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La discriminazione degli algoritmi: il caso Deliveroo, Trib. Bologna, 31 dicembre 2020

1. La sentenza

 

Il 31 dicembre 2020, la Sezione Lavoro del Tribunale di Bologna ha accolto il ricorso presentato congiuntamente dai sindacati dei lavoratori Nidil Cgil, Filcams Cgil e Filt Cgil avverso Deliveroo, il cui oggetto di contestazione era l’algoritmo utilizzato dalla piattaforma per organizzare le prestazioni di lavoro dei propri dipendenti[1], in conformità al c.d. ranking reputazionale.

La distribuzione del lavoro tra i rider da parte della piattaforma digitale, infatti, avviene in modo automatizzato attraverso un sistema selettivo di prenotazione delle sessioni di lavoro basato sul punteggio attribuito dall’algoritmo a ciascun rider ed elaborato sui due parametri dell’affidabilità e della partecipazione.

Il fattorino viene dunque profilato e dagli esiti di tale profilazione dipendono le sue effettive possibilità di accedere o meno ai turni di lavoro: “l’algoritmo – si legge nella ricostruzione in fatto riportata dall’ordinanza – […] di fatto penalizza l’adesione del rider a forme di autotutela collettiva e, in particolare, ad astensioni totali dal lavoro coincidenti con la sessione prenotata”; esso, sostanzialmente, sanzionando con la perdita di punteggio i rider che non rispettano le sessioni di lavoro prenotate, rende impossibile l’esercizio del diritto di sciopero senza che ad esso consegua la quasi totale espulsione del rider dal sistema della piattaforma[2].

La subordinazione delle future occasioni di lavoro ai requisiti dell’affidabilità e della partecipazione così automaticamente rilevate, dunque, penalizzano il lavoratore per aver aderito ad iniziative di autotutela collettiva coincidenti con il suo turno ovvero per essersi astenuto dalla prestazione di lavoro per ogni altra causa pur pacificamente legittima, dalla malattia ad esigenze di assistenza o legate ad un figlio minore.

Le organizzazioni dei lavoratori, fattesi parti attrici, di conseguenza chiedevano che venisse accertata la discriminazione posta in atto dall’azienda convenuta nell’organizzazione del lavoro mediante l’algoritmo conosciuto come “Frank”, il quale si prestava a discriminare e penalizzare il lavoratore nell’esercizio dei suoi diritti costituzionali, quali il diritto di sciopero e la cura di sé e dei figli, senza che ciò comporti a suo carico un’ingiusta penalizzazione[3].

Nota strettamente giuslavoristica, ma di estremo interesse nel commentare la sentenza in esame, è la constatazione che il Giudice di Bologna non si interroghi più sulla precisa collocazione dei contratti in essere tra l’azienda e i rider, ma al contrario presupponga come valide e ormai assodate le conclusioni già raggiunte dalla Suprema Corte e successivamente confermate anche da Tribunali di merito, e cioè l’opzione per una lettura sostanziale delle tutele spettanti ai lavoratori: “alla luce della recente evoluzione legislativa e giurisprudenziale in tema di tutela dei riders – si legge nell’ordinanza – non pare oggi potersi dubitare della necessità di estendere anche a tali lavoratori, a prescindere dal nomen iuris attribuito dalle parti al contratto di lavoro, l’intera disciplina della subordinazione e, in particolare, per quanto qui interessa, la disciplina a tutela del lavoratore da ogni forma di discriminazione nell’accesso al lavoro”[4].

Posta questa premessa, non esaustiva in quanto tale, ma assai di più alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale e delle questioni ormai ampiamente dibattute sull’inquadramento contrattuale e sulle misure di tutela applicabili ai rider, che l’ordinanza richiama, vale la pena riportare per intero i due passaggi chiave dell’articolata motivazione.

“Ebbene – così il Tribunale di Bologna – la circostanza che la società resistente riservi un trattamento “particolare” alle uniche due ipotesi (quella dell’infortunio su turni consecutivi e quella del malfunzionamento del sistema) in cui evidentemente ritiene meritevole di tutela la ragione della mancata partecipazione alla sessione prenotata dimostra plasticamente come non solo sia materialmente possibile, ma sia anche concretamente attuato, un intervento correttivo sul programma che elabora le statistiche dei rider, e che la mancata adozione, in tutti gli altri casi, di tale intervento correttivo è il frutto di una scelta consapevole dell’azienda.

In sostanza, quando vuole la piattaforma può togliersi la benda che la rende “cieca” o “incosciente” rispetto ai motivi della mancata prestazione lavorativa da parte del rider e, se non lo fa, è perché ha deliberatamente scelto di porre sullo stesso piano tutte le motivazioni – a prescindere dal fatto che siano o meno tutelate dall’ordinamento – diverse dall’infortunio sul lavoro e dalla causa imputabile ad essa datrice di lavoro (quale evidentemente è il malfunzionamento della app, che impedisce il log-in).

Il sistema di accesso alle prenotazioni (SSB) adottato dalla resistente realizza quindi non una discriminazione diretta, ma una discriminazione indiretta, dando applicazione ad una disposizione apparentemente neutra (la normativa contrattuale sulla cancellazione anticipata delle sessioni prenotate) che però mette una determinata categoria di lavoratori (quelli partecipanti ad iniziative sindacali di astensione dal lavoro) in una posizione di potenziale particolare svantaggio”[5].

“In tutti questi casi – prosegue l’ordinanza del 31 dicembre – il rider vede penalizzate le sue statistiche indipendentemente dalla giustificazione della sua condotta e ciò per la semplice motivazione, espressamente riconosciuta da Deliveroo, che la piattaforma non conosce e non vuole conoscere i motivi per cui il rider cancella la sua prenotazione o non partecipa ad una sessione prenotata e non cancellata.

Ma è proprio in questa “incoscienza” (come definita da Deliveroo) e “cecità” (come definita dalle parti ricorrenti) del programma di elaborazione delle statistiche di ciascun rider che alberga la potenzialità discriminatoria dello stesso.

Perché il considerare irrilevanti i motivi della mancata partecipazione alla sessione prenotata o della cancellazione tardiva della stessa, sulla base della natura asseritamente autonoma dei lavoratori, implica necessariamente riservare lo stesso trattamento a situazioni diverse, ed è in questo che consiste tipicamente la discriminazione indiretta.

Il sistema di profilazione dei rider adottato dalla piattaforma Deliveroo, basato sui due parametri della affidabilità e della partecipazione, nel trattare nello stesso modo chi non partecipa alla sessione prenotata per futili motivi e chi non partecipa perché sta scioperando (o perché è malato, è portatore di un handicap, o assiste un soggetto portatore di handicap o un minore malato, ecc.) in concreto discrimina quest’ultimo, eventualmente emarginandolo dal gruppo prioritario e dunque riducendo significativamente le sue future occasioni di accesso al lavoro”[6].

 

2. Principio di uguaglianza e non discriminazione

 

Alla luce di quanto espresso dal Tribunale di Bologna nei passi citati, come d’altra parte prevedibile ponendosi nella prospettiva di una lettura costituzionale della disciplina lavoristica, la quale non può certo essere scalzata dalla presunta incoscienza della piattaforma, è da escludere che un lavoratore possa essere in alcun modo escluso o discriminato rispetto ai colleghi in quanto si sia reso portatore di istanze comprensibilmente contrapposte a quelle di parte datoriale, oppure sia più cagionevole o in posizione di debolezza data da circostanze personali o familiari.

Il General Manager di Deliveroo Italy, Matteo Sarzana, nel far notare il mutamento del sistema di attribuzione degli slot intervenuto subito prima della sentenza, ha dichiarato che la correttezza del vecchio sistema di organizzazione del lavoro sarebbe “confermata dal fatto che nel corso del giudizio non è emerso un singolo caso di oggettiva e reale discriminazione”, basandosi a suo dire la decisione “su una valutazione ipotetica e potenziale priva di riscontri concreti”[7]: in realtà, il Tribunale ammette la legittimazione attiva delle sigle sindacali proprio in forza del carattere diffuso della discriminazione che rende più difficilmente individuabili i singoli soggetti lesi[8].

Da parte sua Tania Sacchetti, Segretaria Confederale CGIL, a margine della sentenza ha sottolineato invece che per la prima volta in Europa un giudice ha preso posizione sulla discriminatorietà dell’algoritmo “Frank”, proprio perché “indifferente alle esigenze dei rider che non sono macchine, ma lavoratrici e lavoratori con diritti[9].

È proprio questo in effetti l’angolo visuale prescelto dal Giudice bolognese, poiché certo non può sfuggire ad entrambe le parti del rapporto di lavoro che la normativa antidiscriminatoria, nei suoi profili civili e penali, non è altro che una puntuale e dettagliata disciplina del principio di uguaglianza formale, sostanziale e rapportata al benessere dell’individuo, sia nelle formazioni sociali che come singolo e, anzitutto, come lavoratore, che si ritrova negli artt. 2 e 3 della Costituzione.

La riduzione della persona del lavoratore ad un profilo inerente i risultati della sua prestazione e la gestione standardizzata del suo lavoro mediante un algoritmo che tiene conto unicamente dei dati relativi al profitto presumibilmente procurato alla piattaforma pongono i rider su un piano di forzata equiparazione e confronto che ben difficilmente si possono ricondurre a criteri di uguaglianza ed equità.

D’altra parte, il lavoro delle piattaforme è solo la più recente manifestazione della “perdurante disuguaglianza tra capitale e lavoro”[10] che si traduce nell’obbligo costituzionale di non considerare tutti i lavori uguali, dovendo al contrario produrre un riequilibrio delle tutele a favore di quei lavori prestati in condizioni sostanziali di dipendenza economico-sociale. La Costituzione italiana infatti, priva di qualunque distinzione relativa alle forme assunte dai contratti di lavoro, “si preoccupa di rimuovere situazioni soggettive di debolezza e disuguaglianza sostanziale comunque e dovunque si manifestino”[11].

A testimonianza del perdurante conflitto tra le ragioni del lavoro e quelle del profitto delle piattaforme, si può ricordare come, dinanzi alla Corte di Cassazione, l’azienda Foodora nel ricorso che ha portato alla già citata Cass. 1663/2020, abbia teorizzato un’interpretazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, diametralmente opposta alla ragion d’essere della previsione costituzionale[12], che se non fosse stata rigettata dalla Suprema Corte avrebbe portato a considerare inapplicabili le tutele dei lavoratori subordinati ai rider resistenti proprio in quanto supportati da una tipologia contrattuale più che mai debole e precaria.

Al contrario, anche nel caso concernente Deliveroo, il Tribunale di Bologna ha ritenuto pienamente applicabile la normativa antidiscriminatoria[13], che d’altra parte risponde alla tutela di basilari diritti costituzionali e finanche diritti umani.

 

3. I diritti connaturati al rapporto di lavoro

 

Alla piattaforma digitale, come Deliveroo, è richiesto dunque non solo di restare indifferente – ammesso che ciò sia possibile, considerando che la stessa è portatrice di propri interessi anche in contrasto con quelli del rider – ma di farsi parte attiva nel perseguimento dei diritti e delle libertà proprie del lavoratore e nel rispetto dei principi costituzionali riguardanti l’organizzazione del lavoro.

Con riferimento alla sfera dei diritti strettamente connessi alla prestazione lavorativa, per esempio, agli artt. 39 e 40 della Costituzione fissano rispettivamente la libertà sindacale e il diritto allo sciopero. Trattandosi di veri e propri diritti, di rango costituzionale, è evidente che il loro libero esercizio non possa incontrare limitazioni o disincentivi nelle indebite pressioni, nelle diminuzioni stipendiali, nel licenziamento o nell’annullamento delle opportunità di lavoro da parte della piattaforma.

La violazione di questi ultimi, dunque, non viene fatta salva né di fronte al mancato rinnovo del contratto – qualificato come licenziamento illegittimo dalla Cassazione – in seguito all’adesione a manifestazioni di autonomia collettiva, nel caso di Foodora, né, com’è il caso di Deliveroo, dinanzi al semplice e automatico collocamento al di fuori del mercato del lavoro a fronte della mancata prestazione.

L’art. 35, il principio cardine dei diritti del lavoro in Costituzione, attribuisce alla Repubblica il compito di tutelare il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni e di curare la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori.

L’impegno della Repubblica in questo senso, specialmente a fronte di un’organizzazione del lavoro che nella contemporaneità può fare affidamento su tecnologie digitali automatizzate e algoritmi che ben potrebbero massimizzare, oltre ai profitti, anche la partecipazione dei lavoratori, potrebbe esprimersi al meglio proprio nelle piattaforme digitali qualora trovasse finalmente applicazione il disposto dell’art. 46 Cost.

Quest’ultimo, infatti,  riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione: ad oggi, la previsione è di fatto rimasta sulla carta, non essendo state mai emanate le leggi che avrebbero dovuto stabilire i modi della partecipazione, ma l’emergente economia delle piattaforme offre l’occasione per una seria rivalutazione del suo contenuto prescrittivo.

Altre due disposizioni di rilevanza primaria, anche nel valutare il lavoro svolto mediante l’intermediazione di piattaforme digitali, sono gli articoli 36 e 37 della Costituzione, che stabiliscono rispettivamente il diritto alla retribuzione proporzionata e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa, il diritto irrinunciabile al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, nonché condizioni di lavoro che consentano l’adempimento della essenziale funzione familiare della madre (ma oggi si può ritenere anche del padre).

Senza dilungarsi su queste disposizioni, si può notare come siano tutti diritti oggetto di causa, in quanto la presunta indifferenza dell’algoritmo “Frank”, escludendo dal lavoro e dalla retribuzione chiunque manchi di eseguire la prestazione a prescindere dalle ragioni, comporta una compressione di fatto del loro esercizio.

Sui diritti personali e diritti umani in genere, infine, anch’essi potenzialmente compromessi dall’organizzazione algoritmica del lavoro, si può fare riferimento alla Raccomandazione del Consiglio d’Europa del maggio 2019 sull’intelligenza artificiale, che mette in guardia i legislatori nazionali sui pericoli dell’intelligenza artificiale in mancanza di adeguate procedure di supervisione, rimedi efficaci e trasparenza dei sistemi di AI[14].

La Raccomandazione, peraltro, tra i diritti che necessitano di monitoraggio, richiama espressamente il diritto al lavoro, che nella Costituzione italiana trova posto tra i Principi fondamentali all’art. 4, ed evidenzia i diritti umani che le sembrano posti in maggiore pericolo dai sistemi di intelligenza artificiale: libertà di espressione, di associazione, protezione dei dati personali e della riservatezza, non discriminazione e uguaglianza, che emergono nuovamente anche in quella sede.

Al più tradizionale conflitto tra capitale e lavoro, dunque, si aggiunge oggi quello tra algoritmo, organizzazione automatizzata della prestazione lavorativa e diritti del lavoratore: a dispetto delle tendenze di un mercato del lavoro sempre più liberalizzato, perciò, l’intervento pubblico si rivela necessario sempre più urgentemente nella supervisione e nella predisposizione di misure efficaci per fare dell’intelligenza digitale, che procede inesorabile, occasione di crescita e non di discriminazione per il lavoratore.

 

4. Conclusioni

 

L’immagine della benda e della cecità dell’algoritmo è illuminante su una questione che necessita di essere affrontata e approfondita seriamente: la non neutralità degli algoritmi, dai quali è regolata l’economia delle piattaforme digitali.

L’algoritmo è in effetti nient’altro che espressione matematica delle scelte datoriali sull’organizzazione del lavoro, che rispetto al passato si avvale non di ordini diretti e personalizzati, ma di una formula standardizzata, per ottenere i risultati produttivi prefissati, con una modalità che risulta oltretutto incontestabile per il lavoratore se non in sede giudiziale.

Della necessità ormai impellente di una regolamentazione più penetrante del potere privato costituito dalle piattaforme hanno preso atto il legislatore europeo, come dimostrano le proposte della Commissione denominate DSA e DMA[15], in via di approvazione, e la giurisprudenza dei giudici nazionali di diversi Stati membri, poc’anzi esemplificata: molta è la strada ancora da fare, però, per i legislatori nazionali, che si trovano sostanzialmente impreparati di fronte al potere destabilizzante delle piattaforme.

Se l’algoritmo e l’intelligenza digitale vengono spesso prefigurati come garanzia di neutralità, imparzialità, correttezza nelle decisioni, si tratta di una visione certamente ingenua: essi, infatti, sono il prodotto degli indirizzi forniti da parte di chi li detiene, sono finalizzati ai risultati per i quali vengono elaborati e cioè, nel caso delle piattaforme di lavoro, la massimizzazione del profitto.

Marta Fana definisce l’algoritmo “un meccanismo spersonalizzato che incorpora in sé i processi di controllo e disciplina propri delle organizzazioni verticali e gerarchiche come i luoghi di lavoro. L’unica novità dell’algoritmo – prosegue – è farlo in modo impersonale, spostando quei processi dall’umano alla macchina e ai dispositivi digitali. […] L’algoritmo e i dispositivi digitali, quindi la tecnologia applicata ai luoghi di lavoro, non sono neutrali, hanno un indirizzo politico, funzionando a favore di interessi ben precisi”[16].

L’algoritmo non costituisce dunque alcuna garanzia, ma al contrario, caratterizzato da una tendenziale opacità, cela in modo imperscrutabile ai più l’eventuale discriminazione connaturata: “la neutralità algoritmica è un mito da decostruire[17].

È così evidente che la strada verso l’eguaglianza, la realizzazione personale prevista da Costituzione e la tutela dei diritti dei lavoratori non possa che essere disegnata da una mano umana e non standardizzata, com’è umana d’altra parte la mente che elabora e nel futuro svilupperà sempre più gli algoritmi in grado di massimizzare i profitti delle piattaforme, i quali, se possono avvicinarsi sempre più alla perfezione matematica nella realizzazione degli interessi del loro detentore, non possono al contempo sovrintendere efficacemente alle molteplici e personali necessità e alla soddisfazione dei più diversi diritti del lavoratore: nella migliore delle ipotesi, allo stato, ci si può attendere che l’algoritmo datoriale sia realizzato in modo da non pregiudicare la sfera dei diritti personali del lavoratore e da essere pacificamente e trasparentemente conoscibile, e dunque sindacabile, anche in sede di giudizio.

[1] Pochi giorni dopo, il Tribunale di Barcellona (sentenza n. 259/20) ha condannato Deliveroo all’assunzione di 748 fattorini in virtù della loro effettiva subordinazione, mancando ogni autonomia nello svolgimento della prestazione e un’effettiva facoltà di autodeterminazione (C. de Marchis Gomez, Dopo l’Italia, la Spagna: i riders sono dipendenti, Collettiva, 18/01/2021), giungendo a conclusioni simili a quelle ottenute dai lavoratori di Foodora da parte della Corte di Cassazione, n. 1663/2020.

[2] Trib. Bologna, ord. 31/12/2020. La sentenza in commento ricostruisce in fatto come segue il funzionamento dell’algoritmo di Deliveroo: “ciascun rider viene quindi periodicamente profilato tramite “statistiche” elaborate dalla società che valutano il tasso di rispetto delle ultime 14 giornate di sessioni di lavoro dallo stesso prenotate e non cancellate nel termine di 24 ore previsto dal regolamento di Deliveroo; […] Secondo le condizioni di impiego rese pubbliche da Deliveroo, qualsiasi “cancellazione”, ovvero annullamento della prenotazione della sessione con un preavviso inferiore alle 24 ore determina per il rider una penalizzazione delle sue statistiche; […] tale penalizzazione deriva dal fatto che il sistema di prenotazione settimanale consente ai riders con maggior punteggio di prenotare con priorità le sessioni di lavoro (i turni o slots) che man mano si saturano divenendo non disponibili per i riders con minore priorità”.

 

[3] Queste le conclusioni di parte attrice: “1. – Accertare e dichiarare il carattere discriminatorio delle condizioni di accesso alle sessioni di lavoro tramite la piattaforma digitale della convenuta e in particolare dei parametri di elaborazione del ranking c.d. reputazionale che incidono sulla priorità di scelta delle sessioni di lavoro senza considerare la causa che ha dato luogo al mancato rispetto della sessione prenotata per i motivi di cui al ricorso.

  1. – Accertare e dichiarare, anche ai sensi delle direttive comunitarie, il carattere discriminatorio della condotta e della prassi aziendale di Deliveroo Italia s.r.l. descritte nel presente atto.
  2. – Ordinare a Deliveroo Italia s.r.l. ai sensi dell’art. 28, 5 co. del d.lgs 1 settembre 2011 n. 150 l’adozione di un piano di rimozione delle discriminazioni ovvero delle prassi che ostacolano l’esercizio dei diritti dei soggetti lesi conformemente al ricorso, sentite le organizzazioni sindacali ricorrenti ed in ogni caso:
  3. – Ordinare alla convenuta di modificare le condizioni di accesso alle sessioni di lavoro e comunque di prenotazione delle stesse ed in particolare i parametri di elaborazione del ranking reputazionale che assicurano la priorità nella scelta delle sessioni di lavoro attraverso l’adozione di modifiche al sistema che impediscano gli effetti discriminatori sul diritto di sciopero, sullo stato di malattia legata handicap e condizioni familiari indicati nel ricorso.
  4. – Ordinare di divulgare l’emanando provvedimento nelle condizioni di contratto e nell’area “domande frequenti” contenute nella piattaforma e comunque disporre che venga comunicato il provvedimento tramite informative indirizzate a tutti i riders registrati che prestano attività in Italia.
  5. – Ordinare alla convenuta la pubblicazione a proprie spese del provvedimento richiesto su almeno cinque quotidiani nazionali con il formato piena pagina o altro di giustizia e, in ogni caso, la sua pubblicazione per un periodo ritenuto congruo sulla pagina iniziale del sito della società.
  6. – Condannare Deliveroo Italia s.r.l. in favore delle organizzazioni sindacali ricorrenti al risarcimento del danno non patrimoniale causato dalla descritta condotta discriminatoria, in misura adeguata, proporzionata e dissuasiva da determinarsi in via equitativa.
  7. – Disporre in ogni caso ogni opportuno provvedimento al fine di rimuovere gli effetti della dichiarata condotta discriminatoria” (Trib. Bologna, cit.).

[4] In conformità alla pronuncia della Corte di Cassazione, n. 1663/2020 (di cui si era parlato già su questa Rivista, D. Testa, Cass. n. 1663/2020 (Foodora): il criterio della “debolezza economica” rilancia il lavoro oltre il contratto, Ius in Itinere, 25/02/2020), nonché alla recente sentenza del Tribunale di Palermo, n. 3570/2020.

[5] Trib. Bologna, cit.

[6] Ivi.

[7] La Repubblica, “L’algoritmo di Deliveroo è discriminatorio”: sentenza del Tribunale di Bologna, 02/01/2021.

[8] Trib. Bologna, cit., punto 3, pag. 8.

[9] Rai News, Tribunale ‘condanna’ l’algoritmo di Deliveroo: discrimina i rider, 02/01/2021.

[10] I. Massa Pinto, La libertà dei fattorini di non lavorare e il silenzio sulla Costituzione: note in margine alla sentenza Foodora (Tribunale di Torino, sent. n. 778 del 2018), «Osservatorio Costituzionale AIC», n. 2/2018, pag. 10.

[11] U. Romagnoli, Le due cittadinanze del lavoro, Insight, 2018. Cit. da C. Salazar, Diritti e algoritmi: la gig economy e il “caso Foodora”, tra giudici e legislatore, Consulta Online, 26/06/2019.

[12] Sempre su questa rivista, D. Testa, La ragionevolezza usata contro l’uguaglianza in tema di lavoro. La questione di legittimità costituzionale sollevata da Foodora in Cass. 1663/2020, Ius in Itinere, 28/02/2020.

[13] Trib. Bologna cit., punto 2, pag. 6.

[14] Council of Europe, Unboxing artificial intelligence: 10 steps to protect human rights, 2019, pag. 9: “in order to comply with their positive and procedural obligations under the European Convention on Human Rights, member states should apply such measures as may be necessary to protect the human rights of individuals against violations by AI actors throughout AI systems’ entire lifecycle”.

[15] A proposito del Digital Services Act, per questa Rivista: F. Paolucci, Il Digital Services Act: verso una nuova governance di Internet?, Ius in Itinere, 23/12/2020. Su entrambe le proposte: B. Calderini, Ridare all’Europa controllo su algoritmi ed economia digitale: i fini delle norme Dsa e Dma, Agenda Digitale, 16/12/2020.

[16] M. Fana, Il lavoro, i diritti e l’algoritmo di Deliveroo, Valori, 05/01/2021.

[17] F. Bucci, Algoritmi e diritti umani: qual è il punto d’incontro?, Ius in Itinere, 12/01/2021.

Fonte immagine: https://www.personneltoday.com/hr/union-wins-go-ahead-for-deliveroo-collective-bargaining-case/

Davide Testa

Davide Testa è dottorando di ricerca presso la LUISS - Guido Carli e City Science Officer a Reggio Emilia, cultore della materia in Diritto Costituzionale e avvocato nel Foro di Padova. Dopo aver conseguito gli studi classici presso il Liceo Marchesi,  ha studiato Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova, svolgendo un periodo di mobilità di due semestri presso l’University College Dublin. Nel 2019 si laurea in Diritto Costituzionale con una tesi intitolata “Fondata sul lavoro: dall’Assemblea costituente alla gig economy”. A partire dallo stesso anno, collabora con l’area di Diritto Costituzionale della rivista Ius in Itinere e partecipa ai lavori del gruppo di ricerca "Progetto Città", promosso dal Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario dell'Università di Padova. Nel 2020-2021 è inoltre stato titolare di un assegno di ricerca FSE intitolato "Urban Data Regulation – Best practices locali per un uso condiviso" presso il medesimo ateneo. Dal 2022 è dottorando di ricerca industriale presso LUISS - Guido Carli e, nell'ambito del dottorato, svolge attività di ricerca applicata presso il City Science Office attivato presso l'amministrazione di Reggio Emilia, nell'ambito della City Science Initiative promossa dal JRC della Commissione Europea. È inoltre avvocato presso il Foro di Padova.

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