venerdì, Aprile 19, 2024
Criminal & Compliance

La c.d. “tortura di Stato”: analisi dell’art. 613-bis c.p. alla luce della recente giurisprudenza di legittimità

A cura di  Luca Piatti

 

1. Introduzione

Con l’espressione “tortura di Stato” si indica la condotta del pubblico ufficiale che commette violenze o gravi minacce nei confronti di una persona priva della libertà personale, al fine di punirla, intimidirla od ottenere informazioni: si tratta di un’espressione recentemente coniata dalla Corte di cassazione e che trova riferimento normativo nel secondo comma dell’art. 613-bis c.p.

Detto comma, infatti, punisce con la reclusione da cinque a dodici anni il pubblico ufficiale che commette le condotte di cui al comma 1 (“violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona[ndo] acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico”), abusando dei propri poteri o comunque violando i doveri inerenti alla propria funzione.

Per la verità, si potrebbe persino dubitare della configurabilità di una tortura che non sia “di Stato”, dal momento che la previsione del primo comma dell’art. 613-bis c.p. (vale a dire le condotte poste in essere da soggetti privi della qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) rimane pressoché totalmente disattesa nei fatti e nella giurisprudenza più recente.

La Cassazione, invero, ha giustificato la presenza del primo comma dell’art. 613-bis c.p., da un lato sulla scorta “dell’esperienza proveniente dalla realtà criminologica che dimostra come la tortura possa assumere anche una dimensione inter-privatistica”, e dall’altro poiché “coerente con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che interpreta il divieto di tortura di cui all’articolo 3 CEDU come riferito a tutti i soggetti dell’ordinamento, pubblici o privati che siano[1].

In senso opposto volge l’art. 1 della Convenzione ONU del 1984, che chiarisce espressamente che la fattispecie di tortura si ritiene integrata in presenza di un rapporto di gerarchia fra torturante e torturato e, in particolar modo, che le sofferenze siano inflitte “da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito[2].

Riprendendo la citata Convenzione, la Suprema Corte ha di recente avuto modo di chiarire che la fattispecie ex comma 2 dell’art. 613-bis c.p. integrerebbe un’ipotesi autonoma di reato, svincolata nei requisiti e nella forma dalla previsione di cui al comma 1. Si sottolinea condivisibilmente in proposito che “la tortura pubblica non può assumere la forma circostanziale rispetto a quella privata, ma costituisce un reato autonomo sia per la natura del soggetto attivo, sia per l’indipendenza del trattamento sanzionatorio rispetto alla tortura privata e sia per la necessità di un obbligo di incriminazione specifico di quest’ultima fattispecie, non anche dell’altra, obbligo che sarebbe da considerare disatteso, con diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse il secondo comma dell’articolo 613-bis del codice penale una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali[3].

  1. Panoramica sul delitto di tortura dal 2017 ad oggi.

Fin dalla sua introduzione, per opera della legge 14 luglio 2017, n. 110, l’art. 613-bis c.p. è stato al centro di numerosi dibattiti dottrinali e parlamentari. La previsione di una tortura “di Stato”, infatti, rispondeva all’esigenza di tutelare la collettività da abusi di potere da parte delle Forze dell’Ordine, in particolare a seguito dei noti episodi della scuola Diaz di Genova in occasione del G8 del 2001 e dell’omicidio del giovane Stefano Cucchi.

La rilevanza mediatica delle vicende menzionate, oltre alle plurime condanne della Corte EDU riportate dal nostro Paese in tema di tortura, hanno senz’altro accelerato l’iter parlamentare di approvazione della legge n. 110/2017[4]: come rileva una voce in dottrina, tuttavia, “l’ansia di criminalizzazione ad ampio raggio che ha mosso i due rami del Parlamento consegna all’interprete una disposizione caratterizzata da forti deficit di determinatezza[5], sui quali è poi dovuta intervenire la giurisprudenza per meglio specificare il perimetro della fattispecie.

Quanto agli elementi costituitivi della fattispecie, la giurisprudenza di legittimità ha statuito che il reato di cui all’art. 613-bis c.p. è un delitto “ a dolo generico, formalmente vincolato per le modalità della condotta (violenze o minacce gravi, crudeltà), per l’evento naturalistico (acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico)  e per il soggetto passivo (persona privata della libertà personale o affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza della gente, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa), [che necessiti] di una condotta plurima o abituale, o in alternativa, che il fatto comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona[6].

Parimenti, la medesima sentenza ha individuato il bene giuridico tutelato dalla norma in esame nella “libertà morale o psichica, comunemente intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni psichiche[7]. Tale pronuncia coglie altresì l’occasione per specificare che il “trauma psichico” citato nella norma vada inteso quale “evento che, per le sue caratteristiche, risulta non integrabile nel sistema psichico pregresso della persona, minacciando di frammentare la coesione mentale”, potendo rilevare anche per una condizione critica temporanea e dovendo peraltro essere necessariamente “verificabile”, vale a dire che trovi un riscontro oggettivo attraverso l’accertamento probatorio[8].

In merito alla crudeltà della condotta, la Cassazione ha chiarito a più riprese che “integra un requisito di natura prettamente valutativa, e intrinsecamente dotato di forte carica valoriale”, che si concretizza in presenza di un comportamento eccedente rispetto alla normalità causale, provocando nella vittima sofferenze aggiuntive rispetto a un normale atto persecutorio.

  1. La posizione della Suprema Corte sui fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Durante le prime fasi della pandemia, il timore che il carcere potesse trasformarsi in un incontenibile focolaio infettivo e l’intransigenza dei provvedimenti adottati dal Governo per limitare la diffusione del contagio, hanno dato origine a minacciose proteste da parte dei detenuti, sfociate poi in gravi disordini e violenze in diverse carceri della Penisola. Fra questi disordini, ben si ricorderanno quelli del carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove alcuni agenti della polizia penitenziaria si sono resi protagonisti di atti di violenza e umiliazione nei confronti di detenuti particolarmente facinorosi[9].

Con la recente sentenza n. 8973 del 9 novembre 2021 (depositata il 16 marzo 2022), la Quinta Sezione della Cassazione ha preso posizione in sede cautelare su tali fatti, rigettando le pretese del ricorrente di specie (nel caso in esame, il Comandante della Polizia Penitenziaria sottoposto alla misura degli arresti domiciliari), che lamentava da un lato la sostanziale estraneità ai fatti oggetto di contestazione (in particolare, poiché privo di qualsivoglia potere decisionale nell’ambito della “perquisizione straordinaria” organizzata in quei giorni, nonché in quanto ignaro sulle modalità violente della condotta stessa) e dall’altro deduceva la precarietà delle esigenze cautelari poste alla base della decisione del Tribunale, attesa l’eccezionalità e la contingenza della situazione sanitaria di quel periodo.

Con l’occasione, gli Ermellini compiono un’accurata analisi della fattispecie di cui all’art. 613-bis c.p., statuendo in primo luogo che “il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona[10], richiamando in proposito la già menzionata pronuncia della Quinta Sezione n. 47079 del 2019.

A parere della Corte, inoltre, “ai fini dell’integrazione del delitto di tortura di cui all’art. 613-bis, comma primo, cod. pen., la locuzione “mediante più condotte” va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico”.

A differenza di quanto stabilito dal Tribunale delle Libertà, che qualificava la responsabilità dell’indagato come omissiva ex art. 40 cpv. c.p., sulla base del fatto che lo stesso non fosse presente nei luoghi delle violenze, pur avendo “il dovere di garantire il rispetto della legalità, e l’obbligo giuridico di impedire gli eventi poi verificatisi”, la Cassazione ribalta l’impostazione di merito, giungendo ad affermare che si tratta di responsabilità – materiale e morale – commissiva, per aver concorso in condotte legate da un nesso eziologico con l’evento lesivo (c.d. modello di tipizzazione causale).

Quanto all’elemento soggettivo, la Corte evidenzia che anche nell’ipotesi in cui la tortura assuma forma abituale non è necessario un dolo di tipo unitario, essendo “sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte”. Ciò per affermare come lo stesso ricorrente avesse piena consapevolezza delle operazioni di perquisizione straordinaria e delle successive vessazioni nei confronti dei detenuti, alle quali ha partecipato in qualità di vero e proprio organizzatore[11].

Rispetto all’attualità delle esigenze cautelari, infine, non rileva a parere della Corte la circostanza per cui fosse già intervenuta per l’indagato una sospensione cautelare in sede disciplinare: per consolidato orientamento giurisprudenziale, infatti, “il pericolo di reiterazione riguarda la commissione di astratti reati della stessa specie e non del concreto fatto reato oggetto di contestazione” (sul punto, Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 70, 24 settembre 2018). Integrando la tortura un reato comune a base violenta, non è richiesta una motivazione sull’attualità del pericolo di reiterazione del reato, atteso che non sussiste un rapporto qualificato tra l’autore e il bene giuridico tutelato.

[1] Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 47079, 8 luglio 2019.

[2] Art. 1 della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984.

[3] Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 32380, 25 maggio 2021, con commento di A. Colella, Pronunciandosi per la prima volta nel merito sull’art. 613-bis c.p., la Cassazione aderisce alla tesi della tortura c.d. di Stato come fattispecie automa di reato, 12 aprile 2022, disponibile in www.sistemapenale.it. L’orientamento precedente della Suprema Corte optava invero per la qualificazione della fattispecie di tortura “di Stato” come mera aggravante dell’ipotesi di cui al primo comma (cfr. Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 50208, 11 ottobre 2019).

[4] Sul punto, S. Tunesi, Il delitto di tortura. Un’analisi critica, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 11.

[5] I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613 bis c.p., in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 7/8, p. 166.

[6] Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 47079, 8 luglio 2019.

[7] Ibidem, Considerato in diritto § 5.

[8] Ibidem, Considerato in diritto § 6.7.

[9] La sentenza della Cassazione in esame parla di “violenza cieca ai danni di detenuti che, in piccoli gruppi o singolarmente, si muovevano in esecuzione degli ordini di spostarsi, di inginocchiarsi, di mettersi con la faccia al muro”.

[10] Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 8973, 9 novembre 2021 (dep. 16 marzo 2022), Considerato in diritto, § 2.4.

[11] Sul punto, si rinvia alla ricostruzione in fatto operata dalla sentenza in esame.

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