La Cassazione Penale: il confine tra funzione nomofilattica e paura dell’errore.
Una riflessione sul ruolo della Cassazione come giudice di legittimità. Quando il passato e il presente si scontrano.
La Suprema Corte di Cassazione, tanto ossequiata, tanto venerata; il giudice di legittimità cui affidiamo il compito di vegliare sull’ “esatta osservanza e uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale” (lo dice l’articolo 65 dell’ordinamento giudiziario del 1941). Essa è degna della nostra cieca fiducia, dice e fa ciò che deve essere detto e fatto. Ma “suprema” non è semplicemente un appellativo adulatorio, quanto piuttosto aggettivo esplicativo della sua natura. Essa è l’apice gerarchico del nostro sistema giurisdizionale. Ricorrendo per Cassazione espiamo quella che Iacoviello chiama la “nostra nevralgica paura dell’errore”. I giudici, oggi, hanno paura di sbagliare. E noi, d’altra parte, dubitiamo delle loro capacità di giudizio. E così agli errores in procedendo e in iudicando abbiamo trovato un rimedio: ricorrere per Cassazione.
Che il giudice sbagli è un dato di fatto. Lo dimostrano le circa 50.000 sentenze penali che il nostro giudice di legittimità pronuncia all’anno. Una quantità di ricorsi indubbiamente straordinaria. Vien da chiedersi se l’Italia non sia affetta da una epidemia dell’errore. Perché, se la risposta è affermativa (e, stando così le cose, l’ago della bilancia pende indubbiamente in questa direzione), c’è da preoccuparsi.
Errare humanum est. Ma perseverare è diabolico. Volendo dare fiducia alla classe dei magistrati e credere che non tutti pronuncino sempre decisioni non corrette, allora qualcosa non funziona nel sistema, qualcosa non è andato a buon fine. Ma cosa?
Partiamo dalle origini. La Cassazione trova il suo antenato nel Tribunal de cassation (a sua volta avente le radici nella querela nullitatis), frutto del sogno francese di matrice illuminista: la giustizia come opera della legge e non del giudice. Corollario sono la separazione tra fatto e diritto e un sistema giurisdizionale orizzontale: nessun giudice di terza istanza, tiranno verso la legge, ma organi pari ordinati. Il Tribunal de cassation raccoglie queste istanze dando corpo ad un giudice non del processo, ma della sentenza resa in ultimo grado, che si occupa del diritto e non del fatto.
Due sono i motivi di ricorso per cassazione: error in iudicando, quando c’è una contravvenzione espressa al testo della legge; ed error in procedendo, esclusivamente in caso di violazione delle forme procedurali prescritte a pena di nullità.
Nasce così per la prima volta un organo di nomofilachia, il cui compito istituzionale è “mantenir l’unité de législation et de prevenir la diversité de jurisprudence”, espressione non molto dissimile da quella usata oggi dalla legge sull’ordinamento giudiziario all’articolo 65. Organo, insomma, nato con l’avvento delle codificazioni moderne e che si pone in continuità con l’operato del legislatore, volto a garantire la certezza del diritto nel senso di “stabilità dell’ordinamento giuridico”.
Col tempo il Tribunal de cassation muta e si evolve, diventando il vertice del sistema giuridico. Ma la situazione è ben diversa rispetto al passato. Il giudice ora è “illuminato”, a dispetto di quelli operanti nell’Ancien régime, e così la minaccia di una sua tirannia verso la legge è sempre più remota. Allo stesso tempo viene meno la diffidenza verso un sistema giurisdizionale di carattere verticale. Cambia, poi, il modo di intendere il diritto. L’interpretazione giurisprudenziale, prima vietata, diventa addirittura doverosa. Si rafforza la funzione nomofilattica della Cassazione, sorge l’obbligo per il giudice di merito di motivare le sue decisioni, si trasformano i motivi di ricorso.
L’istituto della Cassazione che viene introdotto in Italia è ben diverso da quello che nasce dalle ceneri del fuoco della Rivoluzione Francese poiché differente è il contesto storico. L’Italia non aveva conosciuto alcuna rivoluzione e così non fu la necessità culturale a determinare il suo accoglimento nel sistema giuridico, ma le armate napoleoniche. Inoltre, altro era l’organo supremo conosciuto: la Terza Istanza. Ma qual è la differenza tra i due organi?
La Terza Istanza è giudice del processo e non della sentenza. La Cassazione, invece, non giudica alcuna delle due: è giudice della legalità della sentenza. La sua funzione, quindi, è di controllo e non di giudizio, come quella della Terza Istanza. Conosce solo il diritto, laddove l’altro organo giurisdizionale estende la sua cognizione al merito della causa, proseguendo il giudizio in ultimo grado.
E questo organo giurisdizionale innovativo fu inizialmente accolto in Italia come un forestiero in terra straniera, estraneo e quasi minaccioso.
Fatto sta che alla fine prevalse la Cassazione, giudice di legittimità dinanzi al quale si svolge un giudizio a critica vincolata. Ma tutti questi caratteri tipici della Cassazione, in primis la separazione tra fatto e diritto, sono validi tuttora?
La verità è che bisogna prendere atto che la Cassazione è cambiata perché i tempi sono cambiati. L’organo giurisdizionale figlio dell’illuminismo giuridico non esiste più, ma ciò che è vivo è un istituto diverso che risponde ad istanze differenti. Ed esso non potrà mai funzionare adeguatamente se non si ammette la possibilità di un cambiamento interno, in coerenza con i mutamenti esteriori.
Innanzi tutto il mito della tipicità della norma incriminatrice è tramontato con l’affermarsi del principio di offensività, da un lato, e l’utilizzo di termini vaghi e poco chiari (in beffa a principi di legalità e di certezza del diritto), dall’altro. Protagonista indiscusso delle norme incriminatrici è oggi lo standard di giudizio: l’elemento normativo non trova più la sua ragion d’essere nella realtà, ma richiede un giudizio logico e va costruito dal giudice tenendo conto di fatti, valori e ragioni. Le questioni di diritto sono diventate questioni di fatto, e così il potere cognitivo della Cassazione si espande, invadendo l’aria sacra della quaestio facti. Ma non solo.
Il male maggiore che affligge oggi la nostra Cassazione è l’ipertrofia: un carico di lavoro troppo pesante per qualsiasi giudice, ancor più per quello che avrebbe il compito istituzionale di garantire l’unità del diritto oggettivo nazionale. E questa ipertrofia inevitabilmente si trova a gravare sulla funzione nomofilattica della Cassazione: di fronte alla forte pressione dovuta all’immensità dei ricorsi proposti ogni anno, essa assume sempre più i connotati di un giudice di terza istanza piuttosto che di legittimità. Il ricorso per Cassazione, originariamente concepito come un esito anomalo del processo dovuto al prospettarsi di questioni di diritto, è divenuto invece parte dello svolgersi normale dell’attività giurisdizionale, come se ogni giudizio dovesse necessariamente concludersi in terzo grado, cioè dinanzi alla Cassazione.
Non più, quindi, uno strumento a tutela del ius constitutionis, cioè della legge, ma garanzia del ius litigatoris, operante quindi nell’interesse delle parti e non della certezza del diritto e del principio costituzionale di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Perché? Ancora una volta, la risposta è la paura dell’errore. Come chiaramente rilevato da Iacoviello, abbiamo così tanta paura di sbagliare che preferiamo puntare tutto sulle impugnazioni piuttosto che elaborare una teoria pratica dell’inammissibilità che ci consentirebbe di far funzionare adeguatamente i filtri che l’ordinamento ci mette a disposizione. A partire dal filtro legittimità-merito. Ma anche il filtro dell’interesse al ricorso, che richiede una valutazione caso per caso della sua attualità, concretezza e dell’esistenza di un pregiudizio socialmente apprezzabile.
Ma la distorsione della funzione nomofilattica trova una delle sue ragion d’essere anche nello stesso principio costituzionale per cui “contro le sentenze… è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge“, espresso nel comma 7 dell’articolo 111. Tale norma, che implicitamente ed indirettamente riconosce la funzione attribuita alla Cassazione dall’articolo 65 dell’ord. giudiziario, sembra assecondare il ius litigatoris poiché nessuna sentenza può sfuggire al ricorso per cassazione, anche se di scarsa rilevanza sociale o di basso valore pecuniario.
A quale conclusione possiamo dunque pervenire? Bisogna rendersi conto che così le cose non vanno. E non è agendo sulla quantità dei ricorsi che verranno risolti i problemi, ma è necessario ripensare la Cassazione alla luce del nuovo contesto storico-giuridico. Un ritorno al passato è improbabile quanto non auspicabile. Piuttosto, bisogna ridare alla Cassazione la funzione di giudice di legittimità nella prospettiva di assicurare la certezza del diritto e l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, ma senza dimenticare che il diritto è cambiato.
Raccontarsi in poche righe non è mai semplice, specialmente laddove si intende evitare l’effetto “lista della spesa”. Cosa dire di me, dunque, in questa piccola presentazione per i lettori di “Ius in itinere”? Una cosa è certa: come insegnano le regole di civiltà e buona educazione, a partire dal nome non si sbaglia mai.
Mi chiamo Laura De Rosa e sono nata nella ridente città di Napoli nel 1994. Fin da bambina ho coltivato la mia passione per la scrittura, che mi ha portato a conseguire col massimo dei voti nel 2012 il diploma classico presso il liceo Adolfo Pansini. Per lungo tempo, così, greco e latino sono stati per me delle seconde lingue, tanto che al liceo rimproveravo scherzosamente la mia professoressa di greco accusandola del fatto che a causa sua parlassi meglio delle “lingue morte” piuttosto che l’inglese. Tuttavia, ciò non ha impedito che anche io perdessi la mia ignoranza in proposito e oggi posso vantare un livello B2 Cambridge ed una forte aspirazione al C1. Parlo anche un po’ di spagnolo e, grazie al programma Erasmus Plus che mi ha portato nella splendida Lisbona, ora posso dire con fierezza che il portoghese non è più per me un mistero.
Sono cresciuta in un ambiente in cui il diritto è il pane quotidiano ed ho sempre guardato a questo mondo come a qualcosa di familiare e allo stesso tempo estraneo, perché talvolta faticavo a comprenderlo. Approcciata agli studi legali, invece, la mia visione delle cose è cambiata e mi sono accorta come termini che prima mi apparivano incomprensibili e lontani invece rappresentano la realtà di tutti giorni, anzi ci permettono di vedere e capire questa realtà. Ho affrontato, nel mio percorso universitario, lo studio del diritto penale con uno spirito critico mosso da queste considerazioni e sono giunta alla conclusione che questo ramo è quello che, probabilmente, più di tutti gli altri rappresenta l’uomo. Oggi sono iscritta all’ultimo anno della laurea magistrale presso l’Università Federico II di Napoli e, nonostante non ci sia branca del diritto che manchi di destare la mia curiosità, sono sempre più convinta di voler dare il mio contributo all’area penalistica. L’esser diventata socia di ELSA sicuramente ha rappresentato per me un’ottima opportunità in questo senso.
Scrivere per un giornale non è, per me, un’esperienza nuova. La mia collaborazione con “Ius in itinere” ha però un sapore diverso: nasce dal desiderio di mettermi in gioco come giurista, scrittrice e membro della società.
Il diritto infatti, come l’uomo, vive e si sviluppa. E come l’uomo ha un animo, aspetto da tenere sempre presente quando ci si approccia a studi giuridici. Mia volontà è dare un contributo a questo sviluppo nell’intento e nella speranza di collaborare ad un diritto più “giusto” e più “umano”. Oggi nelle vesti di scrittrice, un domani in un ruolo ancor più attivo.
Mail: laura.derosa@iusinitinere.it