giovedì, Marzo 28, 2024
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La disciplina dei patti successori

Chiediamoci: “è possibile disporre di quanto si possiede, già prima della morte?”

La questione ha interessato a lungo la dottrina che ha dato, ad oggi, una risposta certa, attraverso la lettura interpretativa precisa e conforme del nostro codice civile.

L’articolo 458 c.c. stabilisce, infatti, che: “fatto salvo quanto disposto dagli art. 768-bis e seguenti, è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi”.

Tale norma dispone, in maniera chiara, il divieto “assoluto e, al contempo, generale” dei patti successori, di cui, in modo certo, se ne possono individuare quattro species di un unico genus, stabilite grazie ai dibattiti e agli studi sull’ analisi delle caratteristiche dell’istituto in esame.

Quattro figure eterogenee, che possiedono, però, alcuni elementi in comune:

1) l’esistenza concreta di un contratto unilaterale o di un negozio giuridico non testamentario;

2) l’oggetto del negozio o del contratto individua il contenuto concreto (decisum) della futura disposizione successoria.

In particolare, il nostro legislatore conosce:

I patti successori istitutivi, mediante i quali il de cuius, prima della sua morte, pone in essere un “contratto successorio”, disponendo anticipatamente della sua successione ed istituendo legatari ed eredi;
I patti successori dispositivi, con cui, invece, il soggetto decide dei diritti che andrà ad acquistare succedendo, mortis causa, ad un altro;
il patto successorio rinunziativo consente di rinunciare previamente ad eventuali diritti, che potranno a taluno spettare con una successione futura. Tale patto è legato ad una vera e propria rinuncia bilaterale o unilaterale, stipulabile con colui che, eventualmente, dovrebbe succedere o con i soggetti che trarrebbero un eventuale beneficium dalla rinunzia;
Infine, abbiamo i patti indiretti che costituiscono un’attribuzione indiretta mortis causa.
L’inammissibilità dell’istituto trattato ha una sua ratio iuris giustificativa, in quanto non può esistere una terza causa di delazione di natura contrattuale, che si ponga, illegittimamente,  accanto a quella legale o testamentaria. La dottrina ha, più volte, evidenziato che la disciplina contrattuale confligge totalmente con la piena libertà di disporre “liberamente” della propria successione fino all’ultimo istante di vita. Tale principio, ribadito in più occasioni nel nostro codice civile, viene preservato e garantito dalla possibilità di revocatio di quanto deciso.

Dall’altra parte, la bilateralità stessa del contratto mette in luce l’impossibilità di revocare, se non congiuntamente, il contenuto individuato e stabilito dalle parti.

La caratteristica di tale patti è rappresentata anche dalla loro efficacia, talvolta reale e in altri casi obbligatoria; l’efficacia è reale, quando si tratta di disposizioni con effetti immediati, invece è obbligatoria, laddove venga in essere un munus per il soggetto, con il quale si impone di dare esecuzione alla voluntas del disponente.

Le ragioni che spingono ad essere contrari sono evidenti, seppur non del tutto convincenti, infatti,  si vuole evitare che il soggetto possa dilapidare ex ante tutti i beni che potrebbe ricevere in successione, impedendo, così, la realizzazione effettiva della voluntas del de cuius.

Inoltre, grazie alla dichiarazione di nullità dell’atto dispositivo si consente ai legittimi “chiamati all’eredità” di riottenere il quantum rinunciato o la titolarità piena dei diritti disposti.

La nullità imposta è dettata dal fatto che, con qualsivoglia tipo di patto, si va a costituire un “vinculum iuris” tra le parti, quindi un vero e proprio contratto bilaterale a prestazioni corrispettive.

Deve però, chiaramente, esser sorta una vera ed effettiva “intesa contrattuale”, la sola manifestazione verbale dispositiva non costituisce un limite alla piena libertà del testatore.

E’ forse mai possibile sanare un atto di tal genere?

E’ inammissibile, senza dubbio, e non è possibile neppure trasformarlo in un eventuale testamento, perché sarebbe da applicarsi la disciplina ex art 1424 c.c., relativa alla conversione del negozio nullo.

La trasformazione del patto successorio in testamento, date le premesse, è impossibile anche per un’altra ragione: la mancanza di coincidenza della strutture in esame. Infatti l’una è bilaterale e l’altra, risultante da detta conversione, di tipo unilaterale.

Per concludere l’attenta analisi dell’istituto, non possiamo non affrontare la tematica dei patti di famiglia; essi costituiscono una deroga vera e propria all’istituto dei patti successori. Il legislatore, infatti, ha parlato di un’attribuzione non mortis causa, ma di vero e proprio contratto inter vivos, sancendo in tal modo le differenze sostanziali. Il patto di famiglia costituisce un’ecceptio al divieto ex art. 458 c.c.; pertanto è da ritenersi atto ad effetti traslativi immediati e definitivi, non legato al momento dell’apertura della successione, o meglio, dissociato dall’istante in cui muore colui che ha deciso di disporre dei suoi beni. L’oggetto del decisum non è l’id quod superest, ma è determinato concretamente alla stipula del patto stesso; al pari, sono certi anche i beneficiari dell’assegnazione ed i loro eventuali eredi (individuati o individuabili nel caso in cui premuoia il primo assegnatario).

Parte della dottrina sottolinea che la legittimità dell’istituto e il suo carattere derogatorio sono dovuti alla possibilità di poter predisporre una liquidazione a favore dei legittimari non assegnatari da parte dei legittimari assegnatari. In sostanza, i non legittimari con l’accettazione esplicita o implicita della liquidazione della loro quota è come se cedessero, dietro pagamento di un corrispettivo in natura o denaro, la loro “porzione di legittima” in relazione ai beni oggetto del patto. Le differenze rendono così evidenti le diversità dei due istituti e giustificano al pari la diseguale ammissibilità nell’uso dei medesimi.

Dott.ssa Angiola Giovanna Modano

Angiola Giovanna Modano nasce ad Avellino il 24 giugno del 1993 e in un piccolo paesino della stessa provincia risiede ancor oggi insieme alla sua famiglia, a cui è molto legata. Dopo aver frequentato il liceo classico "Aeclanum" conseguendo il diploma con una valutazione di 100/100, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell'ateneo di Napoli "Federico II". Si è laureata il 6 luglio 2017, in soli 4 anni e una sessione con il massimo dei voti, discutendo una tesi in diritto amministrativo. Appassionata di più branche del diritto, di cui si ritiene esser totalmente affascinata, ha deciso di inseguire il suo sogno: il percorso notarile. Ancor prima di ultimare il suo iter di studi ha infatti iniziato il tirocinio notarile nel distretto di Avellino, affiancando già oggi, nonostante la mano inesperta, il proprio notaio nella stesura di atti.

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