venerdì, Aprile 19, 2024
Fashion Law Influencer Marketing

I diritti del consumatore: tra correttezza delle operazioni commerciali e chiarezza delle informazioni

1. Introduzione

Nel rapporto che intercorre tra venditore e consumatore intervengono molte norme, che, tendenzialmente, sono poste a vantaggio e a tutela del contraente debole, normalmente rappresentato dal consumatore. Si assiste, in questo ambito, ad una commistione tra norme dettate dal diritto civile, dal codice del consumo e dal diritto europeo, quest’ultimo sempre più incisivo in materia.

Punto di partenza non può che essere la chiarificazione dei concetti che verranno affrontati di seguito: è necessario, dunque, far luce su ciò che si intende per consumatore, venditore e pratiche commerciali – tali specificazioni possono essere rinvenute all’interno dell’art. 18 del Codice del Consumo (decreto legislativo n. 206 del 2005, attuante la direttiva 2005/29/CE modificato dal d. lgs. n. 146 del 2007), che qualifica come consumatore: “qualsiasi persona fisica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale”[1]; mentre il venditore, nel codice denominato professionista, è qualificato come “qualsiasi persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisce in nome o per conto di un professionista”[2]; infine rientrano nel novero di pratiche commerciali tra professionisti e consumatori: “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale iv compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”[3].

Bisogna ricordare, inoltre, che le norme del Codice del Consumo vengono applicate esclusivamente quando interagiscono un consumatore o una micro impresa da una parte e un professionista dall’altra.

Oltre al considerare il consumatore medio, viene individuato all’interno del Codice del Consumo la figura del “consumatore vulnerabile”, stabilendo all’art. 20 che: “Le pratiche commerciali che, pur raggiungendo gruppi più ampi di consumatori, sono idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico solo di un gruppo di consumatori chiaramente individuabile, particolarmente vulnerabili alla pratica o al prodotto cui essa si riferisce a motivo della loro infermità mentale o fisica, della loro età o ingenuità, in un modo che il professionista poteva ragionevolmente prevedere, sono valutate nell’ottica del membro medio di tale gruppo. È fatta salva la pratica pubblicitaria comune e legittima consistente in dichiarazioni esagerate o in dichiarazioni che non sono destinate ad essere prese alla lettera”. Tale disposizione richiede da parte del venditore una maggiore diligenza nella valutazione delle aspettative del consumatore che per via della sua condizione, potrebbe non essere in grado di adempiere a quella condotta attenta ed informata esigibile al consumatore medio.

2. Pratiche commerciali scorrette

Poste tali premesse, si rammenta come una forma patologica della pratica commerciale sia ravvisabile nella scorrettezza della stessa. Nel formulare la norma all’articolo 20 del Codice del Consumo, il legislatore ha inteso perseguire un duplice obiettivo, per un verso ha preferito inserire una clausola generale in cui si impone un divieto generale di compiere pratiche commerciali scorrette, ciò per consentire alla norma di sopperire anche alle esigenze di tutela che possono scaturire nel tempo, mentre per un altro verso ha tipizzato due fattispecie di pratiche commerciali scorrette: le pratiche ingannevoli e le pratiche aggressive, all’interno delle quali è stato redatto un elenco (c.d. Lista nera) che prevede delle pratiche che sono considerate sleali in ogni caso.

Una pratica commerciale per essere classificata come sleale deve rispondere a due criteri:

  • In primo luogo, deve essere contraria all’obbligo di diligenza professionale, ossia il professionista non utilizza l’attenzione e la speciale competenza che ci si aspetta da parte sua in virtù della posizione che occupa all’interno del rapporto con il consumatore.
  • In secondo luogo, la pratica è falsa o è idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio, alterando la capacità di quest’ultimo di prendere una decisione consapevole o portandolo ad assumere una decisione che altrimenti non avrebbe preso.

Una volta analizzata in via generale cosa si intende per pratica commerciale sleale, possono essere esaminate nel dettaglio le disposizioni riguardanti le pratiche commerciali che sono considerate ingannevoli e/o aggressive.

3. Pratiche commerciali ingannevoli

A norma dell’art. 21, si intende per pratica commerciale  ingannevole quella che : “contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”. Il codice pone in essere una distinzione tra azioni ed omissioni[4], in virtù della quale si identificano come azioni ingannevoli  tutte quelle pratiche che consistono nel dare informazioni non veritiere o sono formulate in modo tale da indurre il consumatore in errore in ordine ad una serie di elementi, come il prezzo, le quantità e  le caratteristiche dell’articolo. Rientrano tra le azioni anche quelle pratiche, che in concreto includano attività di confusione con altrui marchi o segni distintivi, ovvero il riferimento a codici di condotta adottati ma non rispettati. Mentre, vengono considerate pratiche commerciali ingannevoli di tipo omissivo quelle in cui il professionista tralascia indicazioni utili al consumatore per non cadere in errore nelle sue scelte di natura commerciale, l’omissione ingannevole viene dunque configurata, nel momento in cui, il professionista, per quanto non ometta le indicazioni essenziali, presenti informazioni poco chiare, indecifrabili o ambigue per il consumatore. Anche la fattispecie in cui il professionista, diffondendo un’informazione o rendendo pubblico un concetto, in maniera non esplicita, sta facendo pubblicità ad un prodotto (la c.d. Pubblicità occulta). Quest’ultima può essere posta in essere anche quando, per scopi promozionali, viene esibito il marchio di un prodotto di un’impresa in un contesto che dovrebbe essere di puro intrattenimento.

Ciò che è importante sottolineare è che l’atteggiamento psicologico, quindi l’intento fraudolento o la mera negligenza del professionista non rilevano nella valutazione dell’ingannevolezza della pratica, essa è scorretta a prescindere.

4. Pratiche commerciali aggressive

Altra tipologia di pratica commerciale scorretta è rappresentata da quelle aggressive, queste vengono disciplinate all’interno dell’art. 24, il quale stabilisce che: “ È considerata aggressiva una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”. [5]. Anche in questo caso la pratica messa in atto grava sulla libertà di scelta o di azione del consumatore, ma a differenza delle pratiche ingannevoli, le pratiche aggressive si manifestano in atti di vera e propria coercizione, fisica o psicologica che limitano la libertà di comportamento del consumatore. L’articolo stesso individua i comportamenti che integrano la pratica aggressiva elencandoli in ordine di gravità, questi sono:

  • molestie: azioni di natura psicologica fortemente afflittive che condizionano le scelte,
  • coercizione: utilizzo di forza o minacce
  • indebito condizionamento: sfruttamento di una posizione di potere rispetto al consumatore per esercitare una pressione, in moda da limitarne notevolmente la capacità di scelta.

Il successivo articolo 25[6], individua altri principi che devono essere tenuti in considerazione al fine della definizione del comportamento del professionista come molestia, coercizione o indebito condizionamento. E’ statuito che devono essere valutati i seguenti elementi: a) i tempi, il luogo e la persistenza, b) se il professionista abbia usato minacce fisiche o verbali, c) se il professionista abbia influenzato il consumatore sfruttando qualsivoglia circostanza tragica o il verificarsi di fatti gravi, d) se il professionista abbia posto degli ostacoli non contrattuali, onerosi o sproporzionati, nel caso in cui il consumatore intenda esercitare diritti contrattuali, compresi il diritto di risolvere un contratto, cambiare prodotto o rivolgersi ad un altro professionista, e) infine, se il professionista induce il consumatore ad effettuare la scelta di natura commerciale in merito al proprio prodotto, minacciandolo di promuovere un’ azione legale ove tale azione sia manifestamente temeraria o infondata . Detto ciò, bisogna comprendere a quale l’Autorità spetta il controllo e la supervisione in tale materia.

5. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato

La competenza in tale materia, così come statuito dall’art. 27[7] del Codice del Consumo, è affidata all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, la quale può agire d’ufficio o su istanza di ogni soggetto o organizzazione che ne abbia interesse, inibendo la continuazione delle pratiche commerciali scorrette ed eliminando gli effetti. L’Autorità garantisce il contraddittorio, ma in casi di particolare urgenza può disporre con provvedimento motivato, la sospensione provvisoria delle pratiche commerciali scorrette, anche se in ogni caso comunica l’apertura dell’istruttoria al professionista. L’AGCM può comminare delle sanzioni amministrative pecuniarie in relazione alle diverse fattispecie che si connotano nel procedimento. I ricorsi verso il provvedimento emanato dall’AGCM si svolgono dinanzi al TAR, in tutti gli altri casi sarà competente il giudice ordinario.

6. Chiarezza delle informazioni ed etichettatura.

Completata la disamina riguardante le pratiche commerciali, ulteriore strumento posto a tutela dei consumatori è rappresentato dall’etichetta, che specialmente per il “comparto moda” ossia il settore in cui rientrano i prodotti tessili, dell’abbigliamento, le calzature e la pelletteria, è indice della qualità del prodotto e della serietà del produttore. L’etichettatura di tali prodotti è disciplinata a livello europeo attraverso appositi atti, che garantiscono sia una migliore trasparenza e informazione nei confronti dei consumatori e sia un’armonizzazione delle regole tra i paesi membri, al fine di   assicurare  il corretto funzionamento del mercato unico .

Il Regolamento UE che detta la disciplina per l’etichettatura del settore tessile e dell’abbigliamento è il n.1007/2011[8], per le calzature invece vale la Direttiva n. 94/11/CE[9] recepita in Italia dal D.M. 30 Gennaio 2001[10]. Per ciò che riguarda invece i prodotti che recano i termini “cuoio”, “pelle” e “pelliccia” vigono le prescrizioni contenute nel D. Lgs. n. 68 del 9 Giugno 2020[11].

Generalmente, l’etichetta deve riportare le informazioni del prodotto in lingua italiana, devono essere redatte in modo chiaro, facilmente leggibile e tali da non indurre in inganno il consumatore. Non possono essere usate delle abbreviazioni, oppure codici o cifre difficilmente decifrabili.

L’etichetta deve essere apposta direttamente sul prodotto e non deve essere facilmente removibile, nello specifico, nel comparto dell’abbigliamento deve essere fissata al capo, cucita, allacciata o graffata, sono previste deroghe per i prodotti venduti a metro o in piccole quantità, in questo case le informazioni possono essere impresse sui supporti espositivi o sugli imballaggi,  per quel che riguarda le calzature e la pelletteria deve essere stampata, impressa a fuoco o incollata sui prodotti, per le calzature deve essere posta almeno su uno dei due paia. Vigono invece, regole specifiche per i prodotti tessili e le calzature che sono di seguito esaminate.

7. Prodotti tessili ed abbigliamento.

Per prodotto tessile appartenente alla fashion industry si intendono, tutti i prodotti che, allo stato grezzo, di semilavorati, di lavorati, semi manufatti, manufatti semi- confezionati o confezionati, sono composti esclusivamente da fibre tessili qualunque sia il procedimento di unione o di mischia utilizzato[12] o ad essi assimilabili. È previsto che tutti i prodotti tessili all’atto di ogni operazione di commercializzazione attinente al ciclo industriale e commerciali presentino etichette e contrassegni che indichino, in ordine decrescente la composizione fibrosa, questi devono essere facilmente leggibili, accessibili, visibili e durevoli, e inoltre devono essere redatti in lingua italiana e per esteso e con caratteri tipografici che permettano il rispetto dei suddetti requisiti.

In aggiunta le etichette devono riportare i riferimenti al produttore, ovvero il fabbricante del prodotto finito stabilito nell’UE o di qualsiasi altra persona che si presenti come tale apponendo sul prodotto il proprio marchio, segno distintivo o nome. Se il produttore non è stabilito nel territorio dell’UE, vanno indicati i riferimenti del primo operatore commerciale localizzato sul territorio comunitario ( ad esempio importatore, venditore, grossista, ecc.). L’etichetta dei prodotti tessili e dell’abbigliamento deve riportare la composizione e presenta delle particolarità a seconda della quantità di fibra presente, se composta da un’unica fibra avrà la dicitura “Puro”, “tutto” o “100%”, se composta da due o più fibre tessili delle quali una pari all’85% del peso totale, potranno apporsi diciture differenti a seconda se la fibra sia superiore o inferiore all’85% oppure si potrà specificare la composizione completa indicando le relative percentuali, se invece il prodotto è ottenuto da più fibre e nessuna delle quali raggiunge l’85% si specificheranno tutte le fibre e le loro percentuali.

I prodotti composti, ossia quelli che presentato due o più tessuto ciascuno dei quali ha diversa composizione fibrosa, devono indicare la componente o parte alla quale la composizione è riferito oppure la posizione della stessa. Possono essere apposte indicazioni facoltative che possono essere relative alla manutenzione del prodotto come ad esempio il lavaggio, l’asciugatura ecc., oppure alle caratteristiche di qualità della materia prima o del processo produttivo. Peraltro, è molto comune che su tali prodotti siano apposti marchi di certificazione, che sono rilasciati da organismi riconosciuti a livello nazionale o internazionale, che attestano che il prodotto ha rispettato determinati paramenti di qualità o metodologie di processo più restrittivi rispetto a quelli ordinari.

8. Articoli di pelletteria e calzature.

Con le nuove prescrizioni contenute nel D. Lgs. n. 68/2020[13] si regolano l’immissione e la messa a disposizione di prodotti che presentino i termini “cuoio”, “pelli” e “pelliccia” e di quelli da essi derivati o loro sinonimi, e si impone l’obbligo di etichettatura della composizione dei prodotti che richiamano tali termini. Con questo provvedimento si è inteso fronteggiare la concorrenza sleale e la contraffazione, che rappresentano fattispecie molto diffuse in relazione a questo settore. Vengono invece intese come calzature tutti i prodotti dotati di suole che proteggono o coprono il piede, comprese le parti messe in commercio separatamente [14] . Le regole sull’etichettatura prevedono che tutte le calzature devono riportare un’etichetta che contenga le informazioni sulla composizione della tomaia (che rappresenta la superficie esterna dell’elemento strutturale attaccato alla suola esterna), del rivestimento della tomaia e suola interna (fodera e sottopiede) e della suola esterna (superficie inferiore della calzatura). L’etichetta deve indicare il materiale di cui è composta ciascuna parte della scarpa per almeno l’80%, se nessun materiale raggiunge tale percentuale deve riportare indicazioni sulle due componenti principali, può contenere informazioni scritte in lingua italiana sui materiali utilizzati per le varie parti o simboli, tali simboli devono essere di dimensioni sufficienti per la comprensione delle informazioni contenute nell’etichetta, deve essere ben visibile, saldamente applicata ed accessibile al consumatore , può presentare anche indicazioni supplementari relative alle qualità del prodotto. L’etichetta non deve indurre in errore il consumatore, a tal fine il venditore finale dovrà esporre , nei luoghi di vendita un cartello illustrativo della simbologia adottata. Il fabbricante o il suo rappresentante con sede nell’Unione Europa hanno l’obbligo di fornire le etichette e sono responsabili dell’esattezza delle informazioni in essa contenute. Qualora nessuno dei due adempia, di tale obbligo è responsabile colui che introduce la merce nel mercato europeo. Il venditore finale deve verificare la presenza dell’etichetta.

9. L’etichettatura

Qualora l’etichettatura sia del prodotto tessile che di quello calzaturiero o di pelletteria non sia conforme, gli operatori commerciali potrebbero ricevere importanti sanzioni  e il sequestro immediato della merce. Potrebbe apparire strano che una  sanzione sia addebitata al venditore finale, poiché alla luce di ciò che si è precedentemente affermato risulta  chiaro che sia il produttore / fornitore  a dover apporre l’etichetta, appare inammissibile che  il venditore finale rappresenti l’obbligato principale in un sistema che permette difficilmente di esercitare il diritto di regresso nei confronti di terzi (produttori) , va ricordato a tal proposito che l’art. 131 del Codice del Consumo prevede che: “Il venditore finale, quando è responsabile nei confronti del consumatore a causa di un difetto di conformità imputabile ad un’azione o ad un’omissione del produttore, di un precedente venditore della medesima catena contrattuale distributiva o di qualsiasi altro intermediario, ha diritto di regresso, salvo patto contrario o rinuncia, nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili facenti parte della suddetta catena distributiva.”

10. Considerazioni finali

In definitiva non resta che affermare che ad entrambe le parti è richiesta l’applicazione della normale diligenza, affinché il consumatore sia attento a tutte le problematicità e ai rischi che si insidiano nel  mercato e sia informato sui propri diritti, mentre il professionista metta in campo tutte le sue conoscenze e le sue competenze per offrire un servizio competitivo sul mercato e idoneo alle normative vigenti, evitando cosi spiacevoli sanzioni.

[1] Lett. A , Art. 18 Codice del Consumo.

[2] Lett. B, art. 18 Codice del Consumo.

[3] Lett. D art. 18, Codice del Consumo.

[4] Disciplinate all’articolo 22 del Codice del Consumo.

[5] Consultabile su https://www.codicedelconsumo.it/parte-ii-artt-4-32/.

[6] Codice del consumo: https://www.codicedelconsumo.it/parte-ii-artt-4-32/.

[7] Consultabile su https://www.codicedelconsumo.it/parte-ii-artt-4-32/.

[8] Regolamento consultabile su: http://publications.europa.eu/resource/cellar/85f446fd-05a5-47d7-b0d3-96418710a1e0.0014.02/DOC_1.

[9] Direttiva consultabile su: https://eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CONSLEG:1994L0011:20070101:it:PDF.

[10] Decreto consultabile su: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2001/02/14/001A1444/sg.

[11]Decreto legislativo consultabile su: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/06/26/20G00084/sg

[12] Ai sensi dell’art. 2 del D.lgs. 194/1999.

[13] Decreto legislativo consultabile su: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/06/26/20G00084/sg

[14] Ai sensi dell’art. 2 del D.M. 11 Aprile 1996.

 

Pina Palladino

Laureanda presso l’Università degli studi del Sannio. Sin da piccola è un’appassionata di moda, ha così coniugato il suo interesse ai suoi studi partecipando alla prima The Fashion Law Winter School organizzata dal Prof. Felice Casucci, ordinario di diritto comparato. Attualmente è una studentessa erasmus presso l’Uniwersytet Warszawski in Varsavia. Sogna di poter approfondire le problematiche giuridiche riguardanti l’ambito internazionalistico ed il mondo della moda.

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