giovedì, Marzo 28, 2024
Di Robusta CostituzioneLabourdì

La Festa dei Lavoratori: origini e cenni sul fondamento lavoristico della Repubblica

La Giornata internazionale dei lavoratori, dal 1889

 

La Festa dei Lavoratori è l’unico giorno di festa nazionale, escluse le ricorrenze di matrice religiosa e considerato il mancato ripristino della data del 20 settembre – anniversario della breccia di Porta Pia e della liberazione di Roma, il 20 settembre 1870, festa rimossa dal governo fascista nel 1930 in seguito alla sottoscrizione dei Patti Lateranensi – a collocare le sue origini ben prima della Repubblica.

Non si tratta, infatti, come accade per il 25 aprile o per il 2 giugno, di una data scelta e istituita per legge, in ragione di una ricorrenza fondamentale per lo Stato italiano: l’origine del 1 maggio, al contrario, è prettamente politica e anzi, all’epoca nella quale si situa, si potrebbe dire in termini contemporanei persino antagonista e radicalmente avversa al potere costituito, nonché avversata da esso.

La Giornata internazionale dei lavoratori viene istituita e celebrata per la prima volta il 1 maggio nel 1890 – data che ricorda il c.d. massacro di Haymarket, esito delle contestazioni avvenute in occasione dello sciopero generale indetto il 1 maggio 1886 a Chicago – per iniziativa della Seconda Internazionale, riunita nel Congresso svoltosi a Parigi nel 1889: si tratta dunque di un’iniziativa di matrice socialista, concepita quale giorno di lotta e di astensione collettiva dal lavoro per ottenere, nei primi anni, la riduzione dell’orario di lavoro alle otto ore giornaliere.

“Una grande manifestazione – stabilisce l’Internazionale – sarà organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente in tutti i paesi e in tutte le città, nello stesso giorno, i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare ad effetto le altre risoluzioni del Congresso di Parigi”[1].

Si può ben comprendere come le prime manifestazioni siano avversate categoricamente dai governi, in quanto fonti di rivendicazioni di massa e di conseguenti disordini: Francesco Crispi, nel 1890, vieta qualsiasi manifestazione pubblica sia per il 1 maggio, sia per la successiva domenica 4 maggio; la manifestazione, però, si svolge regolarmente e ottiene peraltro un successo superiore alle aspettative.

Le istanze dei lavoratori, anche dopo aver ottenuto le otto ore lavorative, si sono evolute fino a tempi assai più recenti in ragione delle fasi e delle vicende storiche, a partire già dai primi anni successivi al 1890 – portando all’attenzione, per esempio, nel secondo decennio del Novecento la contrarietà all’entrata in guerra, considerata incompatibile con lo spirito dell’Internazionale – fino al Regio Decreto del 1923.

Il 19 aprile aprile 1923, infatti, su proposta del governo Mussolini, Vittorio Emanuele III promulgava un decreto del seguente tenore: “è soppressa la festa di fatto del 1 maggio e tutte le pattuizioni intervenute tra industriali ed operai per la giornata di vacanza in tal giorno dovranno essere applicate pel 21 aprile e non pel 1 maggio. Il presente decreto entra in vigore oggi e sarà presentato al Parlamento per essere convertito in legge”[2].

Già nel 1945, nel mezzo della Liberazione e tre giorni dopo la morte per fucilazione di Mussolini in fuga, il Primo Maggio sarà teatro di una rinnovata partecipazione di massa dei lavoratori di ogni condizione ed età. Con le “Disposizioni in materia di ricorrenze festive” del 1946, la Festa del Lavoro viene riconosciuta infine festività nazionale, e con ciò istituzionalizzata e definitivamente ricollocata nella data del 1 maggio[3].

Finalmente, dunque, appena concluso il secondo conflitto mondiale, il Primo Maggio smette di essere una giornata di manifestazione delle istanze dei lavoratori tollerata oppure osteggiata apertamente – a seconda delle alterne vicende storiche – dallo Stato, e diviene una festività nazionale in cui si riconosce la Repubblica che, proprio tra il 1946 e il 1947, i Padri costituenti vorranno “fondata sul lavoro”.

 

“Fondata sul lavoro” o “Repubblica di lavoratori”?

Questa è l’alternativa che, fin dagli esordi delle discussioni sul primo articolo della Costituzione, in sede di Prima Sottocommissione, si è rivelata fonte di una contrapposizione di principio, trascinatasi fino al momento dell’approvazione del testo definitivo, tra chi propugnava la dicitura “Repubblica democratica di lavoratori” e chi preferiva altre formulazioni comunque improntate al principio lavoristico, le quali si sono infine risolte nella formula “fondata sul lavoro”[4].

Un’opposizione di principio alla posizione di un principio lavoristico si è registrata solo da parte dei pochi deputati liberali e qualunquisti, che non sembravano tollerare nessuna ulteriore qualificazione della Repubblica democratica appena proclamata. Sugli stessi presupposti, oltretutto, anche in tempi recenti si sono susseguite periodiche proposte di riforma, per la verità rimaste finora esternazioni peregrine più che concreti propositi[5], volte a scardinare questo fondamento sociale e a sostituirlo, ad esempio, con la “libertà ed il rispetto della persona”, ipotesi quest’ultima che si è spinta fino a diventare una proposta di riforma costituzionale dell’art.1, la quale non ha poi avuto seguito[6]. Si tratta comunque di posizioni, nel 1946 più di oggi, sicuramente minoritarie in seno all’Assemblea.

Palmiro Togliatti, dalla prima seduta utile in seno alla Prima Sottocommissione e più volte successivamente, avanzò la formulazione cara a lui e a tutto il gruppo comunista e socialista, chiedendo che al primo articolo, proposto dall’onorevole Cevolotto con la formula “Lo Stato italiano è una repubblica democratica”, alle parole “repubblica democratica” venisse aggiunto “di lavoratori”[7], proponendo già, onde evitare che l’idea venisse immediatamente cassata dalle altre forze politiche per il timore di una connotazione classista e strettamente operaista, la possibilità di un ampliamento in “lavoratori del braccio e della mente”.

In una prima fase, fatti salvi i deputati contrari in ogni caso alla qualificazione ulteriore della democrazia, tra i quali in particolare il democristiano Caristia, oltre a esponenti dell’Unione Democratica Nazionale, non sembra vi fossero resistenze invalicabili, tanto che Aldo Moro fu portato immediatamente a spendersi per una mediazione che portasse i suoi colleghi di partito ad accettare in qualche modo la formulazione comunista e socialista: egli, infatti, dichiarava di ritenere che “tutti possano essere d’accordo sulla sostanza della proposta dell’onorevole Togliatti. A fugare le preoccupazioni suscitate dall’espressione ‘Repubblica democratica di lavoratori’, si propone che alla formula dell’onorevole Cevolotto si aggiunga l’articolo già approvato riguardante i rapporti economici: ‘Il lavoro e la sua partecipazione concreta nelle organizzazioni economiche, sociali e politiche è il fondamento della democrazia italiana’”; ipotesi quest’ultima che trovò la subitanea approvazione di La Pira e Basso, il quale tenne a specificare che “il termine ‘lavoratori’ rispecchia tutti coloro che esplicano un’attività sociale, ed è quindi escluso il timore di interpretazioni arbitrarie”[8].

Il tentativo di mediazione, però, non ebbe gli esiti sperati e, di fronte alle contestazioni di Caristia e di Mastrojanni, deputato del Fronte dell’Uomo Qualunque – il quale affermava di ritenere la formulazione di Togliatti apprezzabile, ma inopportuna in quanto escluderebbe dalla partecipazione alla Repubblica coloro i quali non dovessero essere considerati lavoratori, creando di fatto una repubblica classista, si registrò un inasprimento delle rispettive posizioni tale da rendere necessario, per Concetto Marchesi, affermare che “la parola ‘lavoratori’, che poteva destare sospetti e avversioni mezzo secolo fa, oggi, dopo quanto è avvenuto, non può significare altro che il cittadino nella più alta espressione della propria attività”[9].

Anche Lelio Basso, nel rinnovato tentativo di rassicurare i deputati repubblicani e democristiani, ribadiva che “l’aggiunta proposta dall’onorevole Togliatti afferma un nuovo tipo di democrazia che ha per fondamento il lavoro nelle sue diverse manifestazioni, e sostituisce alla democrazia a base individualistica una democrazia di lavoratori, intendendo per lavoratore colui che converte la sua attività patrimoniale, intellettuale o manuale in un bene sociale”[10]: del tutto evidente, in questo passaggio, è la linea di demarcazione della Costituzione sociale del 1948 rispetto alle costituzioni liberali ottocentesche.

Moro, dunque, osservando come quasi tutti concordassero sulla necessità di specificare il tratto fondativo della “Repubblica democratica”, ma che il suggerimento di Togliatti sarebbe potuto apparire agli occhi dell’opinione pubblica come un’affermazione troppo legata alla dottrina socialista, propose la differente dicitura “fondata sul lavoro e sulla solidarietà sociale”, non approvata però dall’onorevole comunista.

Alla prova del voto, la formulazione di Cevolotto “Lo Stato italiano è una Repubblica democratica” venne approvata all’unanimità, mentre l’aggiunta delle parole “di lavoratori” fu respinta con otto voti contrari e sette favorevoli[11].

Il testo provvisorio dell’art.1, giunto infine all’Assemblea dalla Commissione dei Settantacinque, si presentava in questa forma: “L’Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della costituzione e delle leggi”.

Le questioni irrisolte in sede di Sottocommissione riemersero con maggior vigore in seno all’Assemblea, fermo però l’assunto, affermato preventivamente dal Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini, che al di là delle divergenze “la Commissione è stata quasi unanimemente concorde nell’affermare questo aspetto nuovo della democrazia, che tiene conto dell’avanzarsi delle forze di lavoro”[12].

In effetti, tra gli innumerevoli emendamenti svolti e votati durante la seduta del 22 marzo 1947, due soli furono quelli che prevedevano uno stravolgimento netto dell’impianto presentato dalla Commissione, provenienti il primo da Ezio Coppa – del Fronte dell’Uomo Qualunque – il quale rifiutava in assoluto un fondamento lavoristico, ed il secondo da Guido Cortese – dell’Unione Democratica Nazionale – discussi per primi ed entrambi rigettati. A questi si deve aggiungere la modifica proposta dall’onorevole Condorelli, che a “lavoratori” avrebbe preferito il termine “cittadini”.

Al netto di queste sparute proposte e poche altre contestazioni, la questione di fondo rimase la medesima che si protraeva sin dalle prime battute: tra gli stessi socialisti, Saragat approvava la proposta della Commissione, ritenendo il fondamento sul lavoro storicamente esatto, poiché “la società umana è fondata non più sul diritto di proprietà e di ricchezza, ma sulla attività produttiva di questa ricchezza”[13], mentre Nenni quattro giorni dopo, mostrandosi in disaccordo con il progetto, disse: “avremmo preferito si dicesse che la Repubblica italiana è una Repubblica democratica di lavoratori. Con ciò la nuova Costituzione sarebbe in completa e perfetta armonia non soltanto con la realtà sociale del nostro Paese, ma con la realtà sociale di tutta l’Europa e di tutto il mondo. Poiché, signori, ormai all’astratto ‘cittadino’ si sostituisce da per tutto il concreto ‘lavoratore’, coi suoi diritti, la sua funzione, la sua missione di civiltà”[14].

Proseguendo in questi termini la disputa anche in occasione delle successive sedute, Meuccio Ruini il 22 marzo, giunto il momento di operare una sintesi, pose i colleghi di fronte a tre formule tra cui scegliere il definitivo fondamento repubblicano: “Repubblica di lavoratori”, presentata da Amendola, “Fondata sul lavoro”, proposta da Fanfani, e l’ipotesi dell’on. La Malfa, “Fondata sui diritti di libertà e del lavoro”[15].

Dopo la definitiva bocciatura del testo strenuamente propugnato dai deputati comunisti e socialisti, pur per una manciata di voti, fu lo stesso Palmiro Togliatti ad anticipare di fatto la formulazione definitiva: egli, infatti, respingendo senz’altro la proposta di Giorgio La Malfa, dichiara a nome del suo gruppo di aderire alla formulazione dell’onorevole Fanfani, constatandone la maggiore profondità dovuta al carattere sociale anziché esclusivamente giuridico della statuizione.

Con ciò, si chiuse definitivamente la lunga e articolata discussione, trovando convergenza nelle parole “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, il cui significato intrinseco valoriale fu esposto dallo stesso Amintore Fanfani con un discorso rimasto nella storia: “dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro – disse – si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d’ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune”[16].

Festa del lavoro

 

Gli interventi riportati sono, necessariamente, una minima parte della discussione ampia, espressione delle ideologie, dei valori etici e del sentimento politico dei Padri costituenti, che ha coinvolto l’art. 1 della Costituzione[17].

E’ chiaro, però, nella celebrazione del Primo Maggio, il tratto distintivo della Repubblica non solamente rispetto allo Stato fascista – circostanza che viene casualmente enfatizzata dalla circostanza che ha collocato la Festa della Liberazione il 25 aprile, dunque solo sei giorni prima del lavoro, offrendo così ai cittadini una singolare settimana carica di valori politici – ma anche nei confronti della previgente monarchia liberale, che aveva spesso osteggiato le manifestazioni dei lavoratori, anche in occasione di tale ricorrenza, e combattuto le formazioni sociali portatrici degli interessi dei loro interessi.

Queste considerazioni, dunque, portano senz’altro a celebrare oggi la Festa del Lavoro – dovere e diritto costituzionale, fondamento dei diritti sociali, ai sensi dell’art. 4 della Costituzione – come festa di tutta la Nazione, del popolo di lavoratori che anche in tal sede esprime la propria sovranità; conduce però anzitutto a celebrare gli uomini e le donne che in qualità di lavoratori partecipano all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Ancor prima, ciò che viene celebrato è la persona nella sua condizione originaria e antropologica[18], in quanto soggetta alla necessità di compiere un’attività funzionale alla propria sopravvivenza e dunque partecipe della medesima condizione umana non solo individualmente, ma unitamente a tutti gli altri suoi simili.

Il Primo Maggio, dunque, Festa del Lavoro per legge, è essenzialmente Festa dei Lavoratori, esaltazione di una comune appartenenza al genere umano che si caratterizza per la “solidarietà di destino”[19] che unisce gli uomini nel lavoro e ne qualifica l’esistenza ponendosi in termini di coessenzialità rispetto al mantenimento proprio e della famiglia, di priorità nei confronti delle libertà economiche che pure la Costituzione riconosce, poggiate anch’esse sul lavoro.

[1] Così decide il Congresso costitutivo della Seconda Internazionale in data 20 luglio 1889. Citato, tra gli altri, in: La Repubblica, Il Primo maggio: storia e significato di una ricorrenza, disponibile da <http://www.storiaxxisecolo.it/larepubblica/repubblica11.htm>.

[2] R. d-l 19 aprile 1923, n. 833.

[3] D. lgs. luog. 22 aprile 1946, n. 185.

[4] F. Cosentino, V. Falzone, F. Palermo (a cura di), La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, Arnoldo Mondadori Editore, Vicenza, 1976, pagg.25-6; U. De Siervo, Verso  la nuova Costituzione: indice analitico dei lavori della Assemblea costituente, Il Mulino, Bologna, 1980.

[5] Recentemente, il Ministro della Pubblica Amministrazione Brunetta ha affermato, in un’intervista al quotidiano Libero (02/01/2010), che “stabilire che l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla” e che “la parte valoriale della Costituzione ignora temi e concetti fondamentali come quelli del mercato, della concorrenza, del merito”.

[6] Senato della Repubblica, XVI Legislatura, n. 121, Disegno di legge costituzionale d’iniziativa dei Senatori Poretti, Perduca e Cossiga.

[7] Ass. Cost., 28 novembre 1946.

[8] Ass. Cost., 28 novembre 1946.

[9] Ass. Cost., 28 novembre 1946.

[10] Ass. Cost., 28 novembre 1946.

[11] Per alcune considerazioni sul fondamento lavoristico e sulla bocciatura per pochi voti della proposta di parte comunista e socialista, cfr. F. Bertinotti, Colpita al cuore. Perché l’Italia non è una Repubblica

fondata sul lavoro, Castelvecchi, Roma, 2018, p. 9-12.

[12] Aa.Vv., Fondata sul lavoro, Roma, Senato della Repubblica, 2018, pagg.38-39.

[13] Ass. Cost., 6 marzo 1947.

[14] Ass. Cost., 10 marzo 1947.

[15] Ass. Cost., 22 marzo 1947.

[16] Ass. Cost., 22 marzo 1947.

[17] E’ possibile consultare le discussioni relative agli articoli della Costituzione, intervenute in sede di Assemblea costituente, a questo indirizzo: <https://www.nascitacostituzione.it/costituzione.htm>.

[18] C. Mortati (et al.), Art. 1-12: Principi fondamentali, in Branca G. (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, Zanichelli, 1975.

[19] F. Pizzolato, Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, Vita e Pensiero, Milano, 1999, p. 162.

Immagine: 1 Maggio 1901, fonte: <http://www.messinaora.it/notizia/2019/04/28/primo-maggio-le-ricorrenze-poco-gradite/117271>.

Davide Testa

Davide Testa è dottorando di ricerca presso la LUISS - Guido Carli e City Science Officer a Reggio Emilia, cultore della materia in Diritto Costituzionale e avvocato nel Foro di Padova. Dopo aver conseguito gli studi classici presso il Liceo Marchesi,  ha studiato Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova, svolgendo un periodo di mobilità di due semestri presso l’University College Dublin. Nel 2019 si laurea in Diritto Costituzionale con una tesi intitolata “Fondata sul lavoro: dall’Assemblea costituente alla gig economy”. A partire dallo stesso anno, collabora con l’area di Diritto Costituzionale della rivista Ius in Itinere e partecipa ai lavori del gruppo di ricerca "Progetto Città", promosso dal Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario dell'Università di Padova. Nel 2020-2021 è inoltre stato titolare di un assegno di ricerca FSE intitolato "Urban Data Regulation – Best practices locali per un uso condiviso" presso il medesimo ateneo. Dal 2022 è dottorando di ricerca industriale presso LUISS - Guido Carli e, nell'ambito del dottorato, svolge attività di ricerca applicata presso il City Science Office attivato presso l'amministrazione di Reggio Emilia, nell'ambito della City Science Initiative promossa dal JRC della Commissione Europea. È inoltre avvocato presso il Foro di Padova.

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