ai fini della verifica del rispetto del principio di ne bis in idem[27].

Dunque, una volta chiarito che il canone della proporzionalità tra la gravità della sanzione e la gravità del fatto opera anche in ambito amministrativo, la Corte ha scrutinato la questione se la misura ex art. 187-sexies sia o meno, in astratto, rispettosa di tale principio. Nel far ciò, i giudici si sono ben premurati di chiarire, anzitutto, le precise nozioni, già richiamate nel corso della presente trattazione[28], di “profitto” e “prodotto” dell’illecito, nonché di “beni utilizzati” per commetterlo.

Fatta chiarezza circa queste definizioni, secondo i giudici, «da tutto ciò consegue che, in tema di abusi di mercato, mentre l’ablazione del “profitto” ha una mera funzione ripristinatoria della situazione patrimoniale precedente in capo all’autore, la confisca del “prodotto” […], così come quella dei “beni utilizzati” per commettere l’illecito […], hanno un effetto peggiorativo rispetto alla situazione patrimoniale del trasgressore». Di guisa che tali forme di confisca assumono dunque una connotazione “punitiva”, infliggendo all’autore dell’illecito una limitazione del diritto di proprietà di portata superiore (e, di regola, assai superiore) a quella che deriverebbe dalla mera ablazione dell’ingiusto vantaggio economico ricavato dall’illecito.

A giudizio della Corte, dunque, la combinazione di una sanzione pecuniaria di eccezionale severità e un’ulteriore sanzione anche essa di carattere “punitivo” come quella rappresentata dalla confisca del prodotto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito, conduce ineluttabilmente a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati, che sono emblematicamente illustrati dal caso oggetto del giudizio a quo, ove l’autore della condotta illecita è stato condannato ad una sanzione di 200.000 euro ed una confisca di quasi 150.000 euro, per un importo complessivo pari a tredici volte il profitto illecito (pari, come già visto, a 26.580 euro).

Per questi motivi, la Corte costituzionale, conclude dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies T.U.F. nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, co. 2, lett. a), della legge 18 aprile 2005, n. 62, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto; nonché, in via consequenziale, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, co. 14, del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto.

  1. Considerazioni conclusive.

 

In questo quadro, è indubbio che nell’ottica del penalista la sentenza in epigrafe assume una particolare rilevanza sotto taluni profili, lasciando, però, al contempo, altre questioni aperte che, agli occhi della più critica dottrina, porterebbero a renderla priva di risultati concreti e chiarificatori, cui invece si vorrebbe che essa conducesse.

Un primo punto fermo fissato dalla sentenza in discorso riguarda le nozioni dei termini “prodotto”, “profitto” e “beni utilizzati” relativamente alla definizione dell’oggetto della confisca.

Come noto, infatti, tale questione è da sempre oggetto di accesi dibattiti tanto in giurisprudenza quanto nella speculazione dottrinale. Si tratta, come preme rilevare, di nozioni che spesso sono state confuse tra loro, eppure tutt’altro che sovrapponibili, nonché di notevole importanza nella prassi applicativa: basti pensare quanto grande, in termini economici, possa essere la differenza tra l’una e l’altra voce. Ed è proprio in questo senso che il caso qui in esame è illuminante.

Allo stesso tempo, da una prima analisi della sentenza si possono rilevare dei temi, additabili probabilmente come aporetici e controversi, che meritano di essere attenzionati.

Dalle osservazioni fin qui svolte, sembra chiaro che al centro della vicenda, tra gli altri, si pone il principio di proporzionalità. Ed è proprio in merito a quest’ultimo che sembra doveroso spendere alcune considerazioni.

Il principio in parole trova le sue nobili origini già in età antica con Le leggi di Platone[29] e nella Magna Charta[30]; tuttavia solo con il pensiero illuminista (in particolare con i principi di legalità, uguaglianza e misurabilità delle pene) ha trovato il necessario sostrato giusfilosofico, con le esemplificative opere, tra gli altri[31], di Montesquieu[32] e Beccaria[33], ponendosi quale fondamentale criterio-guida per il legislatore nella determinazione astratta della pena.

 È proprio intorno a tale principio, ormai inserito nell’olimpo dei principi costituzionalmente tutelati, che la sentenza della Consulta qui in commento lascia dei vuoti. A ben vedere, infatti, essa rischia di non garantire l’auspicata proporzionalità in tutti i casi in cui l’illecito amministrativo costituisce anche illecito penale ai sensi dell’art. 184 T.U.F.[34] In questi casi, invero, l’art. 187 T.U.F. impone, fatte salve le sanzioni penali e amministrative e la confisca amministrativa (ormai del solo profitto!) di applicare la confisca penale, anche per equivalente, «del prodotto o del profitto conseguito dal reato e dei beni utilizzati per commetterlo». In tal guisa, come appare lapalissiano, il ridimensionamento della confisca amministrativa ex art. 187-sexies T.U.F., ad opera della novella del 2018, non ha allo stesso modo riguardato l’omologo art. 187 T.U.F. che disciplina la confisca penale, importando un irrimediabile vulnus ai superiori canoni dell’eguaglianza e della ragionevolezza. D’altronde, siffatta omessa ed irrazionale armonizzazione dell’art. 187 T.U.F. risulta essere irrimediabile anche sul versane interpretativo, né tantomeno è possibile prefigurare una soluzione prasseologica ricorrendo al meccanismo dell’art. 187-terdecies T.U.F.[35], che si riferisce all’ “eccedenza”, cosa che non può comprendere la confisca dei beni strumentali del reato, attualmente prevista soltanto in sede penale, ma esclusivamente il profitto, unico punto in comune delle due misure ablatorie all’esito della riforma attuata mediante il d.lgs. 107/2018. Andrebbe allora auspicata una interpretazione (id est, una novella, ndr), ove possibile, dell’art. 187 T.U.F. conforme a quest’ultima pronuncia costituzionale.

Ancora, la proporzionalità tra fatto e risposta sanzionatoria rischia di vacillare con riguardo, stavolta, alla lodata distinzione tra “prodotto”, “profitto” e “beni utilizzati”, con la conseguente eliminazione dall’oggetto della confisca di tutto ciò che non costituisca profitto. A tal proposito, infatti, non può non venire in rilievo l’orientamento prevalente in seno alla Corte di Cassazione, che più volte si è espressa circa la nozione di profitto proprio negli abusi di mercato affermando che «ai fini del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, la nozione di profitto del reato coincide con il […] complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito […], dovendosi escludere, per dare concreto significato a tale nozione, l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico, [questo perché] il crimine non rappresenta, in alcun ordinamento, un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto su un bene e il reo, non può, quindi rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato. Il diverso criterio del profitto netto finirebbe per riversare sullo Stato […] il rischio di esito negativo del reato ed il reo e, per lui, l’ente di riferimento si sottrarrebbero a qualunque rischio di perdita economica»[36]. Anche in quest’altro caso, non si può che sperare in una diversa interpretazione che sia conforme a Costituzione.

In ultimo, la pronuncia de qua non si sottrae dal porre delle domande relative al solito canone della proporzionalità, spostandosi ora su un piano più generale. Infatti, una volta appurato che il cumulo tra sanzione amministrativa pecuniaria e confisca amministrativa del prodotto dell’illecito deve essere considerato contrario al principio costituzionale di proporzionalità, sorge (provocatoriamente) spontaneo chiedersi se invece possa considerarsi conforme a tale principio un cumulo, imposto alle sole persone fisiche, tra: sanzione penale detentiva e pecuniaria (artt. 184 e 185 T.U.F.), le sanzioni penali accessorie (art. 186 T.U.F.), la sanzione amministrativa pecuniaria (artt. 187-bis e 187-ter T.U.F.) e le sanzioni amministrative accessorie (art. 187-quater T.U.F.).

Probabilmente una risposta a tale domanda la si può ricavare dalla stessa pronuncia della Corte e, a parere di chi scrive, nulla osta ad affermare che tale risposta possa essere negativa: secondo la Corte, infatti, già la legge astratta, non solo la sua concreta applicazione, deve prevedere sanzioni proporzionate al fatto. In tal guisa, viene da pensare, allora, che la sanzione complessiva astrattamente prevista da tutte le norme evocate non si mostra proporzionata al fatto tipico di market abuse.

 

[1] Per un approfondimento sulle ipotesi speciali di confisca v. D. Fondaroli, Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale. Ablazione patrimoniale, criminalità economica, responsabilità delle persone fisiche e giuridiche, Bologna, 2007.

2 Si pensi, ad esempio, alla disciplina dei reati societari previsti dal codice civile (artt. 2621-2642), nell’ambito dei quali, a seguito della riforma operata dal d.lgs. 11 aprire 2002, n. 61, è stata introdotta, mediante la riformulazione dell’art. 2641 c.c., un’ipotesi speciale di confisca. Ancora, si guardi alla sfera del diritto tributario, in cui con il d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, è stata introdotta una disposizione ad hoc (art. 12-bis) nel relativo d.lgs. 74/2000 che disciplina una ipotesi speciale di confisca sia nella forma diretta che per equivalente.

[3] D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.

[4] Preme rilevare, nell’ottica di fornire un quadro completo circa la fenomenologia giuridica della misura ablatoria qui in parola, che il combinato disposto delle norme in materia di abusi di mercato configura una terza ipotesi di confisca: ovvero la confisca prevista come sanzione principale per gli enti ai quali si riconosca responsabilità “da reato” ai sensi dell’art. 19 d.lgs. 231/2001 (nel caso di specie, per i delitti di insider trading e manipolazione di mercato ai sensi dell’art. 25-sexies d.lgs. 231/2001).

[5] Per un primo commento sulla sentenza cfr. anche L. Roccatagliata, “Dichiarata (probabilmente invano) la illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies T.U.F., nella parte in cui prevede la confisca amministrativa obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto”, in www.giurisprudenzapenale.com, 5/2019.

[6] Cfr. in merito M. Fratini, art. 187-sexies – Confisca, in M. Fratini, G. Gasparri (a cura di), Il Testo Unico della Finanza, III, Torino, 2012, p. 2537 ss.

[7] V. G. Grasso, Art. 240, in M. Romano, G. Grasso, T. Padovani (a cura di), Commentario sistematico del codice penale, III, Milano, 1994, p. 527; A. Alessandri, “Confisca nel diritto penale”, in Dig. disc. pen., III, 1989, p. 52.

[8] Cfr. C. Cost., sentenza 10 maggio 2019, n. 112, § 8.3.1; in www.cortecostituzionale.it.

[9] Il termine “profitto” contrassegna una nozione molto ampia, che, in relazione ai provvedimenti di confisca, tende ad una progressiva espansione, come dimostra l’evoluzione giurisprudenziale in materia. Un’interessante disamina, anche dal punto di vista storico, viene offerta in un articolato studio da A. Alessandri, Criminalità economica e confisca del profitto, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di E Dolcini, C.E. Paliero, Milano, 2006, p. 2103 ss.

[10] Cfr. C. Cost., sentenza 10 maggio 2019, n. 112, § 8.3.2; in www.cortecostituzionale.it.

[11] Si rinvia a E. Amati, “La Confisca negli abusi di mercato al cospetto di ragionevolezza/proporzione”, in www.penalecontemporaneo.it, 8 febbraio 2013. L’autore già affermava che il riferimento ai “beni utilizzati” per commettere l’illecito presentava «non pochi aspetti problematici, considerato che in relazione alle fattispecie di market abuse ben può accadere che l’entità dei beni confiscati possa essere nettamente maggiore rispetto al profitto realizzato».

[12] Cfr. C. Cost., sentenza 10 maggio 2019, n. 112, § 8.3.3; in www.cortecostituzionale.it.

[13] In proposito v. F. Mucciarelli, “Gli abusi di mercato riformati e le persistenti criticità di una tormentata disciplina”, in www.penalecontemporaneo.it, 10 ottobre 2018, p. 20; L. Roccatagliata, “La riforma del diritto sanzionatorio per illeciti finanziari. Guida ragionata al d.lgs. 107/2018”, in www.giurisprudenzapenale.com, 11/2018, p. 14.

[14] V. infra § 4.

[15] Si segnala che già nel 2010 la stessa CONSOB aveva auspicato una riforma dell’art. 187-sexies in materia di confisca (obbligatoria) per i casi di abusi di mercato, prevedendo, ad esempio, la confisca del solo “profitto” riveniente dall’illecito e non anche dei “beni utilizzati per commetterlo”. In merito cfr. Relazione CONSOB per l’anno 2010, § 7 (Ipotesi di revisione del regime sanzionatorio), p. 53; consultabile in www.consob.it.

[16] In merito alla disciplina delle offerte pubbliche di acquisto nell’ordinamento italiano si rimanda a G.F. Campobasso, Diritto commerciale, II, Torino, 2015, pp. 269-276.

[17] In materia di insider trading la letteratura è amplissima: per un primo approccio v. F. Galgano, “Gruppi di società, insider trading, OPA obbligatoria”, in Contratto e impresa, 1992, p. 638 ss.; S. Seminara, Insider trading e diritto penale, Milano, 1989; Id, “L’insider trading nella prospettiva penalistica”, in Giur. comm., 1992, p. 626 ss.; Id. “Disclose or abstain? La nozione di informazione privilegiata tra obblighi di comunicazione al pubblico e divieti di insider trading: riflessioni sulla determinatezza delle fattispecie sanzionatorie”, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, p. 331 ss.; F. Mucciarelli, “L’ insider trading nella nuova disciplina del d.lgs. 58/9”8, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2000, p. 927 ss.; A.F. Tripodi, Commento agli artt. 180- 187- quaterdecies t.u.f., in Leggi penali complementari. Le fonti del diritto italiano, a cura di T. Padovani, Milano, 2007, p. 2517 ss.; Id, Informazioni privilegiate e statuto penale del mercato finanziario, Padova, 2012; V. Napoleoni, “Insider trading”, in Dig. disc. pen., 2008, p. 583; F. Sgubbi, D. Fondaroli, A.F. Tripodi, Diritto penale del mercato finanziario, Padova, 2013, pp. 31-70; E. Amati, F. Mazzacuva, Diritto penale dell’economia, Milano, 2018, pp. 293- 324.

[18] Preme sottolineare che con l’ordinanza del 16 febbraio 2018 la Corte di cassazione, sez. II, civ., aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale non solo con riguardo all’art. 187-sexies T.U.F., qui in discorso, ma anche relativamente all’art. 185-quinquiesdecies T.U.F. Tuttavia, in relazione a quest’ultima questione, la Corte costituzionale ha ritenuto di dover promuovere, con separata ordinanza, rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’art. 267 TFUE. Indi per cui, oggetto della presente sentenza sono soltanto le questioni che concernono l’art. 187-sexies T.U.F. Per un approfondimento a riguardo cfr. C. Cost., ord. 10 maggio 2019, n. 117; con commento di A. Ruggeri, “Ancora un passo avanti della Consulta lungo la via del “dialogo” con le Corti europee e i giudici nazionali (a margine di Corte Cost. n. 117 del 2019)”, in Consulta Online, II, 2019, p. 242 ss; consultabile in www.giurcost.org.

[19] Art. 27, co.3, Cost.: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

[20] Il riferimento è alle sentenze n. 343 del 1993, n. 422 del 1993 e n. 341 del 1994.

[21] In questo senso cfr. C. Cost., sentenza 8 marzo 2019, n. 40; C. Cost., sentenza 5 maggio 2018, n. 222 e C. Cost., sentenza 10 aprile 2016, n. 236; consultabili in www.cortecostituzionale.it.

[22] Così C. Cost., 23 marzo 2012, n. 68 in cui si afferma che «una concorrente violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., nel suo valore fondante, in combinazione con l’art. 3 Cost., del principio di proporzionalità della pena al fatto concretamente connesso, sul rilievo che una pena palesemente sproporzionata, e dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato, vanifica, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa»; consultabile in www.cortecostituzionale.it.

[23] Cfr. a riguardo C. Cost., sentenza 5 maggio 2018, n. 223; C. Cost., sentenza 7 aprile 2017, n. 68; C. Cost., sentenza 16 dicembre 2016, n. 276; C. Cost., sentenza 4 giugno 2010, n. 196; in www.cortecostituzionale.it.

[24] Cfr. C. Cost., sentenza 13 giugno 2018, n. 121; C. Cost., sentenza 3 luglio 1967, n. 78; in www.cortecostituzionale.it.

[25] Cfr. C. Cost., sentenza 21 marzo 2019, n. 63; in www.cortecostituzionale.it.

[26] Lo stesso art. 49, § 3, CDFUE, è stato recentemente invocato dalle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione a fondamento dell’affermazione secondo cui anche forme di risarcimento con funzione prevalentemente deterrente come i punitive damages eventualmente disposti da una sentenza straniera debbono comunque rispettare il principio di proporzionalità per poter essere riconosciuti nel nostro ordinamento. A riguardo cfr. Cass. Civ. Sez. un., sentenza 5 luglio 2017, n. 16601; in www.cortedicassazione.it.

[27] Il riferimento è a CGUE, sentenza 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate SA e a., in causa C-537/16, § 56.

[28] V. supra § 2.

[29] Cfr. Platone, Le Leggi, IX, 875b, in G. Reale (a cura di), Platone. Tutti gli scritti, Milano, 2000, p. 1649 ss.

[30] La Magna Charta Liberatum del 15 giugno 1215 all’art. 20 affermava il principio di adeguatezza della pena rispetto ai piccoli reati e di proporzione della stessa in relazione alla gravità del delitto.

[31] Il riferimento è G. Filangieri, La scienza della legislazione (1783), F.M. Pagano, Principj del codice penale e logica dè probabili, pubblicazione postuma, Napoli, 1828 ed a J. Bentham, Traités de législation civil et pénal, Bruxelles, 1802.

[32] V. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, 1748, Libro VI, Cap. XVI, edizione con commento di R. Derathé, traduzione italiana di B. Boffito Serra, Milano, 1989, p. 240 ss.

[33] V. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1764. L’autore dedica un paragrafo (§ VI) alla proporzione tra i delitti e le pene. Con una chiara ispirazione utilitaristica, ed applicando il principio della «pena minima necessaria» di cui al § II della sua opera, introduceva il principio di proporzione tra delitti e pene in ragione della necessità che il legislatore imponesse degli ostacoli più forti, quindi sanzioni più severe, contro quegli atti che mostravano una maggiore contrarietà al «ben pubblico». Secondo il padre del diritto penale moderno, «se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure combinazioni delle azioni umane» alla «scala dei disordini» sarebbe dovuta corrispondere una scala delle pene. L’autore, prosegue, sempre coerentemente all’impianto utilitaristico dell’argomentazione, sottolineando come l’esigenza che il calcolo costi-benefici indotto dalle pene scoraggi l’intrapresa criminale suggerendone, per l’appunto, l’antieconomicità. Tracce di tale teoria sono rinvenibili anche nel De l’Esprit di C.-A. Helvetius, nel De Cive di T. Hobbes e nel Second Treatise di J. Locke.

[34] La questione si pone identica nei procedimenti penali di manipolazione del mercato ex art. 185 T.U.F.

[35] Art. 187-terdecies «Applicazione ed esecuzione delle sanzioni penali ed amministrative»: «1) Quando per lo stesso fatto è stata applicata, a carico del reo, dell’autore della violazione o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’art. 187-septies ovvero una sanzione penale o una sanzione amministrativa dipendente da reato: a) l’autorità giudiziaria o la CONSOB tengono conto, al momento dell’irrogazione delle sanzioni di propria competenza, delle misure punitive già irrogate; b) l’esazione della pena pecuniaria, della sanzione pecuniaria dipendente da reato ovvero della sanzione pecuniaria amministrativa è limitata alla parte eccedente quella riscossa, rispettivamente, dall’autorità amministrativa ovvero da quella giudiziaria».

[36] In proposito cfr. Cass. Civ. Sez. II, sentenza 31 ottobre 2013, n. 24558; Cass. Pen. Sez. III, sentenza 31 gennaio 2019, n. 4885; in www.cortedicassazione.it.

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