venerdì, Marzo 29, 2024
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Kiko contro Wycon e la tutela del concept store: la parola alla Cassazione

Kiko contro Wycon e la tutela del concept store: la parola alla Cassazione

a cura di Dott.ssa Emma Pane

L’idea di concept store

Nel retail sono sempre più diffusi i negozi con un’organizzazione degli spazi volta a rendere immediatamente riconducibile lo store all’azienda che produce i prodotti ivi venduti. Il  cd. concept store rappresenta, infatti, una particolare combinazione di arredi che contraddistingue i punti vendita di un’impresa attraverso un lavoro di architettura d’interni. Particolarmente diffusa è, però, la pratica di riprodurre il “concept” di arredamento da parte dei diretti concorrenti sul mercato delle imprese che vantano l’elaborazione dalla struttura architettonica del negozio.

Il caso e il giudizio di merito

Di particolare interesse è il caso Kico c. Wycon che si è concluso lo scorso aprile con la pronuncia della Cass. Civile Sent. Sez. I n. 8433 del 2020. 

La Kiko S.p.A azienda operante nel settore della cosmesi, aveva incaricato, nel 2005, lo Studio I.G. Associati srl di realizzare progetto di arredo per i propri negozi, pertanto, era proprietaria, dal luglio 2006, di un relativo modello dal titolo “design di arredi di interni per negozi monomarca” di cui vantava il diritto d’uso esclusivo. La stessa nel 2013 dava inizio ad una lunga vertenza, ancora oggi non definita per quanto attiene ai profili relativi alla concorrenza parassitaria e alla liquidazione del danno, nei confronti della Wycon s.p.a. per l’accertamento delle violazioni ex art. 2598 c.c. “concorrenza sleale” nonché ex art 2 n.5 L. A.[1]. Ciò in quanto l’impresa concorrente riproduceva, a parere della Kiko, indebitamente gli elementi, aventi originale combinazione nel loro insieme, e violava il diritto di esclusiva sul progetto di architettura commissionato. 

giudici di primo grado sposando la tesi di parte attrice sostenevano che: “la sua tutelabilità in base all’art. 2, n. 5 L.A. è unanimemente affermata dalla dottrina e confermata dalla giurisprudenza di merito che finora ha affrontato tale questione (v. tra le più recenti Tribunale Milano, 8.2.2011), laddove – come in generale nelle opere di architettura – la progettazione costituisca un risultato non imposto dal problema tecnico funzionale che l’autore vuole risolvere. In tale contesto il carattere creativo, requisito necessario per la tutela, può essere valutato in base alla scelta, coordinamento e organizzazione degli elementi dell’opera, in rapporto al risultato complessivo conseguito.[2].

Nell’impugnare la succitata sentenza la Wycon ha eccepito l’erronea individuazione della normativa applicabile operata in prime cure. Per l’appellante un progetto di arredamento di interni non va qualificato come opera architettonica, ma piuttosto come interior design, e pertanto tutelato, ex art. 2, n. 10 della legge sul diritto d’autore, come opera di disegno industriale. Si specifica che per le opere di disegno industriale la tutela ex lege è subordinata al riconoscimento del valore artistico attraverso oggettivi segni di riconoscimento (ad esempio la vittoria di premi) inesistenti secondo gli appellanti nel caso della Kiko.

La Corte d’appello, investita della questione, ribadiva, invece, che che il concept store rientra nel lavoro architettonico protetto dalla legge sul diritto d’autore[3].

Per il Collegio infatti vi è una linea di demarcazione tra interior design e architettura di interni.

Il primo concetto è riferibile ai singoli elementi che compongono l’arredamento, mentre per architettura di interni si deve intende il complesso dell’arredamento. Sulla base di tale differenza, la Corte ha ritenuto che il concept store, come nel caso in esame, preveda un’idea unitaria che include un insieme complessivo di elementi caratterizzante l’interno dei punti vendita. Alla luce di tali considerazioni la disciplina applicabile risulta essere quella più favorevole prevista dall’art. 2 n. 5 l.a.

La decisione della Cassazione

Gli Ermellini, dunque, nel recentissimo arresto dell’aprile u.s. (disponibile per il download qui) fanno proprio l’orientamento delle corti di merito. Secondo la Cassazione, infatti, “un progetto o un’opera di arredamento di interni, nel quale vi sia una progettazione unitaria, in uno schema in sè visivamente apprezzabile, che riveli una chiara “chiave stilistica”, di singole componenti organizzate e coordinate per rendere l’ambiente funzionale ed armonico, ovvero l’impronta personale dell’autore, è proteggibile come progetto di opera dell’architettura, ai sensi dell’art. 5, n. 2 L.A. (“i disegni e le opere dell’architettura”), a prescindere dal requisito dell’inscindibile incorporazione degli elementi di arredo con l’immobile, non presente nella suddetta disposizione, o dal fatto che gli elementi singoli di arredo che lo costituiscano siano o meno semplici ovvero comuni e già utilizzati nel settore, purchè si tratti di un risultato di combinazione originale, non imposto da un problema tecnico-funzionale che l’autore vuole risolvere” (Cass. 5301/1999)[4].

Il progetto di architettura di interni non è infatti tutelabile, come ritenuto dalla ricorrente, esclusivamente, in quanto modello di design industriale, ai sensi dell’art. 2, n. 10 L.A., attraverso la protezione dei singoli elementi di cui il piano di arredamento si compone. Gli stessi, in tal caso, sarebbero pensati in modo tale da potere essere essere utilizzati anche separatamente e non solo in combinazione tra loro. Gli arredi, unitariamente considerati sono proteggibili alla condizione che sia effettivamente presente un “valore artistico” oggettivo, alternativamente, potrebbero essere tutelabili ex art. 99 L.A. quali progetti di lavoro di ingegneria, laddove costituiscano “soluzione originale di un problema tecnico“.

Nel caso in esame, però, per la Corte, la disciplina correttamente applicabile è quella prevista dall’art. 2 n. 5 L. A.. Infatti, non rileva il fatto che il negozio sia costituito da vari elementi strutturali già esistenti singolarmente e utilizzabili uti singuli. Ciò che appare rilevante è la loro originale combinazione. Detta combinazione, per qualificare il concept store come opera architettonica, non deve essere collegata esclusivamente alla risoluzione di un problema tecnico-funzionale, ma deve esprimere un’idea artistica ed innovativa. Il concept deve essere riconducibile, infatti, all’espressione della creatività dell’autore, e solo in questo caso potrà essere tutelato come opera artistica e non come modello di design industriale. Per la Corte, in linea di principio, l’opera dell’ingegno è protetta dall’ordinamento purchè presenti un qualche elemento o una qualche combinazione che sia originale, frutto della creatività, ancorchè minima del suo autore (Cass. 908/1995), tale da poterla identificare, pur inserendosi in un genere assai diffuso, per essere un prodotto singolare dell’autore e da poter essere distinta da opere analoghe (Cass. 7077/1990). 

Si è così arrivati a concepire la nozione di concept store quale lavoro architettonico unitario, seppur composto da una pluralità di elementi strutturali, purché lo stesso esprima nell’insieme una concezione artistica ed innovativa unitaria e in quanto tale tutelabile ai sensi della legge sul diritto d’autore. Dunque, questa innovativa pronuncia si rivela determinante per tutte quelle aziende che fanno del concept store un asset commerciale fondamentale (es: si pensi alla Apple e ai suoi iconici Apple Store).

[1] Legge 22 aprile 1941 n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, disponibile qui: http://www.interlex.it/testi/l41_633.htm

[2] Tribunale di Milano, sentenza n. 11416 del 13 ottobre 2015.

[3] Corte d’Appello di Milano, sentenza n. 1543 del 26 marzo 2018.

[4] Cass. Civile, Sez. I, sentenza n. 8433 del 2020.

 

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