mercoledì, Aprile 17, 2024
Criminal & Compliance

La gestione della diversità culturale negli ordinamenti internazionali

Preliminare all’analisi dei modelli di gestione della diversità culturale è la definizione del concetto di “cultura”: seppur vero che il termine ha un campo di applicazione notevolmente ampio, strumentale è soltanto la definizione “eticamente qualificata” che utilizza tale locuzione quale sinonimo di «popolo o comunità che occupa un determinato territorio e che condivide una data lingua e tradizione» [1].

Le Costituzioni Internazionali: l’utilizzo del termine “multiculturale”.[2]

Al mondo si contano all’incirca trenta Costituzioni classificabili come “multiculturaliste” in quanto introducono espressamente il termine in questione o perché riconoscono termini analoghi: la diffusione di questo lessico si accompagna, generalmente, alle Costituzioni di più recente formazione, in particolar modo per quelle emanate dopo il 1980.
Da menzionare è sicuramente la Costituzione del Canada del 1982 che all’art. 27 recita «questa Carta dei diritti sarà interpretata in modo coerente con la preservazione e il rafforzamento del patrimonio multiculturale dei canadesi», si tratta della prima Costituzione al mondo che codifica il termine di “multiculturalismo”. Da menzionare sono anche: la Costituzione Messicana per cui «il Messico è una nazione pluri-culturale»; dell’Ecuador per cui «l’Ecuador è uno stato sociale, di diritto, sovrano, indipendente, democratico, multiculturale e multietnico»; dell’Argentina la quale «riconosce tra le competenze del Parlamento quella di dettare leggi che proteggano l’identità e la pluralità culturale del Paese».

La maggior parte dei testi Costituzionali sembrano far riferimento ad un multiculturalismo endogeno, cioè nascente non da fenomeni immigratori ma dalla presenza originaria di minoranze culturali all’interno dello Stato che vengono inserite nel dettato Costituzionale grazie alla clausola multiculturale [3]


La gestione della diversità culturale: il modello “assimilazionista” francese, il modello “multiculturalista” anglosassone e l’ “indecisione” dell’Italia.  

Strumentale alla enucleazione dei principi in questione è prevedere come alla base della contrapposizione tra questi due modelli vi sia fondamentalmente una differenza nella concezione del principio di eguaglianza: brevemente, mentre la politica francese si ispira ad una concezione formale dell’eguaglianza che prescinde dalle differenze, quella britannica si sviluppa su di una concezione sostanziale che riconosce l’esistenza di differenze e la necessità di trattamenti differenziati .

La Francia è l’unico stato che aderisce al modello assimilazionista: modello che si ispira ad una logica di assoluta uguaglianza formale, nonché di neutralità dello Stato di fronte alle differenze culturali, esso si basa sulla scelta di non attribuire alcun rilievo all’appartenenza o meno del soggetto a determinati gruppi di immigrati con radici culturali profondamente diverse dallo Stato d’accoglienza.

Un esempio di tale modello è la legge francese n. 228 del 2004: la disposizione in questione fa espresso divieto di esibire simboli religiosi all’interno delle scuole in un’ottica di uguaglianza assimilatrice che si estrinseca soprattutto negli spazi pubblici.
La Francia ha quindi adottato nella sfera pubblica una politica di inclusione caratterizzata dalla sostituzione alle culture originarie di una omogeneità culturale maggioritaria nazionale di riferimento mirando, in tal modo, alla completa assimilazione degli immigrati, sancendo l’irrilevanza di ogni loro diversità in ambito giuridico.
Fuori dall’Europa il modello assimilazionista aveva caratterizzato fino al 1960 le politiche immigratorie adottate in Australia, Canada e Stati Uniti (gli stati considerati come quelli di maggior recezione di flusso immigratorio).
A partire dagli anni Settanta gli Stati in questione hanno poi, per effetto delle pressioni esercitate dai gruppi migratori, abbandonato il modello assimilazionista per abbracciare una politica più tollerante e pluralista.

Completamente diverso è il modello “multiculturalista” all’Inglese il quale mira ad un riconoscimento di fondo delle diversità culturali tramite una armonizzazione razziale ed un trattamento paritetico delle minoranze: il modello in questione adotta una politica che riconosce e protegge le varie identità culturali presenti sul territorio britannico.
In linea con questa impostazione, quindi, l’appartenenza ad un gruppo etnico può costituire un presupposto necessario per un trattamento giuridico differenziato sia dal punto di vista giudiziario che legislativo comportando il riconoscimento e l’accettazione delle diversità culturali; altresì adottando strategie politiche più tolleranti e pluraliste che permettono agli immigrati di conservare gli aspetti fondamentali del proprio retaggio culturale.
Un campionario di strategie coerenti col modello multiculturalista viene fornito da Kymlicka [5]:
a) la riforma dei curricula scolastica, mediante l’adattamento dei piani di studio in virtù d’un maggio riconoscimento dei contributi storico-culturali delle minoranze etniche;
b) l’adattamento istituzionale, consistente nella modifica dei piani di lavoro e del codice di abbigliamento alle festività e agli usi religiosi dei gruppi di immigrati;
c) l’adattamento dei programmi di pubblica istruzione, come ad esempio adottando delle campagne d’educazione antirazziste;

d) l’adozione di azioni positive, previste ad esempio nel trattamento preferenziale per garantire alle minoranze l’accesso all’istruzione, alla formazione o all’impiego.

La scelta di tale modello in Inghilterra ha portato all’adozione di norme che prevedono deroghe, esenzioni o regimi giuridici speciali in vista dell’appartenenza ad un gruppo etnico di immigrati come ad esempio lo Slaughter of Poultry Act del 1967 che consente ai mussulmani ed agli ebrei la possibilità di macellare gli animali secondo le loro tradizioni culturali.
Nelle democrazie occidentali che hanno aderito al modello multiculturalista esistono però dei limiti: questo nucleo viene identificato nel rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo (con corollari quali l’integrazione linguistica e della cooperazione inter-etnica); infatti pur aderendo al modello multiculturalista non possono essere tollerati comportamenti che attentano ai diritti fondamentali dell’individuo considerato nella sua dimensione internazionale e interna ai singoli paesi, non lasciando dunque aperta in modo incondizionata la possibilità di espressione della diversità culturale.

L’Italia, invece, presenta una situazione che risulta in bilico tra i due modelli.

La Costituzione italiana, nonostante la presenza d’una omogenea matrice culturale, etnica e religiosa, ha palesato fin dall’inizio — in particolar modo tramite la formulazione dell’Art. 3 della Costituzione il quale prevede che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» — l’esigenza di creare un apparato normativo diretto alla difesa delle minoranze culturali, così come avvenuto per altri contesti sociali, anche se non riconoscendo e non disciplinando espressamente il fenomeno del multiculturalità.

Il dibattito sul multiculturalismo nel nostro paese è essenzialmente collegato alla questione migratoria: manifestazione relativamente recente e sicuramente più giovane della Costituzione, nata ad un fenomeno sempre più socialmente visibile [6]. La previsione Costituzionale è particolarmente attenta alla difesa ed alla valorizzazione del pluralismo socio-politico, dedicando innumerevoli disposizioni anche a quello religioso (come gli artt. 8 e 19), culturale (artt. 21 e 33) e istituzionale (art. 114), fondandosi sull’assenza di unità del popolo e sulla presenza di una società differenziata costituita da varie minoranze.

Il nostro paese non ha aderito ufficialmente ad alcun modello:  le politiche di immigrazione sembrano modificarsi col cambiare di ogni governo e in virtù delle scadenze culturali. Una esplicita ma debole adesione al multiculturalismo sembra potersi trarre dall’art. 42 del Testo Unico sull’immigrazione per cui: «Lo Stato, le regioni, le province e i comuni, nell’ambito delle proprie competenze, anche in collaborazione con le associazioni di stranieri e con le organizzazioni stabilmente operanti in loro favore, nonché in collaborazione con le autorità o con enti pubblici e privati dei Paesi di origine, favoriscono: a) le attività intraprese in favore degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, anche al fine di effettuare corsi della lingua e della cultura di origine, dalle scuole e dalle istituzioni culturali straniere […] b) la diffusione di ogni informazione utile al positivo inserimento degli stranieri nella società italiana in particolare riguardante i loro diritti e i loro doveri […] c) la conoscenza e la valorizzazione delle espressioni culturali, ricreative, sociali, economiche e religiose degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia e ogni iniziativa di informazione sulle cause dell’immigrazione e di prevenzione delle discriminazioni razziali o della xenofobia […] d) la realizzazione di convenzioni con associazioni regolarmente iscritte nel registro di cui al comma 2 per l’impiego all’interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni […] e) l’organizzazione di corsi di formazione, ispirati a criteri di convivenza in una società multiculturale e di prevenzione di comportamenti discriminatori, xenofobi o razzisti, destinati agli operatori degli organi e uffici pubblici e degli enti privati che hanno rapporti abituali con stranieri o che esercitano competenze rilevanti in materia di immigrazione».

Non solo dalla disposizione in questione, ma l’orientamento multiculturalista sembra emergere anche dalla Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione adottata con decreto del Ministro dell’Interno del 23 aprile 2007 , nonché da singole disposizioni di legge che prevedono deroghe ed esenzioni in virtù dell’appartenenza ad un gruppo culturale diverso. Per contro, però, ulteriori recenti interventi legislativi sembrano improntati al modello assimilazionista in quanto rivolti alla repressione e alla disincentivazione di pratiche e usanze appartenenti a gruppi culturali di minoranza .

[1] Sul punto si veda F. Basile “Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati”, in Rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale.

[2] Si approfondisca anche ALESSANDRO BERNARDI, Modelli penali e società multiculturale, Giappichelli, Torino, 2006

[3] Sul punto ILENIA RUGGIU, Il giudice antropologo, Franco Angeli, Milano, 2012.

[4] Cfr FABIO BASILE, Società multiculturale, immigrazione e reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili),  pp.19 ss.

[5] Così WILL KYMLICKA, Multicultural Citizenship: A Liberal Theory of Minority Rights, Oxford University Press, Oxford 1995, trad. it. La cittadinanza multiculturale, Il Mulino, Bologna, 1999.

[6] Cfr. LETIZIA MANCINI, Società multiculturale e diritto italiano. Alcune riflessioni, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2000.

Fonte immagine: Pixabay. com

Antonio Esposito

Dottore in Giurisprudenza, laureato presso la Federico II di Napoli: si occupa prevalentemente di Diritto Penale e Confessionale. Sviluppa la propria tesi di laurea intorno all'affascinante rapporto tra fattore religioso e legislazione penale (Italiana ed Internazionale), focalizzandosi su argomenti di notevole attualità quali il multiculturalismo, il reato culturalmente motivato e le "cultural defense".

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