venerdì, Aprile 19, 2024
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La buona fede nel diritto civile: un’arma per la gestione delle sopravvenienze?

A cura della Dott.ssa Sara Silvestrini 

 

La gestione legale delle sopravvenienze tipiche

La disciplina delle sopravvenienze nell’ambito di un rapporto contrattuale, in virtù della normativa codicistica, assume le sembianze di un sistema rigido. La legge, lungi dal predisporre un meccanismo di tutela generale ed atipico dell’originario equilibrio pattuito, ha preferito delimitare l’ambito applicativo dei rimedi predisposti.

Basti pensare, ad esempio, all’ipotesi di impossibilità sopravvenuta contemplata ex art. 1463 c.c. Essa è destinata ad operare solo nel caso in cui si tratti di contratti a prestazioni corrispettive. La medesima limitazione è rinvenibile ai sensi dell’art. 1467 c.c. Quest’ultimo, non solo subordina l’operatività del rimedio ablativo al requisito da ultimo enunciato, ma presuppone che si tratti di contratti ad esecuzione continuata, periodica o differita e che, inoltre, l’onerosità sia eccessiva. Analoga regolamentazione, per altro, è destinata ad operare anche nel caso in cui si tratti di contratto con obbligazioni a carico di una sola parte (artt. 1333 c.c. e 1468 c.c.).

Alla luce di quanto affermato è ragionevole chiedersi quale sia la sorte del contratto nel caso in cui l’assetto originariamente predisposto dovesse subire una sopravvenienza atipica. La puntualità della disciplina normativa, i principi ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuite pacta sunt servanda, lasciano presumere che la voluntas legistenda verso l’ immutabilità dell’assetto predisposto.

Tuttavia, una siffatta conclusione si pone in palese contrasto con l’art. 1375 c.c., il quale impone che, in sede di esecuzione del contratto, deve applicarsi la regola della buona fede.

A livello sistematico, è utile il richiamo dell’art. 1467, comma 3, c.c.  e dell’art. 1450 c.c. Tali norme attribuiscono un diritto potestativo nei confronti della parte nei cui confronti viene demandata la risoluzione o la rescissione del contratto. In particolare, la caducazione del rapporto può essere evitata nel caso in cui questa offra (mediante l’esercizio di un diritto potestativo) una equa modificazione delle condizioni originariamente pattuite. Il medesimo approccio è rinvenibile, ai sensi dell’art. 1664 c.c., in tema di appalti.

Una lettura evolutiva delle disposizioni appena menzione potrebbe far dedurre che, nonostante la mancanza di una previsione esplicita in tal senso, tra le maglie del codice sia possibile cogliere l’esistenza di un principio generale che impone di adattare l’assetto del contratto alle sopravvenienze.

Mediante l’utilizzo delle clausole generali della buona fede, dell’equità e della correttezza, pertanto, si potrebbe rimediare alla predetta lacuna legislativa.

La dottrina, dal canto suo, obietta che un utilizzo indiscriminato di tali concetti potrebbe minare il principi della certezza del diritto e della separazione dei poteri.

Le novità enunciate dalla relazione n. 56 dell’ufficio del massimario e del ruolo della Suprema Corte di Cassazione[1]

La relazione n. 56 dell’ufficio del massimario e del ruolo della Suprema Corte di Cassazione prende atto delle perplessità analizzate nel paragrafo precedente, con specifico riguardo in rapporto alle problematiche emerse in relazione all’emergenza pandemica legata alla diffusione del virus COVID-19.

Il susseguirsi di provvedimenti limitativi in ordine allo svolgimento di attività economiche ha provocato dissesti patrimoniali in danno di privati che, già nel periodo pre-pandemia, si trovavano in una posizione debitoria. In virtù del principio genus numquam perit, qualora l’oggetto della prestazione sia rappresentato dalla dazione di una somma di denaro, è precluso, alla parte debitrice, invocare la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta. Sul punto, la Relazione del Ministro Guardasigilli al codice civile, è chiara: “non può, agli effetti liberatori, essere presa in considerazione l’impossibilità di adempiere l’obbligazione, originata da cause inerenti alla persona del debitore o alla sua economia, che non siano obiettivamente collegate alla prestazione dovuta”. Ciò che rileva, ai fini dell’operatività dei meccanismi rimediali previsti dal codice, è che l’impedimento sia di natura oggettiva ed assoluta. Nessun debitore, in quella medesima situazione e con l’utilizzo dell’ordinaria diligenza, potrebbe eseguire correttamente la prestazione.

Dalla relazione n. 56 si evince che le attuali criticità rappresentano l’occasione per poter affrontare un tema da tempo caro alle Corti nazionali e sovranazionali, ossia quello inerente alla sussistenza o meno dell’obbligo di rinegoziazione del contratto[2]. In caso di risposta affermativa, il problema della gestione delle sopravvenienze atipiche che alterino in modo significativo gli equilibri prestabiliti, potrebbe ritenersi definitivamente risolto.

Il documento oggetto di analisi, superando le critiche della dottrina, si mostra compiacente nei confronti di tale soluzione.

Nello specifico, si afferma che il combinato disposto delle disposizioni contenute negli artt. 1374, 1375 e 1366 c.c., è idoneo alla configurazione di un più generale obbligo di rinegoziazione.

In via preliminare, si afferma tale soluzione non determini il sacrificio della libertà di autodeterminazione dei privati, “poiché la rinegoziazione tende, non a comprimere, bensì a realizzare la volontà delle parti”. Al contrario, l’intento è quello di consentire alle parti di ripristinare quell’equilibrio che, inizialmente, aveva determinato la nascita dell’accordo.

L’obbligo, in quanto nascente da una clausola generale, presuppone che i relativi parametri di operatività si adattino alla natura dell’affare, agli usi ed alle circostanze del caso concreto.

Non può aversi certezza in ordine al buon esito della rinegoziazione – ossia in ordine alla stipulazione di un nuovo contratto adeguato alle sopravvenienze – per ragioni che attengono ad un aspetto intrinseco al contenuto dell’obbligo stesso. Questo, infatti, si limita ad imporre alle parti lo svolgimento di una contrattazione secondo il canone della buona fede, ma non anche di concludere il contratto modificativo.

L’ostacolo non può essere superato neppure attraverso l’assimilazione dell’istituto in questione al contratto preliminare. Quest’ultimo, in quanto produttivo di effetti obbligatori, è destinatario di una disciplina ad hoc.  La conclusione del definitivo si impone in forza della volontà delle parti stesse, le quali, mediante la stipulazione del primo contratto, hanno concordemente pattuito di auto-vincolarsi per il futuro.

L’obbligo di rinegoziare, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale, non potrebbe aspirare ad un simile risultato. Pertanto, si potrà parlare di inadempimento solo nel caso di rifiuto ingiustificato – imputabile ad una delle parti – in ordine al ripristino delle trattative o, comunque, nella sostanziale mancanza di collaborazione.

La diversa natura che connota il contratto preliminare e l’obbligo di rinegoziare si coglie anche in relazione alla possibilità o meno, in caso di patologia, di applicare l’art. 2932 c.c. Il paradigma normativo stabilisce che il giudice, soltanto nel primo caso, può pronunciare una sentenza che tenga luogo del contratto definitivo. Ciò in quanto, in questa ipotesi, il dictumè attuativo di una volontà che i privati hanno già espresso.

La genialità della relazione, tuttavia, si è manifestata soprattutto in relazione a questo ambito.

È stato stabilito che, nel caso in cui una delle parti dovesse rifiutarsi, senza giustificato motivo, di portare a conclusione le trattative, il magistrato può provvedere all’adeguamento delle condizioni prestabilite. In presenza di una pattuizione, seppure riconducibile al volere dei contraenti soltanto in maniera fittizia, diviene possibile l’esperimento dell’azione exart. 2932 c.c.

Non si può ignorare l’impossibilità, per il giudice, di sostituirsi alle parti in merito alla determinazione del contenuto del contratto. In ragione di tale limite, i redattori della relazione hanno avuto la premura di precisare che la decisione “non può avvenire sulla scorta di un metro casuale, soggettivo o arbitrario, dovendo calibrarsi su elementi rigorosamente espressi dal medesimo regolamento negoziale”. Il presupposto dell’ intervento giudiziale e dell’operatività dell’art. 2932 c.c., è rappresentato, quindi, dall’avvio della procedura rinegoziativa.  In questo modo i margini di creatività in sede processuale si riducono drasticamente.

Considerazioni conclusive

La tesi evolutiva, espressa nella relazione sopra esaminata, al pari di ogni altra teoria di matrice giurisprudenziale, rischia di scardinare la certezza del diritto e la voluntas legis. Tuttavia, l’importanza dell’organo giurisdizionale da cui essa promana ed il progetto – avanzato da parte dell’Associazione Civilisti Italiani – di introdurre all’interno del codice civile l’art 1468 bis[3], inducono a ritenere che un ripensamento della disciplina in tema di rinegoziazione – anche da un punto di vista normativo –  sia oltre che necessario, anche inevitabile.

[1]Roma, 8 luglio 2020.

[2]Nulla quaestiosul fatto che tale obbligo è presente  nel caso in cui le parti lo abbiano esplicitamente inserito all’interno del contratto. Allo stesso modo, nell’ambito della contrattazione internazionale, esso sussiste nel caso di inserimento di apposita clausola (hardship).

[3]Si tratta di un articolo che dovrebbe positivizzare l’obbligo di contrarre.

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