mercoledì, Aprile 24, 2024
Criminal & Compliance

La configurabilità dell’abolitio criminis nei casi di successione mediata di norme penali

A cura del Dott. Andrea Vischi 

In un ordinamento quale quello odierno, in cui sempre più spesso si assiste ad una delegificazione della materia penale, dovuta all’impossibilità del legislatore di far fronte autonomamente alla rapidità con cui si trasforma la società odierna e alle conseguenti nuove occasioni di reato che in essa si profilano, assume un’importanza decisiva comprendere il fenomeno della successione mediata delle leggi penali e inquadrare la disciplina di diritto intertemporale ad esso applicabile[1].

Si parla di successione mediata della legge penale ogniqualvolta in seguito ad un novum legislativo non muti direttamente la fattispecie incriminatrice bensì una norma giuridica o extra giuridica a cui la fattispecie principale fa, espressamente o implicitamente, rinvio per completare la disposizione penale.

In altre parole, il legislatore incide in via mediata sulla costruzione della fattispecie, modificando quelle norme che ineriscono alla disposizione principale a mo’ di integrazione. Si pensi, a titolo di chiarezza espositiva, al rinvio da parte del D.P.R. 309/1990 alle tabelle del Ministero della salute per l’individuazione delle sostanze organolettiche ritenute stupefacenti, ovvero al rinvio da parte dell’art. 644 c.p. in tema di usura alla nozione di tasso d’interesse limite previsto dalle leggi in materia[2].

L’annosa quaestio che il ricorso ad una simile architettura normativa pone riguarda l’individuazione degli effetti che la modifica della norma integrativa o di richiamo abbia sulla fattispecie principale. Nello specifico, il dibattito in materia ha orbitato attorno allo stabilire se nei casi astrattamente predetti possa trovare applicazione la disciplina di cui all’art. 2 c.p. che, nel disciplinare il fenomeno della successione delle norme penali, enuncia il principio granitico di irretroattività della legge penale e le sue dirette declinazioni.

Ora, se è pacifico tra i cultori della materia il dato per cui le nuove disposizioni legislative che modificano una fattispecie in via mediata, tali da far rientrare nell’alveo del penalmente rilevante condotte non criminalizzate anteriormente, non possano erigersi a disciplina di fatti commessi precedentemente all’entrata in vigore del medesimo novum normativo, non è altrettanto unanime, né in dottrina né in giurisprudenza, il parere circa la disciplina applicabile laddove la modifica mediata della fattispecie produca conseguenze favorevoli al reo che escludano dall’area dell’incriminazione fatti precedentemente ivi compresi[3].

Per riprendere gli esempi di cui sopra, il riferimento è all’ipotesi in cui una legge posteriore muti i criteri di calcolo dei tassi d’interesse usurai talché per via della nuova normativa fatti in precedenza penalmente rilevanti cessino di essere tali e che, pertanto, soggetti condannati sulla base della previgente disciplina sarebbero assolti sulla base della nuova, o comunque riceverebbero un trattamento sanzionatorio maggiormente di favore[4].

In tali eventualità, ci si chiede se alla modifica mediata debbano essere riconosciuti gli effetti dell’abolitio criminis alla stregua del secondo comma dell’art. 2 c.p., enunciante l’impunibilità dell’agente per un fatto non più costituente reato secondo una legge posteriore, nonostante ad essere emendata non sia la disposizione penale ma le sole norme che ne integrano il precetto ovvero ne definiscono gli elementi normativi.

Nel tentativo di rispondere al suesposto quesito si sono formalizzati in dottrina tre diversi criteri interpretativi[5].

Secondo un primo orientamento l’interprete deve concentrare il proprio sindacato sul fatto in concreto, nel senso che qualora un fatto non sia più concretamente punibile in seguito all’entrata in vigore della nuova normativa, a quest’ultima andrebbe riconosciuto un effetto abolitivo retroattivo alla stregua dell’art. 2 co. 2 c.p[6].

Altra dottrina ritiene doveroso invece che il giudice concentri la propria indagine sulla ratio puniendi della fattispecie, applicando la disciplina dell’abolitio crimins alla sola ipotesi in cui si riscontri che in base alla nuova normativa il legislatore abbia scemato l’interesse a tutelare penalmente l’originario bene giuridico oggetto della fattispecie principale. In altre parole l’interprete giudiziario dovrà riconoscere un effetto retroattivo alla successione  mediata laddove la novità normativa interrompa la continuità nel tipo di tutela offerta dalla fattispecie originaria al bene giuridico.

Secondo un terzo orientamento, infine, il giudice sarebbe chiamato al raffronto astratto tra le due fattispecie che, rispettivamente, antecedono e susseguono il novum legislativo. Sulla base di tale criterio, in particolare, l’interprete dovrebbe confrontare le due fattispecie sul piano astratto, riconoscendo efficacia retroattiva a quelle norme che rispetto alla fattispecie principale si pongano in rapporto di integrazione[7].

Soltanto, dunque, le norme che in astratto integrano la fattispecie principale, partecipando alla definizione e al completamento del precetto, sarebbero assoggettate alla regola successoria dell’art. 2 secondo comma c.p.

Quest’ultimo è il criterio maggiormente seguito dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha aperto una strada interpretativa in tale direzione a partire dalla nota sentenza Magera del 2007, pronuncia in cui le Sezioni Unite si sono espresse in termini poco equivoci: “L’indagine sugli effetti penali della successione di leggi extra-penali va condotta facendo riferimento alla fattispecie astratta e non al fatto concreto: non basta riconoscere che oggi il fatto commesso dall’imputato non costituirebbe più reato, ma occorre prendere in esame la fattispecie e stabilire se la norma extra-penale modificata svolga in collegamento con la disposizione incriminatrice un ruolo tale da far ritenere che, pur essendo questa rimasta immutata, la fattispecie risultante dal collegamento tra la norma penale e quella extra-penale sia cambiata e in parte non sia più prevista come reato[8].

Il punctum dolens di simile impostazione va rintracciato, ad avviso di chi scrive, nell’incapacità del criterio del raffronto strutturale astratto di valutare la reale incidenza che il novum legislativo intenda perseguire nei confronti della fattispecie.

Invero, qualora l’interprete si limiti a valutare sul piano astratto la portata della norma extra-penale in rapporto a quella penale, conferendo valore abolitivo alla modifica delle sole norme integratici del precetto, finirebbe per non dar peso all’intentio legis della modifica stessa[9]. In altre parole, il giudice si limiterebbe a prendere atto della novità legislativa e a riconoscere una portata retroattiva alla modifica delle norme integratici, senza tuttavia indagare sulle ragioni che hanno mosso il legislatore a intervenire sull’area di operatività della fattispecie, le quali, se valorizzate, consentirebbero un adesione della disciplina intertemporale ai reali intenti di giustizia perseguiti.

Si prosegua, in tal senso, riprendendo l’esempio del reato di usura. Si ipotizzi in particolare un novum legislativo che, per rispondere al significativo impatto dell’inflazione sull’economia nazionale, preveda nuovi criteri di calcolo dei tassi d’interesse limite talché si innalzi la soglia oltre il quale un prestito possa considerarsi usuraio.

Ora, una rigida applicazione del criterio del raffronto strutturale rischierebbe di escludere la punibilità per fatti, perfettamente integranti sia dal punto di vista dell’elemento oggettivo che dell’elemento soggettivo il reato di usura secondo i previgenti criteri di calcolo dei tassi soglia, sulla base di un una modifica legislativa guidata da esigenze di politica monetaria piuttosto che di politica criminale. Si andrebbero, quindi, a liceizzare fatti che nell’intenzione del legislatore non meriterebbero l’esenzione dal rimprovero penale.

Se è vero che il suesposto possa piuttosto ricondursi nei confini di un mero caso di scuola, qualche perplessità, in termini convergenti, di un’applicazione univoca del criterio del raffronto strutturale astratto è stata fatta trapelare dalla stessa Corte di Cassazione.

Il che, in particolare, è desumibile dagli ulteriori parametri di valutazione dell’abolitio criminis che si profilano nella sentenza Magera, ove si legge che rispetto oltre alle norme integratrici di quelle penali “l’art. 2 c.p. può trovare applicazione rispetto a norme extra-penali che siano esse stesse, esplicitamente o implicitamente, retroattive, quando nella fattispecie penale non rilevano solo per la qualificazione di un elemento, ma per l’assetto giuridico che realizzano”[10].

A ben guardare, la Corte sembra tratteggiare un criterio risolutivo residuale che stemperi la rigida applicazione del raffronto astratto tra fattispecie, riconoscendo l’applicabilità dell’abolitio crimins anche nel caso di modifiche di norme extra-penali che rilevano nella fattispecie penale “per l’assetto giuridico che realizzano”.

Con tale espressione parrebbe che i giudici abbiano inteso armare l’interprete di un ulteriore canone interpretativo, finalizzato a scendere nel concreto della fattispecie e, in particolare, a valorizzare la ratio dell’incriminazione e il modus in cui, con la modifica mediata, il legislatore intenda incidere su questa[11]. Del resto, solo un’indagine ermeneutica sull’area di disvalore coperta dalla fattispecie e delineata dal legislatore – e, dunque, a contrariis, del bene giuridico tutelato – permetterebbe a pieno all’interprete di comprendere se le norme mediate assumano la veste di norme integratrici o non integratrici del precetto penale, riconoscendo solo alle prime una portata abolitiva retroattiva.

In conclusione, se, da un lato, certamente va apprezzato lo sforzo della Corte regolatrice di designare un criterio univoco che indichi in quali casi la modifica mediata dia luogo all’applicazione dell’art. 2 co. 2 c.p., dall’altro lato non può non nascondersi l’esigenza di un criterio maggiormente duttile che, in grado di adattarsi ai diversi modi in cui una norma extra-penale possa incidere sulla fattispecie principale[12], metta l’interprete nella condizione di valorizzare la ratio dell’intervento normativo, riconoscendo o meno a seconda del caso di specie l’avvenuta abolitio criminis.

Nella piena consapevolezza delle difficoltà di rintracciare un simile criterio, è forse il caso, a parere di chi scrive, di rimettersi all’attività ermeneutica del giudice, il quale, per riconoscere l’efficacia retroattiva della successione mediata, una volta constatata – sulla base del raffronto astratto tra le fattispecie – la veste integrativa della norma extra-penale, dovrebbe indagare sulla portata del novum legislativo facendo emergere la ratio sottesa alla modifica normativa della fattispecie penale. Del resto l’interpretazione logica, ovverosia la ricerca nella disposizione dell’intenzione del legislatore, è uno dei principali canoni ermeneutici a servizio del giudice.

[1] Per un approfondimento sull’affievolimento del principio di stretta legalità in materia penale e il relativo fenomeno della delegificazione si rinvia ampiamente a E. Mezzetti, La legge penale rispetto alle persone, in Diritto Penale, 2017.

[2] Per una visione d’insieme del fenomeno della successione mediata e della sua distinzione con la successione immediata cfr., tra i vari, E. Mezzetti, La legge penale rispetto alle persone, cit; F. Mantovani, Diritto Penale. Parte Generale, 2020; G. Fiandaca-E.Musco, Diritto penale parte generale, 2019; D. Micheletti, Legge penale e successione di norme integratrici, in Discrimen, 2006; M. Gambardella, L’abrogazione della norma incriminatrice, 2008.

[3] Per un approfondimento circa la disciplina di diritto intertemporale applicabile nei casi di successione mediata di norme penali si rinvia ampiamente a G. L. Gaita, Abolitio Criminis e successione di norme “integratrici”: tra teoria e prassi, 2008; S. Camaioni, Successione di leggi penali, 2003;

[4] Con specifico riferimento alla successione di leggi mediate in riferimento al reato di usura cfr. A. Chibelli, La successione “mediata” delle norme penali e il delitto di usura: disorientamenti giurisprudenziali, in Diritto penale contemporaneo, 2017.

[5] Per un inquadramento generale dei diversi criteri prospettati vd. E. Mezzetti, La legge penale rispetto alle persone, cit.

[6] Riportano ed illustrano tale orientamento F. Palazzo, Corso di Diritto penale. Parte generale, 2008 e T. Padovani, Diritto penale, 2008.

[7] Sul punto si veda Mezzetti, La legge penale rispetto alle persone, cit; G. L. Gaita, Abolitio Criminis e successione di norme “integratrici”: tra teoria e prassi, cit; M. Gambardella, L’abrogazione della norma incriminatrice, cit.

[8] Si cita da C. Cass. Sez. Un. sent. n. 2451 del 27 settembre 2007. Si noti che Per un commento a tale sentenza si rinvia ampiamente a G. L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici” nella recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Diritto penale contemporaneo, 2010.

[9] Si noti infatti che le Sezioni unite Magera abbiano oltremodo precisato che occorra “operare una distinzione tra le norme integratrici della fattispecie penale e quelle che tali non possono essere considerate. […] una nuova legge extrapenale può avere, di regola, un effetto retroattivo, solo se integra la fattispecie penale, venendo a partecipare della sua natura”, come avviene, ad avviso costante della giurisprudenza, per le norme definitorie e le norme penali in bianco. In seguito a ciò, ha suscitato qualche perplessità il noto caso Niccoli in cui, secondo G. L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici” nella recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – al quale si rinvia – le Sez. Unite, con omonima sentenza ( C.Cass. sent, n. 19601 del 28 febbraio 2008), hanno disatteso il loro precedente orientamento non riconoscendo valore retroattivo alla modifica della norma definitoria extrapenale di piccolo imprenditore che interveniva riducendo la platea dei soggetti attivi dei reati di bancarotta.

[10] C. Cass. Sez. Un. sent. n. 2451 del 27 settembre 2007.

[11] Di questo avviso anche A. Chibelli, La successione “mediata” delle norme penali e il delitto di usura: disorientamenti giurisprudenziali, cit. Sul punto vds. anche  L. Riscato, La restaurata ostilità delle sezioni unite nei confronti delle modifiche mediate della fattispecie penale, in Dir. pen. proc., 2008.

[12] Per un panorama completo di ipotesi qualificate in cui possa parlarsi di modifica mediata vd. G. L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici” nella recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, cit.

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