mercoledì, Marzo 27, 2024
Di Robusta Costituzione

La dibattuta questione del contributo d’accesso a Venezia: profili teorici, legittimità del Regolamento e possibili forme di tutela

a cura di Alvise Accordati e Davide Testa

 

La dibattuta questione del contributo d’accesso a Venezia: profili teorici, legittimità del Regolamento e possibili forme di tutela

  1. Introduzione

 

“Venezia e la sua Laguna“ hanno ricevuto l’iscrizione nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO nel 1987[1]: si tratta di un territorio fragile, millenario e in costante pericolo – al punto di aver scampato per un pelo, stando a quanto riportano le testate giornalistiche del 2021[2], l’iscrizione nella lista nera delle città in pericolo – sempre meno popolata, a favore dell’entroterra, ma meta oggi del turismo di massa che caratterizza un po’ ovunque, ma nei siti dotati di così grande interesse storico e artistico in modo particolare, la contemporaneità.

Proprio quest’ultima questione preoccupa da qualche tempo gli amministratori locali, che si interrogano sulla possibilità giuridica e sui metodi più efficaci – ma pur sempre conformi alle libertà costituzionali e al diritto di fruire e godere del patrimonio culturale che deve essere accordato senz’altro a tutti i cittadini italiani, quantunque si possa argomentare senza forzature di sorta che di un patrimonio mondiale dovrebbero godere parimenti anche i non cittadini – per porre un freno agli effetti negativi del fenomeno. Da alcuni anni, una delle ipotesi accreditate è quella di dotare la città di apposite infrastrutture in grado di contenere l’afflusso incontrollato dei turisti o, addirittura, di tutti coloro che per qualsiasi ragione accedano alla città: il Consiglio comunale di Venezia, a tal proposito, con deliberazione del Consiglio Comunale n. 11 del 26 febbraio 2019, e successive modifiche, ha approvato il “Regolamento per l’istituzione e la disciplina del contributo di accesso, con qualsiasi vettore, alla Città Antica del Comune di Venezia e alle altre isole minori della laguna”.

In questi giorni, è in procinto di entrare in vigore la prima fase della regolamentazione degli accessi, quella basata – in estrema sintesi – su un sistema di incentivi e disincentivi che dovrebbero spingere i visitatori a prenotare la visita, mentre solo per un secondo momento, scrivono le testate locali, al vaglio “c’è anche l’introduzione di sanzioni (che dovranno essere però votate dal consiglio comunale) per coloro che bypasseranno la prenotazioni, ma molto dipenderà da ulteriori verifiche giuridico-amministrative in corso a Ca’ Farsetti”[3]. Su quest’ultimo punto, ancor più che su eventuali disincentivi e penalizzazioni per chi non dovesse aver programmato in anticipo la propria visita, non vi è dubbio che le valutazioni dovranno richiedere una particolare attenzione, non solo sotto il profilo del diritto amministrativo, ma ancor più nella prospettiva del corretto bilanciamento degli interessi in gioco, effettuato secondo parametri da ricercarsi nella Carta costituzionale.

 

  1. Quali cittadini?

 

La maggior parte degli studi che indagano le politiche urbane prendono in considerazione la città essenzialmente come luogo di relazioni tra le differenti categorie di soggetti che la vivono. Tra questi, in particolare, alcuni tra i ricercatori che si occupano del perfezionamento delle politiche tramite l’ausilio di strumenti digitali, basati sull’impiego di dati urbani, hanno distinto tre principali categorie di cittadini: residenti, lavoratori, visitatori[4].

Questa prima elencazione può essere d’aiuto per individuare i soggetti interessati dalle politiche amministrative, con un paio di specificazioni inerenti il caso di specie: da un lato, infatti, vale la pena sottolineare come quella dei visitatori sia una categoria più ampia rispetto a quella dei turisti, comprendendo la prima anche gli ospiti e coloro che si trovino all’interno di un dato territorio per ragioni, in generale, di piacere; d’altro canto, in una città universitaria qual è Venezia, come molte tra le città italiane, è senza dubbio significativa la componente studentesca, riconducibile per certi versi ai lavoratori, ma con alcune ovvie differenze nell’interazione con l’ecosistema urbano.

Una delle caratteristiche più interessanti di questo filone di ricerche sulle politiche urbane data-driven è l’idea che  i cittadini – pur in questa definizione mossa più che altro da propositi di efficientamento dei servizi urbani, la cui estrema ampiezza è dunque suggerita essenzialmente dall’esame dei cittadini nella veste di utenti – da un lato, usano la città e le sue infrastrutture, godono dei servizi e degli spazi comuni, si rendono partecipi delle occasioni di socialità; dall’altro, però, sono chiamati a restituire qualcosa alla collettività di cui si trovano a far parte, che nello specifico consiste nel mettere a disposizione alcune categorie di dati.

Il medesimo principio, emerso in questo settore molto specifico, non appare però fuori luogo anche applicato più generalmente alla relazione tra cittadini-utenti e la città stessa. In particolare, emerge come i cittadini, considerati nel molto ampio significato di persone che a qualsiasi titolo vivano la città e fruiscano dei suoi luoghi e dei suoi servizi – com’è d’altra parte intrinseco nella stessa natura della città, in quanto bene comune non soggetto ad appropriazione, nemmeno da parte di comunità più o meno ristrette ed esclusive, e dotato di una particolare vocazione all’accoglienza – entrino in diversa misura tutti a far parte della collettività che, in un dato momento, si colloca all’interno di un determinato spazio urbano. Al contempo, però, proprio al fine di garantire loro il benessere, i servizi e le occasioni che cercano, e che indubbiamente la città può offrire loro, devono necessariamente restituirle qualcosa, in termini di partecipazione economica o di impegno personale.

In altre parole, al rapporto tra cittadino-utente e città non può che rimanere estranea una logica estrattiva: se da un lato, infatti, ciascuno cerca nel tessuto urbano, e persino pretende dall’amministrazione, ciò di cui ha bisogno per il migliore svolgimento della propria quotidianità, dell’attività lavorativa, o del proprio soggiorno per ragioni di visita o piacere, è pur vero che il turista che fruisce dei servizi ad hoc e di quelli utilizzati indifferentemente dai residenti, producendo un innegabile impatto sulla città, l’imprenditore che offre quei servizi turistici o produttivi, il semplice residente, non possono estrarre dal tessuto urbano tutto ciò che esso è in grado di offrire senza garantire nulla in cambio, pena la definitiva compromissione e lo svuotamento di quest’ultimo.

 

  1. Città come bene comune

 

Premessi alcuni cenni a proposito dei soggetti della città, prima di concludere con alcune più puntuali considerazioni sul citato regolamento approvato dal Consiglio Comunale di Venezia – tanto sotto il profilo più prettamente amministrativo, che costituzionale, alla luce dei diversi diritti in gioco – giova infine spendere alcune righe sulla città come bene comune, tema che prende le mosse principalmente dall’opera di Lefebvre[5], per estendersi alle più moderne ricerche – e politiche urbane – che ruotano intorno al concetto di “city as a commons[6]: la città, d’altra parte, nell’ordinamento costituzionale è anzitutto una formazione sociale, nella quale, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, trova naturale svolgimento la personalità dell’uomo, come appare assolutamente ovvio se si consideri che essa è da sempre il principale luogo di incontro e confronto tra le persone, per qualunque ragione, la frequentino.

Modelli virtuosi, nel passato più o meno remoto, di certo non mancano: basti richiamare, ad esempio, il Costituto di Siena del 1309, a mente del quale la bellezza della città è motivo di orgoglio “per cagione di diletto e di allegrezza ai forestieri e per accrescimento dei cittadini”. Proprio questo breve passo ha recentemente sollecitato alcune critiche, nel contesto di un’inevitabile comparazione, a talune caratteristiche della città di oggi: “in cosa consiste – ci si è chiesti – la forza della cultura, del resto, se non nella massima apertura al diverso da sè, allo sconosciuto? Ma da quella idea di città ospitale che nella penisola esisteva persino nel medioevo, in cui le prime grandi opere urbane erano gli spedali lungo le rotte dei viandanti siamo arrivati al completo tramonto di una idea ‘ospitale’ di città”[7].

A proposito dell’ormai millenaria vocazione civica all’aggregazione e alla concentrazione di persone diverse, che vengono quotidianamente spinte ad affacciarsi all’interno di un dato tessuto urbano da ragioni e fini eterogenei, il filosofo Umberto Curi ha proposto alcune interessanti considerazioni: il modello originario di polis greca, fondato sulla stirpe più che sulla legge e, dunque, necessariamente esclusivo per non compromettere i propri caratteri di originalità – nota infatti – lascia il posto alla civitas romana, che al contrario è fondata sul comune assoggettamento alla legge della Repubblica, prima, e poi dell’Impero di persone che appartengono a luoghi, culture ed etnie differenti, purché accettino di convivere nella pax romana[8]; una struttura accolta dalla tradizione cristiana di Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, secondo un paradigma che tende “a trasformare l’‘orbis’, l’intera struttura del mondo, in ‘urbs’, cioè in città”[9].

Venendo ai risvolti politici, anche attuali, non si può che riportare la domanda cui conduce il ragionamento dell’autore: dunque, “quale riferimento scegliamo per la nostra città? Quella che si fonda sull’origine o quella che ha come principio di individuazione il fine? […] La comunità pensiamo che si formi attraverso meccanismi sempre più rigidi, discriminatori, di inclusioni che comportano esclusione, o al contrario attraverso un ‘augescere’, un crescere che includa sempre più largamente?”[10].

È della città come luogo di inclusione, come spazio dove quotidianamente si forma e consolida la comunità, che si può parlare come bene comune: ciò significa, “ad esempio, che una piazza non è un bene comune in sé, semplicemente per essere un mero spazio urbanistico, ma lo diventa per la sua natura di ‘luogo di accesso sociale e di scambio esistenziale”[11]. Non è possibile separare i tratti fisici da quelli sociali di uno spazio urbano inteso come bene comune. E perciò non sarebbe possibile escludere determinati gruppi di persone da uno spazio urbano che, in quanto bene comune, è soggetto al principio dell’accesso universale. Dovrebbe, dunque, ritenersi invalido un provvedimento amministrativo che impedisse a particolari categorie di individui di usufruire di un determinato spazio urbano. Infatti, come sostiene Mattei, lo spazio urbano per eccellenza, e cioè la piazza, ‘appartiene a una comunità tipicamente globale, ossia di tutti quanti, stanziali o viandanti, possano in astratto godere della sua funzione di luogo di scambio’[12][13].

Inoltre, è fuor di dubbio come non solo i luoghi e dunque gli spazi fisici possano godere dello status di beni comuni, ma anche i servizi pubblici locali debbano intendersi nello stesso modo, ragione per cui la compartecipazione al loro godimento assume pure dimensioni globali[14].

Un’ultima considerazione, però, fa da contraltare a quanto detto sinora: la comunità indeterminata e globale che gode della città, delle sue piazze e dei suoi servizi, deve altresì prendersene cura, in proporzione all’intensità della propria fruizione dei beni comuni che la compongono: e come possono prendersi cura dei complessi sistemi urbani quei visitatori e turisti dai quali non ci si può certo aspettare una partecipazione quotidiana e feriale alla vita della comunità? Una possibile risposta, per quanto minimale rispetto alla cura della città nel suo complesso, non può che essere in termini pecuniari. “Al pari di qualunque organismo, infatti – si osserva – vale anche per una società politicamente organizzata il collaudato brocardo, secondo cui homo sine pecunia imago mortis. Esso si estende, per ragioni elementari, di carattere logico ed empirico, dal singolo al corpo sociale, con evidenti e non contestabili implicazioni”[15]. Non a caso, l’autore richiama l’opera dello storico greco Senofonte “Le entrate”, nella quale – lontano millenni dal turismo di massa che affligge e sostenta la città lagunare – egli sosteneva l’opportunità che Atene concedesse la cittadinanza ad un numero sempre maggiore di stranieri, proprio al fine di risanare finanze della polis mediante i tributi che essi avrebbero portato[16].

  1. Profili amministrativi nel merito del Regolamento

Venezia, come ogni altro centro storico, si offre ai suoi spettatori senza pretendere nulla in cambio. Chi si è approcciato alla città senza dovervi soggiornare, per il solo piacere di goderne le meraviglie culturali e architettoniche, lo ha fatto finora non tributando denaro, ma solo stupore e ammirazione per le peculiarità che il capoluogo lagunare sa offrire. Nondimeno, la “corsa a Venezia”, alimentata dal turismo di massa e la difficile convivenza fra residenti (sempre meno) e turisti (sempre di più), ha spinto l’amministrazione cittadina ad esigere qualcosa in cambio di così tanto fascino, così gratuito e così in pericolo[17], vale a dire il c.d. contributo di accesso istituito con Regolamento del Consiglio Comunale n. 11 del 26 febbraio 2019 e s.m.i.[18], che istituisce una forma di contribuzione per un ampio novero di persone che accederanno al centro storico di Venezia e alle sue isole con qualsiasi vettore.

Il problema di fondo legato a questa scelta politica non è tanto il contributo di accesso, id est richiedere ai cittadini e ai frequentatori stranieri del centro storico un obolo per la sua sopravvivenza, quanto le ragioni che hanno portato a dover richiedere una contribuzione di questo tipo. Si è detto delle precarie condizioni architettoniche e demografiche di Venezia, anche insulare e ciò, di per sé, può giustificare l’istituzione del tributo (a patto che il relativo gettito veda un effettivo reimpiego per il recupero del territorio).

Va detto, in primo luogo, che il tributo non è nulla di sostanzialmente innovativo. In primo luogo, perché la disciplina del tributo in questione trova il suo fondamento nella legge n. 446/1997 e nel D.lgs. 23/2011. In seconda battuta perché si applica in luogo del “contributo di soggiorno” di cui al citato decreto legislativo in materia di fiscalità municipale che vede, come presupposto d’imposta, l’alloggio presso strutture ricettive ubicate nel Comune (come evidente forma di “ritorno” che l’ospitato versa per finalità turistiche all’ente ospitante). È chiaro anche che il gettito fiscale proveniente da questa nuova entrata potrà essere ben più consistente di quello previsto dalla c.d. “tassa di soggiorno”, atteso che la stessa non differenzia la misura del tributo in relazione alle varie tipologie di giornate (il Regolamento, invece, identifica le giornate dell’anno in base alla affluenza prevista, individuando quelle da “bollino verde”, per le quali il costo di accesso è fissato in 3,00 euro, fino a quelle da “bollino nero”, la cui tariffa è indicata in euro 10,00)[19].

La peculiarità urbanistica di Venezia può ben giustificare una misura di questo tipo, a condizione che si voglia vedere nel contributo di accesso una contribuzione al mantenimento delle sue meraviglie storiche e architettoniche e non già un deterrente alla sua frequentazione.

In altre parole, il tributo oggetto del discorso non è né potrebbe essere una soluzione al problema del turismo di massa, bensì un modo per rendere tale fenomeno maggiormente utile per la salvaguardia della Città.

La crescita proporzionale della misura del tributo può avere una capacità dissuasiva, specie in quei periodi dell’anno maggiormente contraddistinti da un’affluenza eccezionale, ove l’accesso è più caro. Ciò ovviamente non può che riportare a quanto considerato sopra, e cioè la perdita della natura di spazio globale dei luoghi di aggregazione cittadini. D’altro canto, è anche vero che la peculiarità urbanistica di Venezia rende complessa l’idea di una interazione armonica e sempre pienamente pacifica fra le categorie sociali che la frequentano: se lo spazio è per sua natura limitato, giocoforza sarà conteso.

Il tema della contesa si esplica nel difficile quesito: chi dovrà contribuire al mantenimento della città ovvero chi non dovrà essere disincentivato a frequentare il centro storico?

A ben guardare, le categorie di soggetti esclusi o esentati dall’applicazione del tributo sono molteplici e il Consiglio comunale si è preso cura di contemplare tutte le possibili ipotesi di giustificati motivi che possono legittimare la presenza in centro storico anche di categorie di persone a cui normalmente il contributo si applicherebbe (vedi gli artt. 4 e 5 del Regolamento). Alla luce delle superiori riflessioni, verrebbe da dire che uno spazio urbano dovrebbe essere luogo da frequentare e da vivere al di là del “giustificato motivo” (da autocertificare), dove la presenza del singolo e dei molti si autolegittima per la stessa natura urbana dell’insediamento. Ma, d’altro canto, si è già detto che l’interazione fra l’autoctono e l’alloctono in un tessuto cittadino come quello di Venezia è per sua natura fisiologicamente complesso.

In linea di principio, la libertà di circolazione dei cittadini all’interno del territorio della Repubblica è diritto fondamentale inviolabile (art. 16 Cost.), limitabile nei soli casi prescritti da disposizioni di legge rivolte alla collettività per ragioni di ordine pubblico o di sanità generale. Sarebbe facile tacciare la misura de qua come limitativa, laddove si guardasse al suo effetto ultimo potenziale (ossia una sorta di disincentivo ad affollare il centro storico)[20]. Ciò che si vuole in questa sede evidenziare è che subordinare l’ingresso ad un centro urbano al pagamento di un tributo è, invece, un mero condizionamento accessorio della generale libertà di circolazione per fini di interesse generale e non, certamente, una indebita limitazione della libertà di movimento.

Il problema, semmai, si pone non sul piano degli effetti bensì su quello delle previsioni, che investono direttamente il quomodo dell’esercizio della discrezionalità amministrativa in sede di predisposizione del Regolamento locale (atto formalmente amministrativo ma sostanzialmente normativo) e la predisposizione di sanzioni pecuniarie (da 50,00 a 300,00 euro) per la sua inosservanza, giusta la generale previsione di cui all’art. 7-bis del T.u.e.l.

Nell’ambito delle previsioni regolamentari, le categorie di soggetti passivi sono individuate in modo chiaro e preciso. Quanto ai soggetti esclusi ed esenti, vale la pena affermare che non sembrano ravvisarsi, ictu oculi, palesi discriminazioni: l’organo consiliare pare, ad avviso di chi scrive, aver fatto buon governo della sua discrezionalità nell’individuazione dei casi di applicabilità, esclusione ed esenzione dal tributo, mediante la previsione analitica di molteplici e variegate categorie, cercando di contemplare e considerare davvero tutti (o quasi) i casi di frequenza del centro storico e i relativi interessati.

D’altra parte, un problema si pone per i residenti nelle Regioni confinanti che accedano alla Città storica al di fuori dei motivi e dei casi di cui all’art. 5 (quindi, per mera volontà turistica o ricreativa)[21]. Il Regolamento sembra poi trovare una risposta anche alla spinosa questione delle c.d. “grandi navi” ossia i grandi vettori turistici che, fino a non molto tempo fa, transitavano pericolosamente per il Canale della Giudecca.

  1. I mezzi di tutela

Ad ogni modo, a fronte delle criticità rilevabili, pare opportuno interrogarsi su quali rimedi potrebbero essere concretamente esperiti da coloro che assumessero di essere pregiudicati dalle nuove disposizioni regolamentari. Premesso che gli effetti dell’introduzione di questa nuova misura potranno essere apprezzati, anche in relazione ad eventuali distonie, soltanto nel corso del tempo e che eventuali problematiche potranno primariamente essere portate all’attenzione del Consiglio comunale attraverso gli strumenti di partecipazione previsti dallo Statuto del Comune di Venezia, giova interrogarsi, seppure per ora in via solo astratta, sulla possibilità di contestare in via giurisdizionale il Regolamento istitutivo del tributo.

Va anzitutto premesso, in tema di legittimazione attiva, che non è così così scontata la possibilità di rinvenire in capo ad un individuo (in quanto appartenente ad una categoria tenuta al pagamento del contributo di accesso alla città) una situazione giuridica soggettiva pacificamente azionabile in giudizio. Pacifico che, in termini generali, l’interesse alla frequentazione del centro cittadino possa corrispondere ad un interesse di mero fatto, come tale non tutelabile sul piano giurisdizionale ma soltanto attraverso gli strumenti di partecipazione istituzionale previsti dallo Statuto comunale. Tuttavia, l’inserimento di un soggetto in una categoria tenuta a corrispondere il tributo all’atto di accedere al centro storico può presentare quel giusto grado di differenziazione dal quale è possibile evincere un interesse collettivo ascrivibile alla categoria di riferimento[22].

In tema di impugnazione dei regolamenti locali, poi, la giurisprudenza amministrativa distingue tra regolamento volizione preliminare e regolamento volizione azione[23]. Ebbene, nel caso del Regolamento sull’accesso, è possibile impugnare lo stesso ovvero un provvedimento sanzionatorio in applicazione delle sue disposizioni?

Accedendo alla prima tesi, bisogna porsi il problema del rispetto del termine per l’impugnazione (che pare di potersi ravvisare, ai sensi dell’art. 16, fino al 31 luglio 2022, ma che sarebbe più opportuno far coincidere con il termine di effettiva entrata in vigore delle disposizioni regolamentari annunciata dall’amministrazione locale ossia il 16 gennaio 2023[24]). In ogni caso, il sindacato sulla legittimità dell’atto compete al Giudice amministrativo in sede di giurisdizione generale di legittimità.

Nondimeno, pare difficile immaginare un pregiudizio immediato e diretto scaturente dalle stesse disposizioni regolamentari in assenza di un provvedimento applicativo. Infatti, laddove non si contestasse il contenuto puntuale di un atto applicativo del regolamento, potrebbe risultare difficile individuare nelle categorizzazioni operate dall’atto normativo delle lesioni immediate poiché il riscontro di posizioni compiutamente qualificabili in termini di interesse legittimo potrebbe apparire dubbio.

Più credibile, a questo punto, la tesi della volizione preliminare, per la quale l’eventuale sindacabilità delle disposizioni regolamentari potrebbe essere attivata solo laddove si impugnasse un atto applicativo delle disposizioni censurate (id est una sanzione amministrativa comminata ai sensi dell’art. nei confronti di un soggetto che contesta la legittimità della sua collocazione fra i soggetti passivi d’imposta). Del resto, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha ripetutamente affermato, rispetto agli atti di contenuto normativo, che è soltanto con il successivo atto applicativo che si viene a radicare tanto l’interesse al ricorso, quanto la legittimazione a ricorrere[25].

Cionondimeno, la soluzione in questione sconta un ulteriore problema applicativo. La competenza a pronunciarsi sull’impugnazione di una sanzione amministrativa è attribuita dalla legge all’Autorità Giudiziaria Ordinaria (art., D.lgs. 150/2011). A mente degli artt. 4 e 5 della legge 2248/1865 i poteri del giudice ordinario investito di una controversia avente ad oggetto un atto amministrativo illegittimo sono limitati alla sola eventuale disapplicazione dell’atto impugnato, con conseguente limitazione della portata della pronuncia con effetti inter partes[26]. Pertanto, accedendo alla più verosimile tesi della volizione preliminare, la possibilità di ottenere l’annullamento in parte qua del Regolamento locale si scontrerebbe con la considerazione inerente alle diverse giurisdizioni cui competerebbe pronunciarsi, ove si desiderasse ottenere l’annullamento tanto della sanzione amministrativa irrogata con l’atto applicativo (c.d. “atto a valle”) quanto del regolamento (c.d. atto “a monte”).

Tuttavia, di fronte a questa prospettazione che chiama in causa la differenza di giurisdizioni, con ovvia controversa questione de jure, è intervenuto il Consiglio di Stato, V Sezione, sentenza dell’8 novembre 2017, n. 5145, ad avviso del quale l’ammissibilità (o la procedibilità) del ricorso avverso un regolamento non può essere subordinata all’ulteriore condizione che l’impugnazione dell’atto applicativo rientri anch’essa nella giurisdizione del Giudice Amministrativo[27].

  1. Conclusioni

Tutte le riflessioni fin qui proposte mirano a suscitare degli interrogativi “tecnici” in tema di tutela giurisdizionale avverso atti regolamentari adottati da enti locali (nella specie, nell’ambito della c.d. “finanza propria”). Ciò che tuttavia non va perso di vista è il discorso di fondo: si pagherà per vedere la Città e le sue isole poiché, auspicabilmente, il ricavato diventi linfa per la città stessa.

Forse, proprio la peculiarità di Venezia può giustificare una misura di questo tipo, ma venendo a patti con la sua natura di meraviglia architettonica e storica. Se infatti la maestosità (e la grandezza) di un centro urbano risiede nell’offrirsi gratuitamente allo spettatore, cittadino o forestiero che sia, con il contributo di accesso cambierà qualcosa perché lo spettatore, dall’anno prossimo, diventerà spettatore pagante, pronto ad assistere a uno degli spettacoli più belli (e probabilmente il più delicato) d’Italia.

Comunque si giudichi la scelta di principio e la sua trasposizione in atto amministrativo, dunque, tanto alla città quanto al soggetto destinatario del neointrodotto tributo, a fronte di un vantaggio rispettivamente patrimoniale e culturale, si presentano non indifferenti effetti collaterali: se quest’ultimo, infatti, per godere della bellezza più o meno intatta di un’opera d’arte precaria e di difficile preservazione, è chiamato a contribuire economicamente, la città rischia invece di sacrificare irrimediabilmente parte della propria essenza di spazio della comunità, in cambio di una più solida certezza finanziaria del proprio futuro: cuius commoda, eius et incommoda.

[1] UNESCO, Venezia e la sua laguna, <https://www.unesco.it/it/PatrimonioMondiale/Detail/479>.

[2] Ex multis: Redazione, Unesco, ultimatum all’Italia: basta (sul serio) con le grandi navi, o Venezia va in black list, Finestre sull’Arte, 22/06/2021.

[3] F. Bottazzo, Venezia, obbligo di prenotazione per chi vorrà visitare la città: si parte quest’estate, Corriere del Veneto, 19/06/2022.

[4] R. Shibasaki, S. Hori, S. Kawamura, S. Tani, Integrating Urban Data with Urban Services, in Hitachi-UTokyo Laboratory, Society 5.0. A People-centric Super-smart Society, Tokyo, 2020, p. 71.

[5] H. Lefebvre, Il diritto alla città, Padova, Marsilio, 1970.

[6] S.R. Foster, C.F. Iaione, The city as a Commons, Yale Law & Policy Review, vol. 34, n. 2, 2016, pp. 281-349.

[7] M. Guastella, Porte aperte allo sconosciuto, in Aa. Vv., Le mani sulla città. Dalla gentrification alla rigenerazione urbana, Roma, Left, 2019.

[8] U. Curi, Alle radici dell’idea di città, in F. Pizzolato, A. Scalone, F. Corvaja (a cura di), Città e partecipazione tra diritto e politica, Torino, Giappichelli, 2019.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] C. Iaione, La città come bene comune, Aedon, n. 1/2013.

[12] Ibidem, cit. interna dell’autore: U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 55.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] M. Bertolissi, I cittadini azionisti della città, in F. Pizzolato, G. Rivosecchi, A. Scalone (a cura di), La città oltre lo Stato, Milano, Giuffrè, 2022.

[16] Ibidem, l’autore cita a tal proposito: V.C. Natali, Senofonte, in Enciclopedia filosofica, vol. XI, Milano, 2006, p. 10461.

[17] L’aggettivo “gratuito” probabilmente non si attaglia alla permanenza veneziana media, considerato l’alto costo della vita in centro storico nonché (e soprattutto) i costi non indifferenti che il turismo affronta per visitare le bellezze culturali e gli esercizi commerciali della città storica. Nell’ottica del presente testo, “gratuito” ha una portata limitata, coincidente con la sola fruizione degli spazi cittadini, delle calli, dei rii e dei campielli, patrimonio locale ma anche internazionale.

[18] Il Regolamento è consultabile al seguente indirizzo: https://www.comune.venezia.it/it/content/clone-regolamento-listituzione-e-la-disciplina-contributo-accesso-qualsiasi-vettore-alla (consultato in data 7 giugno 2022).

[19] Si è stimato – quanto meno in relazione alla situazione pre-Covid del 2018 (comunque prossima al ritorno, visto il progressivo ritorno alla normalità) – che nel periodo di massima frequentazione del centro storico vi fossero quotidianamente, nel territorio del Comune di Venezia, circa 72 turisti per ogni residente (al dato 31.12.2021, pari a 260.500). Dati tratti da https://www.lavocedivenezia.it/a-venezia-ci-sono-73-turisti-per-ogni-residente-15-volte-quelli-di-barcellona/ 31 maggio 2018.

[20] In effetti, una forza dissuasiva indiretta è collegata all’aumento proporzionale dell’importo del contributo di accesso a seconda del “bollino” della giornata interessata, con conseguente incidenza soprattutto sulle giornate coincidenti con ricorrenze e grandi eventi.

[21] Perché, in altre parole, un residente a Rovigo dovrebbe essere sollevato dal pagamento del contributo d’accesso a fronte di un residente nel pordenonese, a parità di distanza ferroviaria dal capoluogo lagunare? Viene così a crearsi una illogica discriminazione fra chi è nato a Venezia ma risiede in un’altra Regione (o comunque risiede in Veneto) e chi risiede in una Regione limitrofa ma non è nato a Venezia.

[22] Se, infatti, si assumesse lesivo dei cittadini residenti in Friuli Venezia Giulia l’obbligo di pagamento per una visita in giornata, il quesito (a risposta aperta) riguarda la possibilità di ravvisare una posizione abbastanza omogenea, differenziata e suscettibile di essere fatta valere in giudizio, individuale o collettivamente organizzata.

[23] È nota e pacifica in giurisprudenza la distinzione «tra regolamenti cd. volizioni preliminari, che, caratterizzati da requisiti di generalità e astrattezza, contengono previsioni normative astratte e programmatiche che non si traducono in una immediata incisione della sfera giuridica del destinatario e i regolamenti c.d. volizioni-azioni, che contengono, almeno in parte, previsioni destinate alla immediata applicazione, come tali capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera giuridica del destinatario» (così, T.A.R. Toscana, Sez. I^, sentenza n. 1194/2015). Conforme, vedi: T.A.R. Friuli Venezia Giulia, I Sez., sentenza n. 24/2017).

[24]https://www.ilgazzettino.it/nordest/venezia/venezia_a_pagamento_ticket_turisti_come_funziona_chi_deve_pagare_piattaforma_online_per_prenotare_visita-6787738.html

[25] Cons. Stato, V, sent. 1926 del 2016; id., V, 2294 del 2016; id., V, 2913 del 2016; id., V, 4130 del 2016.

[26] Una precisazione, in punto di disapplicazione dell’atto illegittimo. A seguito delle storiche sentenze del Consiglio di Stato del 1992 e del 1994, anche il Giudice amministrativo può disapplicare, d’ufficio, un atto amministrativo illegittimo ove lo stesso sia conforme ad una disposizione regolamentare in violazione della legge (c.d. simpatia) ovvero laddove lo stesso sia difforme rispetto alla prescrizione secondaria illegittima ma conforme al dettato primario (c.d. antipatia).

[27] Ritiene infatti il Giudice nomofilattico che “un simile assunto porterebbe all’inaccettabile risultato di escludere l’azione di annullamento contro quei regolamenti che regolano canoni, corrispettivi, indennità o che, comunque, incidono, a valle, su rapporti paritetici, rispetto ai quali la giurisdizione sull’atto applicativo non appartiene di regola al Giudice Amministrativo. Una simile conclusione, oltre che palesemente irragionevole, solleverebbe profili di significativo contrasto con i principi costituzionali che garantiscono l’effettività diritto di azione contro gli atti della pubblica amministrazione (artt. 24, 103 e 113 Cost.), non consentendo che esso sia limitato o escluso per determinate categorie di atti (art. 113, comma 2, Cost.)” (Riforma della sentenza del T.a.r. Calabria, Reggio Calabria, n. 902/2016).

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