Interesse o vantaggio dell’ente e i reati in materia di sicurezza sul lavoro: un sottile equilibrio interpretativo
A cura di Maria Chiara Mastrantonio
SOMMARIO: 1. Il criterio di imputazione oggettiva della responsabilità dell’ente e le nozioni di interesse e vantaggio. – 2. Il cambio di paradigma: l’introduzione dei delitti colposi di evento nel catalogo dei reati presupposto. – 3. Sistematicità delle violazioni della normativa in tema di sicurezza sul lavoro, l’alba di un nuovo requisito di introduzione giurisprudenziale?
- Il criterio di imputazione oggettiva della responsabilità dell’ente e le nozioni di interesse e vantaggio.
I criteri di ascrizione della responsabilità da reato all’ente hanno da sempre rappresentato uno dei temi nevralgici del sistema introdotto ad opera del D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Come noto, mentre gli artt. 6 e 7 disciplinano il criterio di imputazione soggettiva, l’art. 5 del predetto decreto individua il criterio di imputazione oggettiva della responsabilità dell’ente, stabilendo che la persona giuridica è chiamata a rispondere qualora le persone fisiche ad essa legate da un rapporto funzionale (apicali o subordinati) abbiano commesso uno dei reati c.d. presupposto nel suo interesse o vantaggio.
Pur avendo dato vita ad una «fattispecie plurisoggettiva di parte generale, tipizzante una nuova ipotesi di concorso (necessario) di persone fisiche e giuridiche nello stesso reato»[1], la fumosità della locuzione “interesse o vantaggio” ha generato il proliferarsi di diverse interpretazioni – spesso contrastanti – sia in dottrina che in giurisprudenza.
Un primo filone interpretativo, invero, ha reputato di aderire alla tesi c.d. monistica, secondo cui la locuzione in esame costituirebbe un’endiadi espressiva di un significato unitario e manifestato dall’utilizzo di due sinonimi. Secondo tale tesi, inoltre, l’interesse (valutato in senso oggettivo) sarebbe l’unico parametro rilevante per l’ascrizione del reato presupposto all’ente, mentre il vantaggio potrebbe rivestire, al più, un ruolo strumentale e dotato di valenza puramente probatoria[2].
Il fondamento di tale esegesi è stato rinvenuto nella scelta legislativa di escludere, nell’ambito dell’art. 5 comma II, la responsabilità dell’ente allorquando la persona fisica abbia agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi e di prevedere, all’art. 12 comma I lett. a), una circostanza attenuante ad effetto speciale nel caso in cui il reato sia stato commesso dalla persona fisica nel prevalente interesse proprio o di terzi determinando in capo all’ente un vantaggio nullo o minimo. La lettura sistematica delle predette disposizioni, a parere di una dottrina (ad oggi) minoritaria, dunque, restituirebbe l’indefettibile necessità della realizzazione di un interesse, anche solo parziale, in capo all’ente, a nulla rilevando l’assenza di un vantaggio[3].
Secondo l’orientamento prevalente – ispirato, peraltro, alla Relazione di accompagnamento al Decreto[4] – andrebbe, invece, privilegiata l’interpretazione c.d. dualistica o alternativa, in base alla quale la ricorrenza di anche uno solo dei due criteri sarebbe sufficiente a fondare la responsabilità dell’ente. Supportata da un’interpretazione letterale, la Seconda Sezione della Suprema Corte ha avuto modo di chiarire come «a prescindere dalla sottigliezza grammaticale che tale figura retorica richiederebbe la congiunzione copulativa “e” tra le parole interesse e vantaggio e non la congiunzione disgiuntiva “o” presente invece nella norma, non può sfuggire che i due vocaboli esprimono concetti giuridicamente diversi»[5].
Non può non evidenziarsi, infine, come quest’ultimo orientamento abbia trovato l’assenso anche delle Sezioni Unite Thyssenkrupp che, facendo leva sul diverso significato concettuale dei due criteri, ponevano fine all’annoso contrasto interpretativo illustrando come «il criterio dell’interesse esprima una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, al momento della commissione del fatto, e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; e che il criterio del vantaggio abbia una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito»[6].
- Il cambio di paradigma: l’introduzione dei delitti colposi di evento nel catalogo dei reati presupposto.
Con l’introduzione, a cura della Legge 3 agosto 2007, n. 123, dell’art. 25 septies fra le disposizioni del D. Lgs. 231/2001, è stato sancito l’ingresso dei delitti colposi di evento nel catalogo dei reati fondanti la responsabilità dell’ente e, in particolare, delle fattispecie di omicidio colposo (art. 589 c.p.) e lesioni colpose gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (oggi disciplinate dall’art. 590, comma III, c.p.).
La novella, tuttavia, non è stata accompagnata da alcun adattamento del criterio d’imputazione oggettivo -pacificamente fondato sul modello dell’illecito doloso – mostrando, sin da subito, il fianco ad un’incompatibilità concettuale e ontologica tra la non volizione dell’evento, caratterizzante le predette fattispecie colpose, e la proiezione finalistica sottesa all’interesse o la derivazione di un vantaggio in favore dell’ente[7].
Come autorevolmente rilevato[8], per i reati colposi di evento – diversamente da quanto accade per i colposi di mera condotta[9] – appare arduo dimostrare in sede processuale (per giunta, oltre ogni ragionevole dubbio) che la morte colposa o la lesione colposa aggravata del lavoratore siano state realizzate nell’interesse ex antedell’ente ovvero di un suo vantaggio economico ex post. D’altronde, come intuibile, l’evento delittuoso non genera alcun beneficio in capo all’ente ma, anzi, forti pregiudizi derivabili – inter alia – dagli obblighi risarcitori, dal danno di immagine, dall’aumento della conflittualità sindacale o, ancora, dalla riduzione della produttività.
Per evitare una paradossale interpretatio abrogans dell’art. 25 septies, allora, è stata prospettata – tanto in dottrina[10] quanto in giurisprudenza[11] – una rilettura delle disposizioni in esame in ottica conservativa: il focus dell’indagine circa l’interesse o il vantaggio dell’ente deve essere diretto non all’evento morte o lesioni quanto, piuttosto, alla condotta consistente nelle omissioni colpose determinanti i predetti eventi.
In particolare, è stato osservato che il requisito dell’interesse dell’ente ricorre ove la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, abbia consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica e, quindi, palesando una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa, indipendentemente dal suo effettivo raggiungimento. Il requisito del vantaggio, invece, appare pacificamente sussistente qualora la persona fisica abbia violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, determinando una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto[12].
Appare evidente, allora, come nella giurisprudenza di legittimità i criteri dell’interesse e del vantaggio nei reati colposi di evento assumano una prospettiva tutta patrimoniale, identificandosi come risparmio di risorse economiche derivante dalla mancata predisposizione delle misure antinfortunistiche ovvero come incremento economico conseguente all’aumento della produttività non ostacolata dal pedissequo rispetto delle medesime.
Merita, tuttavia, di essere evidenziato che la predetta soluzione ermeneutica è stata oggetto di aspre critiche dottrinali tese ad evidenziare come la limitazione dello spettro valutativo del giudice alla sola condotta, anziché all’evento naturalistico tipico delle fattispecie di cui agli artt. 589 e 590 c.p., determinerebbe il rischio di ravvisare l’interesse o il vantaggio «in re ipsa ovvero nello stesso ciclo produttivo in cui si è realizzata la condotta casualmente connessa all’infortunio, con conseguente sussistenza automatica dei presupposti della responsabilità amministrativa dell’ente»[13], con evidenti frizioni con i principi di legalità e colpevolezza costituzionalmente tutelati[14].
- Sistematicità delle violazioni della normativa in tema di sicurezza sul lavoro, l’alba di un nuovo requisito di introduzione giurisprudenziale?
Di recente, la Suprema Corte ha affrontato il tema della rilevanza della sistematicità delle violazioni della normativa cautelare; requisito a lungo richiamato nelle pronunce di legittimità quale elemento moderatore dell’affermazione di responsabilità in capo all’ente, una volta dimostrati il reato presupposto e il rapporto di immedesimazione organica dell’agente.
Ad allontanarsi da tale esegesi è stata la Quarta Sezione della Suprema Corte[15] che, evidenziando come la sistematicità non rilevi né quale elemento tipico della fattispecie di cui all’art. 25 septies né quale collegamento tra l’azione umana e la responsabilità dell’ente, ha chiarito come parrebbe «eccentrico rispetto allo spirito della legge ritenere irrilevanti tutte quelle condotte, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari». D’altronde, continua il Giudice di legittimità, il carattere della sistematicità presenta in sè un innegabile quoziente di genericità giacché «la ripetizione di più condotte, poste in essere in violazione di regole cautelari, potrebbe non essere ancora espressiva di un modo di essere dell’organizzazione e, quindi, di una sistematicità nell’atteggiamento anti doveroso». Posto che l’interesse della persona giuridica, nel contesto dei reati colposi di evento, si manifesta con la tendenza alla trasgressione delle regole antinfortunistiche finalizzata al contenimento dei costi di produzione o all’incremento dei profitti, in quell’occasione, la Suprema Corte concludeva affermando che «l’interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata, allorché altre evidenze fattuali dimostrino tale collegamento finalistico, così neutralizzando il valore probatorio astrattamente riconoscibile al connotato della sistematicità».
In altre parole, dunque, relativamente al criterio dell’interesse, la sistematicità delle violazioni è stata relegata ad un piano prettamente probatorio, quale possibile indizio della esistenza dell’elemento finalistico della condotta dell’agente e (formalmente) idoneo «a scongiurare il rischio di far coincidere un modo di essere dell’impresa con l’atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica»[16].
Con riferimento, invece, al criterio del vantaggio si ritiene che il connotato della sistematicità delle violazioni dalla normativa infortunistica possa essere valutato quale indice della sussistenza e consistenza dello stesso.
Sul punto, non può non evidenziarsi come inizialmente si fosse imposta l’esegesi secondo cui «ove il giudice di merito accerti l’esiguità del risparmio di spesa derivante dall’omissione delle cautele dovute, in un contesto di generale osservanza da parte dell’impresa delle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro […], ai fini del riconoscimento del requisito del vantaggio occorre la prova della oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto su quella della tutela della salute dei lavoratori quale conseguenza delle cautele omesse: la prova, cioè, dell’effettivo, apprezzabile (cioè non irrisorio) vantaggio (consistente nel risparmio di spesa o nella massimizzazione della produzione, che può derivare, anche, dall’omissione di una singola cautela e anche dalla conseguente mera riduzione dei tempi di lavorazione) non desumibile, sic et simpliciter, dall’omessa adozione della misura di prevenzione dovuta»[17].
Successivamente, però, la portata di tale principio di diritto è stata circoscritta ritenendo che lo stesso possa trovare applicazione soltanto in situazioni nelle quali l’infortunio «sia plausibilmente riconducibile anche a una semplice sottovalutazione del rischio o ad un’errata valutazione delle misure di sicurezza necessarie alla salvaguardia della salute dei lavoratori e non quando, come nel caso di specie, quel rischio sia stato valutato esistente dallo stesso datore di lavoro, e le misure per prevenirlo, indicate nel documento di valutazione del rischio, siano state poi consapevolmente disattese per un lungo periodo di tempo»[18].
In chiave ancor più restrittiva, il Giudice di legittimità, chiamato recentemente a sindacare la rilevanza di un risparmio di spesa modesto a fronte degli ingenti investimenti effettuati dalla società per la sicurezza, ha di fatto neutralizzato la portata dei principi fino a quel momento affermati in tema di vantaggio minimosostenendo che, affinché tale circostanza possa escludere la responsabilità dell’ente, «è pur sempre necessario che la violazione non insista su un’area di rischio di rilievo, perché diversamente risulta impraticabile sostenere l’assenza della colpa di organizzazione, rispetto ad una violazione di una regola cautelare essenziale per il buon funzionamento del sistema di sicurezza»[19].
In conclusione, non può non evidenziarsi come, una volta circoscritta la rilevanza della sistematicità delle violazioni cautelari ad un piano strettamente probatorio, lo spettro dell’attenzione della Suprema Corte si stia rapidamente spostando dal problematico criterio dell’interesse – ancora oggetto di numerosi dubbi dottrinali[20]– a quello del vantaggio, in un’ottica sempre più orientata alla limitazione delle chance di salvezza dell’ente alle sole inosservanze prevenzionistiche relative ad attività non sensibili dal punto di vista del rischio produttivo.
[1] L’espressione è di C.E. Paliero, La responsabilità penale della persona giuridica nell’ordinamento italiano: profili sistematici, in F. Palazzo (a cura di), Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, Padova, 2003, 24. Nel medesimo senso, G. Amarelli, I criteri oggettivi di ascrizione del reato all’ente collettivo ed i reati in materia di sicurezza sul lavoro. Dalla teorica incompatibilità alla forzata convivenza, in Diritto penale contemporaneo, 2013, 2.
[2] Sul punto, D. Pulitanò, La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri di imputazione, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2002, 425 ss.; C. De Maglie, L’etica e il mercato, Milano, 2002, 332; A. Manna, La responsabilità da reato degli enti, in A. Manna (a cura di) Diritto penale dell’impresa, Padova, 2010, 55; N. Selvaggi, L’interesse dell’ente quale criterio di ascrizione della responsabilità da reato colposo, in F. Compagna (a cura di), Responsabilità individuale e responsabilità degli enti negli infortuni sul lavoro, Napoli, 2012.
[3] Si veda, G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, 2008, 156 ss. il quale, peraltro, ha osservato come l’interesse sia «il canale di collegamento realmente indefettibile tra il reato commesso e la persona giuridica, mentre il vantaggio, pur essendo concettualmente ed empiricamente distinto dal primo, giuoca un ruolo sostanzialmente comprimario, ove riscontrabile, e comunque non realmente alternativo».
[4] Nella relazione di accompagnamento al D. Lgs. 8 giugno 2001 n. 231 si afferma che «il richiamo all’interesse dell’ente caratterizza in senso marcatamente soggettivo la condotta delittuosa della persona fisica e che “si accontenta” di una verifica ex ante; viceversa, il vantaggio, che può essere tratto dall’ente anche quando la persona fisica non abbia agito nel suo interesse, richiede sempre una verifica ex post».
[5] Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 3615, 30 gennaio 2006. Alle medesime conclusioni giungeva altresì A. Fiorella, voce Responsabilità da reato degli enti, in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 5101 ss.
[6] Così, Cass. pen., Sez. Un., sentenza n. 38343, 18 settembre 2014, Thyssenkrupp. Conformemente, ex pluris, Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 38363, 23 maggio 2018; Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 2544, 17 dicembre 2015 (dep. 2016).
[7] Circa la necessità di uno sforzo legislativo ulteriore relativo all’adeguamento di tali differenti tipologie di fattispecie ai criteri di imputazione oggettivi, si veda G. Amarelli, I criteri oggettivi di ascrizione del reato all’ente collettivo ed i reati in materia di sicurezza sul lavoro, cit., 12 ss.
[8] Sul punto, S. Dovere, La responsabilità da reato dell’ente collettivo e la sicurezza sul lavoro: un’innovazione a rischio d’ineffettività, in Resp. amm. soc. enti, 2008, 107.
[9] In argomento, si veda P. Veneziani, La responsabilità dell’ente da omicidio colposo, in F. Curi (a cura di), Nuovo statuto penale del lavoro, Bologna, 2011, 18.
[10] Con riferimento alle diverse soluzioni interpretative articolate dalla dottrina, si confronti T. Vitarelli, I reati in materia di sicurezza, dignità e correttezza del lavoro, in P. Severino-G. Lattanzi (a cura di), Responsabilità da reato degli enti. Volume I, 2021, 518 ss. Si evidenzia, inoltre, che la possibilità di un adattamento interpretativo del criterio dell’interesse era già stato ipotizzato, ancor prima dell’emanazione della novella legislativa, da D. Pulitanò, La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri di imputazione, cit., 425 ss.
[11] In primis, Cass. pen., Sez. Un., sentenza n. 38343, 18 settembre 2014, Thyssenkrupp; Cass. pen., Sez. V, sentenza n. 2544, 17 dicembre 2015 (dep. 2016); Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 24697, 20 aprile 2016.
[12] Ex pluris, Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 38363, 23 maggio 2018; Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 43656, 24 settembre 2019; Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 2848, 21 ottobre 2020; Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 22256, 3 marzo 2021; Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 39129, 12 luglio 2023.
[13] G. Zanalda, La responsabilità degli enti per gli infortuni sul lavoro, prevista dalla legge 3 agosto
2007 n. 123, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2007, n. 4, 100.
[14] In tal senso, S. Dovere, La responsabilità da reato dell’ente collettivo e la sicurezza sul lavoro, cit., 112; T. Vitarelli, Infortuni sul lavoro e responsabilità degli enti: un difficile equilibrio normativo, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2009, 707.
[15] Ci si riferisce, in primis, a Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 29584, 26 ottobre 2020. Conformemente, Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 4480, 17 novembre 2020 (dep. 2021); Cass. pen., Sez. IV, 24 marzo 2021, n. 12149; Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 4210, 31 gennaio 2024; Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 26293, 4 luglio 2024.
[16] Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 39129, 12 luglio 2023.
[17] Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 22256, 3 marzo 2021.
[18] Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 13218, 24 marzo 2022.
[19] Cass. pen., Sez. IV, sentenza n. 33976, 15 settembre 2022.
[20] Da ultimo, M. Riccardi–M. Chilosi, Work in progress: tendenze e controtendenze della giurisprudenza in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Verso una responsabilità prevenzionistica (individuale e collettiva) autenticamente colpevole?, in Giurisprudenza Penale web, 1/2024, 23 ss.