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La Corte Costituzionale sull’interpretazione pro-concorrenziale del divieto di gold plating

La Corte costituzionale è recentemente intervenuta nel dibattito, particolarmente vivo nella giurisprudenza amministrativa, afferente la natura generale o eccezionale dell’affidamento in house dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 (di seguito: «codice dei contratti pubblici») sollevata dal TAR Liguria.

La problematica sottoposta al vaglio della Consulta ha ad oggetto il presunto vizio di delega nel quale sarebbe incorso il legislatore delegato in sede di attuazione della legge delega n. 11 del 2016[1] per il recepimento delle direttive europee in materia di appalti pubblici. Oggetto del giudizio di costituzionalità è l’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici[2], ai sensi del quale la stazione appaltante, che scelga di affidare un servizio disponibile sul mercato in regime di concorrenza ad una società in house, è tenuta a dare conto, in motivazione, delle «ragioni del mancato ricorso al mercato», nelle forme – altrimenti sempre preferibili – dell’affidamento mediante procedura di evidenza pubblica, ovvero dell’affidamento a società mista con gara per la scelta del socio privato.

Il parametro di costituzionalità è rappresentato dall’art. 76 Cost., il quale – come noto – vincola il Governo, nell’esercizio della funzione legislativa, al rispetto dei «principi e criteri direttivi» definiti dal Parlamento all’interno della legge delega. Tali criteri di delega, pertanto, in forza del rinvio espresso dell’art. 76 Cost., assurgono a norme costituzionalmente interposte, sulle quali è possibile fondare un giudizio di legittimità costituzionale.

Nel caso di specie, il TAR Liguria ravvisa la violazione di due criteri contenuti all’interno della legge delega n. 11 del 2016: l’art. 1, comma 1, lettera a) e l’art. 1, comma 1, lettera eee).

Il primo criterio di delega[3] ha ad oggetto il cd. divieto di gold plating, ossia il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie.
In via preliminare, la Corte costituzionale ha precisato che il divieto in oggetto non è un principio di diritto comunitario. Il termine gold plating compare nella comunicazione della Commissione europea dell’8 ottobre 2010 «Smart regulation in the European Union»[4], adottata con lo scopo di promuovere una legiferazione “intelligente”, sia a livello europeo che degli Stati membri, in grado di ridurre gli oneri amministrativi a carico di cittadini e imprese. In tale comunicazione si legge, infatti, che «[i]l termine gold plating si riferisce alla prassi delle autorità nazionali di regolamentare oltre i requisiti imposti dalla legislazione UE, in sede di recepimento o di attuazione in uno Stato membro».

Nel nostro ordinamento il riferimento al gold plating è comparso per la prima volta nella Legge di stabilità per il 2012[5], che all’art. 15, comma 2, lettera b) ha introdotto nell’art. 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246[6], i commi 24-bis, 24-ter e 24-quater. Il comma 24-bis[7] definisce in termini generali il divieto di gold plating per tutti gli atti di recepimento di direttive comunitarie. I successivi commi 24-ter e 24-quater ne precisano ulteriormente l’ambito di applicazione, individuando cosa debba intendersi per «livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie»[8] ed in quali casi sia possibile disattendere il divieto[9].

La legge delega n. 11 del 2016, all’art. 1, comma 1, lettera a), nel definire il criterio direttivo del divieto di gold plating rinvia ai commi 24-ter e 24-quater della legge 246/2005. La Corte costituzionale offre un’interpretazione teleologica delle suddette norme, chiarendo come la ratio del divieto sia quella di impedire un aggravamento legislativo degli oneri tecnici e amministrativi previsti dalla disciplina europea in materia di appalti, i quali restringono la concorrenza in danno di imprese e cittadini. Scopo del divieto è dunque quello di tutelare la concorrenza, limitando in tal senso la discrezionalità dello Stato in sede di recepimento. Diversamente, appare chiaro come l’ampliamento degli oneri gravanti sull’amministrazione, ai sensi dell’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, abbia una funzione pro-concorrenziale in quanto finalizzato a rendere maggiormente onerosa la scelta delle stazioni appaltanti di ricorrere ad affidamenti di servizi pubblici in forme diverse rispetto al ricorso al mercato.

Tale ratio è stata accolta anche dall’Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato, la quale nel parere[10] relativo allo schema di decreto legislativo recante il codice dei contratti pubblici ha osservato come il divieto di gold plating, assunto a criterio direttivo dalla legge delega n. 11 del 2016, vada interpretato in riferimento ad «oneri non necessari» e non già in riferimento ai livelli di garanzia dei valori costituzionali. Pertanto, dal momento che l’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato, ai sensi dell’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, è funzionale alla tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, quali la trasparenza amministrativa e la tutela della concorrenza, non può dirsi in contrasto con l’art. 1, comma 1, lettera a) della legge delega n. 11 del 2016.

Da ultimo, la stessa Corte di giustizia dell’Unione europea ha sanzionato tale ricostruzione interpretativa, sostenendo la non contrarietà della norma in oggetto con l’art. 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24/UE, sussistendo a livello europeo un generale principio di libera autodeterminazione delle autorità pubbliche[11]. Tale principio, rileva il giudice europeo[12], autorizza le amministrazioni pubbliche a derogare la disciplina ordinaria di affidamento mediante gara pubblica, previa dimostrazione «dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna».

Il secondo criterio di delega che il TAR Liguria assume essere violato è l’art. 1, comma 1, lettera eee)[13] della legge delega n. 11 del 2016, il quale si propone di estendere anche agli affidamenti in house l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, ivi compresa la valutazione sulla congruità economica delle offerte. Come evidenziato dalla Corte costituzionale, il criterio direttivo in oggetto non ha come scopo quello di affermare nella normativa di settore il principio fondamentale di trasparenza e pubblicità dell’azione amministrativa – che trova sua generica enunciazione in Costituzione, all’art. 97, e nella legge sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990, all’art. 1 –. Il criterio di delega in oggetto, piuttosto, sottolinea la necessità che il legislatore delegato intervenga per attuare tale principio anche in riferimento agli affidamenti diretti. Pertanto, in tale ottica, l’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici si propone di garantire la trasparenza e la pubblicità amministrativa, tipiche delle procedure di affidamento pubblico, nelle procedure di affidamento in house, richiedendo alla stazione appaltante di esternalizzare la scelta di non ricorrere al mercato.

Rispetto a tale premessa, l’eventuale eccesso di delega dovrà essere valutato anche alla luce della costante giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di esercizio del potere delegato. La Corte, infatti, è ferma nel riconoscere al legislatore delegato margini di discrezionalità in sede di attuazione dei criteri direttivi, dovendo il Governo altresì tener conto del quadro normativo di riferimento[14], specie laddove la delega «riguardi interi settori di disciplina o comunque organici complessi normativi»[15] – quali, appunto, la materia dei contratti pubblici -.

L’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, nell’attuare il criterio di delega della trasparenza e pubblicità dell’affidamento diretto, opera una scelta coerente con la disciplina dell’affidamento in house vigente nel nostro ordinamento da oltre dieci anni. Il diffuso abuso di tale strumento da parte delle amministrazioni nazionali e locali ha spinto il legislatore nazionale ad adottare un approccio fortemente restrittivo, come la stessa Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) ha avuto recentemente occasione di ribadire[16]. In definitiva, l’obbligo di motivazione rinforzata ai sensi dell’art. 192, comma 2, riprende disposizioni di analogo tenore[17] già adottate all’interno della normativa di settore.

In conclusione, a sostegno della legittimità della specificazione introdotta dal legislatore delegato, la Corte costituzionale riprende la motivazione resa nella sentenza n. 325 del 2010 in riferimento alle condizioni di legittimità del ricorso all’affidamento in house poste dall’allora vigente art. 23-bis del d.l. 112 del 2008. Trattasi di osservazioni valide anche per il caso di specie e che pertanto vale la pena qui di seguito richiamare. In merito alle ulteriori limitazioni introdotte dal legislatore nazionale rispetto alla disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici e concessioni, osserva la Corte che: «[s]iffatte ulteriori condizioni […] si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica. Ciò comporta, evidentemente, un’applicazione più estesa di detta regola comunitaria, quale conseguenza di una precisa scelta del legislatore italiano. Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro-concorrenziale più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta – e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., come sostenuto dallo Stato –, ma neppure si pone in contrasto […] con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri. È infatti innegabile l’esistenza di un “margine di apprezzamento” del legislatore nazionale rispetto a principi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato».

Per tutte queste ragioni, la Corte costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, sollevata dal TAR Liguria in riferimento all’art. 76 Cost. ed in relazione all’art. 1, comma 1, lettere a) ed eee), della legge n. 11 del 2016.

[1] Legge del 29 gennaio 2016, n. 11, recante “Deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”.

[2] L’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici statuisce che: «Ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche.»

[3] L’art. 1, comma 1, lettera a) della legge delega n. 11 del 2016, impone al Governo il «divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dall’articolo 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246».

[4] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, dell’8 ottobre 2010, COM(2010) 543 final.

[5] Legge 12 novembre 2011, n. 183, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato».

[6] Legge 28 novembre 2005, n. 246, recante «Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005».

[7] Il comma 24-bis dell’art. 14, della legge 246/2005, prescrive che: «Gli atti di recepimento di direttive comunitarie non possono prevedere l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse, salvo quanto previsto al comma 24-quater».

[8] Il comma 24-ter dell’art. 14 della legge 246/2005, prescrive che: «Costituiscono livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie: a) l’introduzione o il mantenimento di requisiti, standard, obblighi e oneri non strettamente necessari per l’attuazione delle direttive; b) l’estensione dell’ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari; c) l’introduzione o il mantenimento di sanzioni, procedure o meccanismi operativi più gravosi o complessi di quelli strettamente necessari per l’attuazione delle direttive.».

[9] Il comma 24-quater dell’art. 14, della legge 246/2005, prescrive che: «L’amministrazione da’ conto delle circostanze eccezionali, valutate nell’analisi d’impatto della regolamentazione, in relazione alle quali si rende necessario il superamento del livello minimo di regolazione comunitaria. Per gli atti normativi non sottoposti ad AIR, le Amministrazioni utilizzano comunque i metodi di analisi definiti dalle direttive di cui al comma 6 del presente articolo.».

[10] Cons. St., comm. spec., 1° aprile 2016, n. 855, osserva che «il “divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive” va rettamente interpretato in una prospettiva di riduzione degli “oneri non necessari”, e non anche in una prospettiva di abbassamento del livello di quelle garanzie che salvaguardano altri valori costituzionali, in relazione ai quali le esigenze di massima semplificazione e efficienza non possono che risultare recessive».

[11] In tal senso, si vv. il quinto considerando della direttiva 2014/24/UE e l’art. 2, paragrafo 1, della direttiva 2014/23 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione.

[12] Corte di giustizia, nona sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause da C-89/19 a C-91/19, Rieco spa, resa su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato, sezione quinta, con ordinanze 7 gennaio 2019, n. 138 e 14 gennaio 2019, n. 293 e n. 296; nello stesso senso, Corte di giustizia, quarta sezione, sentenza 3 ottobre 2019, in causa C-285/18, Irgita.

[13] L’art. 1, comma 1, lettera eee) della legge delega 11/2016, impegna il Governo a fornire nel decreto di riordino della disciplina in materia di contratti pubblici «garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti, l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, e prevedendo l’istituzione, a cura dell’ANAC, di un elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house ovvero che esercitano funzioni di controllo o di collegamento rispetto ad altri enti, tali da consentire gli affidamenti diretti. L’iscrizione nell’elenco avviene a domanda, dopo che sia stata riscontrata l’esistenza dei requisiti. La domanda di iscrizione consente all’ente aggiudicatore, sotto la propria responsabilità, di conferire all’ente con affidamento in house, o soggetto al controllo singolo o congiunto o al collegamento, appalti o concessioni mediante affidamento diretto».

[14] Corte cost., sent. n. 10 del 2018; n. 59 del 2016; n. 146 del 2015; n. 98 del 2015; n. 119 del 2013.

[15] Corte cost., sent. n. 10 del 2018; nello stesso senso, sent. n. 229 del 2014 e n. 162 del 2012.

[16] Relazione AIR dell’ANAC relativa alle Linee guida n. 7 recanti «Istituzione dell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house, previsto dall’art. 192 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50».

[17] L’art. 23-bis del D.l. 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e poi abrogato a seguito di referendum, prevedeva tra le condizioni legittimanti il ricorso all’affidamento in house dei servizi pubblici locali la sussistenza di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato». L’onere motivazionale in questione, poi, non si discosta, nella sostanza, da quello imposto dall’art. 34, comma 20, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221. Quest’ultima disposizione, infatti, richiede l’indicazione delle «ragioni» dell’affidamento diretto dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, il rispetto della parità degli operatori e l’adeguata informazione alla collettività di riferimento, e ciò non può che essere letto come necessità di rendere palesi (anche) i motivi che hanno indotto l’amministrazione a ricorrere all’in house invece di rivolgersi al mercato. A sua volta, l’art. 7, comma 3, dello schema di decreto legislativo di riforma dei servizi pubblici locali di interesse economico generale (adottato ai sensi degli artt. 16 e 19 della legge 7 agosto 2015, n. 124, recante «Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»), stabiliva, tra l’altro, che, «[n]el caso di affidamento in house o di gestione mediante azienda speciale, il provvedimento dà, altresì, specificamente conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato». Infine, l’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), che reca la rubrica «[o]neri di motivazione analitica», manifesta la stessa cautela verso la costituzione e l’acquisto di partecipazioni di società pubbliche (comprese quelle in house), prevedendo, nella sua versione attuale, che «l’atto deliberativo di costituzione di una società a partecipazione pubblica […] deve essere analiticamente motivato […], evidenziando, altresì, le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria, nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato».

Andrea D'Introno

Grazie alla partecipazione al Percorso di Eccellenza (un percorso di studi personalizzato riservato agli studenti meritevoli), consegue con un anno di anticipo il titolo di Dottore magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli studi di Foggia, con votazione di 110 cum laude e plauso accademico, discutendo una tesi in Diritto Civile e Privato Europeo, dal titolo: "Il Meccanismo Unico di Tutela del Risparmio: un'indagine tra responsabilità e continuità delle imprese bancarie in risoluzione" Prima della laurea si iscrive al Registro dei Praticanti del Tribunale di Foggia, a far data da settembre 2018, per lo svolgimento del periodo di pratica forense anticipata presso lo studio Legale del Prof. Avv. Gianpaolo Impagnatiello. Tutor disciplinare di dipartimento presso la cattedra di Istituzioni di Diritto Privato. Ha conseguito un Master di II livello in Diritto Privato Europeo alla Sapienza, diretto dal Prof. Avv. Guido Alpa. Vincitore di borsa Erasmus + for Traineeship, presso lo Studio Legale De Berti Jacchia Franchini Forlani, sede di Bruxelles. Vincitore della selezione indetta dall'Avvocatura Generale dello Stato di Roma per 23 praticanti (collocandosi al quinto posto su scala nazionale) ed attualmente tirocinante presso la stessa ex art. 73 del D.L. 69/2013. Iscritto al Registro dei Praticanti del Tribunale di Roma da maggio 2019. Tirocinante presso l'Autorità garante per la protezione dei dati personali. Attualmente perfezionando presso il Corso di perfezionamento in diritto dell'Unione europea dell'Università Federico II di Napoli.

Appassionato di Diritto Amministrativo, Diritto comparato e Diritto Europeo.

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