sabato, Aprile 20, 2024
Criminal & Compliance

La guida in stato di ebbrezza: profili applicativi e novità interpretative

A cura di: Angelo Ciarafoni

 

L’art. 186, co. 1, c.d.s. prescrive il divieto di «guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche».

Lo stato di ebbrezza è rinvenibile nell’ipotesi di alterazione psicofisica, determinata da ingestione di bevande alcoliche, che riduce i riflessi e la capacità di padronanza del veicolo che viene utilizzato.

Gli studi medici ritengono che gli effetti dell’assunzione di alcol etilico, contenente etanolo, si manifestano entro un arco temporale di 15/20 minuti circa dall’assunzione della bevanda alcolica. Gli effetti si manifestano in modo diverso in considerazione del fatto che rilevano il peso, l’età, il sesso, le condizioni fisiche dei soggetti e le modalità di assunzione della bevanda alcolica.

Considerata la soglia minima prescritta dall’art. 186 c.d.s., ossia 0,5 grammi per litro (g/l), un soggetto può assumere al massimo tanti grammi di alcol quanto è il suo peso in chilogrammi, moltiplicato per 0,5. [1]

La ratio dell’art. 186 c.d.s. consiste nell’evitare che si vengano a creare situazioni di pericolo che potrebbero concretizzarsi in un danno a persone o a cose: per questo motivo, i termini utilizzati della disposizione sono stati spesso interpretati in senso lato dalla giurisprudenza al fine di far rientrare casi che, a primo impatto, potrebbero esulare da tale disposto. Il termine «bevande alcoliche» è stato inteso come un termine generico, in cui è possibile far rientrare non solo bevande alcoliche in senso stretto, come cocktail e drink vari, ma anche i farmaci che annoverano una sostanza alcolica tra gli eccipienti. La suddetta ratio richiede di far ricadere nella fattispecie in parola tutti i conducenti di veicoli che si trovino in condizione di circolare, essendo ogni veicolo potenzialmente idoneo a provocare un pericolo quando viene condotto in stato di alterazione psicofisica.

Inoltre, come è stato affermato dalla giurisprudenza, la guida sotto l’influenza dell’alcol prescinde dall’attualità della condotta, nel senso che integra la fattispecie non solo l’atto di condurre un veicolo in condizioni psicofisiche alterate, ma anche la permanenza passiva all’interno del veicolo in sosta se sussiste la prova che il veicolo ha circolato in precedenza e il conducente era in stato di ebbrezza al momento dell’utilizzo del veicolo.[2] Il verbo «guidare», di cui al co. 1, è passibile di un’ampia interpretazione, per cui è possibile ricondurre a tale fattispecie condotte variegate: ad esempio, la Cassazione ha confermato la configurabilità del reato di guida in stato di ebbrezza per un soggetto ebbro che aveva condotto a mano un ciclomotore su una carreggiata, in quanto la «guida» può avvenire anche in modalità diverse rispetto a quella ordinariamente richiesta per la conduzione del particolare veicolo a cui si fa riferimento.[3] Ai fini dell’applicazione dell’art. 186 c.d.s. è irrilevante la distanza che il conducente percorre con il veicolo.

La considerazione che l’art. 186 c.d.s. tutela la sicurezza della circolazione sulle strade e l’incolumità delle persone o dei beni permette di tracciare una netta linea di demarcazione rispetto alla fattispecie prevista dall’art. 688 c.p., la quale, invece, prevede una contravvenzione per l’ubriachezza al fine di prevenire l’alcolismo e tutelare l’ordine pubblico. Del resto, lo stato di ubriachezza ex art. 688 c.p. è più intenso rispetto allo stato di ebbrezza ed è punibile solo se sussiste, in modo manifesto ed in luogo pubblico, mentre lo stato di ebbrezza è punibile anche quando è sotteso.[4]

L’art. 186 c.d.s. distingue tre ipotesi in cui possono essere effettuati gli accertamenti necessari, i quali vengono condotti da soggetti diversi e tramite modalità diverse:

  • prove preliminari ex 186, co. 3, c.d.s.: gli Organi di Polizia Stradale «possono sottoporre i conducenti ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili»; tali accertamenti incontrano due limiti dal momento che lo stesso comma richiede il rispetto della riservatezza personale e dell’integrità fisica. Tali valutazioni sono a discrezione degli Organi di Polizia stradale e hanno carattere preventivo e strumentale rispetto agli ulteriori accertamenti relativi al tasso alcolemico, previsti dal co. 4: questi ultimi possono essere realizzati a condizione che i primi abbiano dato esito positivo, altrimenti gli agenti di Polizia stradale non avrebbero elementi utili per motivare gli accertamenti più approfonditi;
  • accertamenti approfonditi ex 186, co. 4, c.d.s.: quando le prove preliminari abbiano dato esito positivo o in ogni caso di incidenti o quando gli agenti preposti abbiano un motivo di sospettare che un conducente sia in stato di alterazione psicofisica, gli Organi di Polizia stradale possono verificare la sussistenza dello stato di ebbrezza avvalendosi della strumentazione e delle procedure ex art. 379 del Regolamento di attuazione ed esecuzione del c.d.s. (da ora in avanti Regolamento), ossia l’etilometro, e gli agenti possono condurre gli accertamenti anche presso il più vicino ufficio o comando;
  • accertamento condotto da strutture sanitarie ex 186, co. 5, c.d.s.: quando i conducenti siano coinvolti in incidenti stradali e sottoposti a cure mediche, l’accertamento del tasso alcolemico viene effettuato dalle strutture sanitarie di base o da quelle accreditare, su richiesta degli Organi di Polizia stradale e a prescindere dal consenso dell’interessato.

In particolare, il co. 4, così come è stato formulato, lascia un notevole spazio d’interpretazione dal momento che prevede soltanto una mera «facoltà» in capo agli Organi di Polizia stradale per l’espletamento degli accertamenti più approfonditi e dal tenore letterale si potrebbe dedurre che tale facoltà riguardi anche l’utilizzo degli strumenti e delle procedure di cui all’art. 379 del Regolamento.[5]

Tuttavia, l’art. 379 sembra fugare ogni dubbio, disponendo che «l’accertamento dello stato di ebbrezza ai sensi dell’art. 186, comma 4, del codice si effettua mediante l’analisi dell’aria alveolare espirata». Inoltre, per poter sostenere che un soggetto è in stato di ebbrezza il co. 2 richiede «almeno due determinazioni concordanti effettuate ad un intervallo temporale di 5 minuti».

Lo stesso art. 379, co. 3, del Regolamento prevede che gli agenti legittimati, in concomitanza ai suddetti accertamenti oppure in caso di rifiuto del conducente, devono in ogni caso descrivere nella notizia di reato «le circostanze sintomatiche dell’esistenza dello stato di ebbrezza, desumibili in particolare dallo stato del soggetto e dalla condotta di guida».

Pertanto, la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione non ha sempre interpretato in modo univoco il tessuto normativo che risulta dal combinato disposto degli articoli in commento, con riferimento al compito del giudice di valutare tali elementi. In diverse sentenze, soprattutto quelle risalenti alla metà degli anni ’90 e ai primi anni del 2000, la Corte di Cassazione ha ritenuto che le tecniche di misurazione del tasso alcolemico ex art. 379 del Regolamento non sono le uniche tecniche utilizzabili dagli Organi di Polizia stradale, potendo lo stato di ebbrezza essere accertato e provato con qualsiasi mezzo, tra cui la percezione diretta e discrezionale degli agenti sulle circostanze sintomatiche ex art. 379, co. 3, del Regolamento (ammissione del conducente, difficoltà di movimento, eloquio disconnesso, alito vinoso, avanzamento a velocità elevata schivando altri veicoli, l’omissione di precedenza ai pedoni, la commissione di un’infrazione dopo la quale gli agenti, che fermano il conducente per applicare la sanzione, rinvengono confezioni di vuote, ecc.), desumibili dallo stato del soggetto e dalla sua condotta di guida.[6] In tali sentenze la Corte di Cassazione, sottolineando l’assenza del carattere obbligatorio ed esclusivo della strumentazione e delle procedure ex art. 379 del Regolamento, in quanto l’art. 186 c.d.s. contiene il termine «facoltà», ha sostenuto che gli accertamenti non possono essere considerati quali prove legali. Di conseguenza, il giudice di merito, in virtù del principio del libero convincimento, può desumere lo stato di alterazione psicofisica, causata dall’assunzione di alcol, da qualsiasi circostanza sintomatica. Per di più, il giudice di merito può disattendere l’esito degli accertamenti di cui al co. 4 dell’art. 186 c.d.s. compresi i risultati dell’etilometro.[7] In altre sentenze, soprattutto quelle più recenti, la Corte di Cassazione ha attribuito una valenza più pregnante agli accertamenti, disponendo che l’alcoltest costituisce prova della sussistenza dello stato di ebbrezza e, di conseguenza, è onere dell’imputato fornire l’eventuale prova contraria.[8]

È importante evidenziare che l’art. 379 del Regolamento consente agli agenti preposti di utilizzare esclusivamente l’etilometro per gli accertamenti: tale previsione comporta la possibilità da parte di un soggetto di rifiutare, nella circostanza delineata dal co. 4 dell’art. 186 C.d.S., di sottoporsi ai prelievi ematici o alla richiesta di liquidi biologici; il rifiuto in parola non configura, dunque, il reato ex art. 186, co.6, c.d.s.

Il co. 5 dell’art. 186 c.d.s. disciplina quegli accertamenti espletati, su richiesta degli agenti, nei confronti di quei soggetti sottoposti a cure mediche a seguito di incidenti stradali. Tale previsione pone delle questioni di carattere costituzionale data la invasività di alcuni prelievi di sostanze biologiche e la superfluità del consenso del soggetto da esaminare. In assenza di una tutela specifica, parte della dottrina ha tentato di ricostruire un tessuto di garanzie costituzionali sulla base dei principi enucleati dagli artt. 13, co. 4, e 111, co. 7, Cost.: dal combinato disposto di questi articoli, deriverebbe che i prelievi biologici coattivi debbano essere preventivamente autorizzati o successivamente confermati dal pubblico ministero con decreto motivato, ricorribile in Cassazione per violazione di legge, altrimenti non potrebbero essere utilizzati nel processo penale. È importante ricordare le conseguenze del rifiuto da parte del soggetto interessato: il co. 7 attribuisce rilevanza penale al rifiuto degli accertamenti previsti dai commi 3, 4 e 5, prevedendo l’applicazione delle «pene» del co. 2, lett. c) e non viene considerato esimente l’«eventuale successivo atteggiamento collaborativo».[9]

Un singolare problema è rappresentato da quei reperti che si trovano a disposizione delle strutture sanitarie per ragioni strettamente sanitarie, inerenti alla cura del soggetto coinvolto in un incidente, e quindi non finalizzate alla verifica dell’alcol emico: pertanto, la richiesta degli agenti ha come oggetto un accertamento su campioni già prelevati. In questi casi, i prelievi vengono eseguiti secondo i protocolli medici, in concomitanza al ricovero, e, in quanto tali, non sono diretti a precostituire una prova legale: essi hanno natura di un accertamento diagnostico medico, e non di prelievi coattivi per i quali, tra l’altro, opera il principio della riserva di legge.[10]

Un’ultima considerazione merita la circostanza in cui le strutture sanitarie dovessero ritenere marginali le cure mediche, poiché in questo caso, a differenza di quanto sostenuto per le ipotesi precedenti, diventa dirimente il consenso del soggetto coinvolto nell’incidente, il quale è libero di chiedere o meno un ricovero, e quindi il prelievo di liquidi ematici, mentre è da considerarsi illegittima l’eventuale richiesta dell’Organo di Polizia: i risultati degli accertamenti compiuti contro la volontà dell’interessato non possono essere utilizzati come prove legali nel processo.

Per quanto concerne la quantità di test che possono essere effettuati, i commi 4 e 5 dell’art. 186 c.d.s. prevedono rispettivamente che gli Organi di Polizia stradale e le strutture sanitarie possono effettuare «l’accertamento», termine inserito al singolare in entrambi i commi, mentre nel co. 3 è stato utilizzato lo stesso sostantivo, ma al plurale: quindi, gli accertamenti preliminari, previsti dal co. 3, non sono sottoposti a limitazioni numeriche e gli agenti possono procedere all’accertamento più approfondito anche quando uno solo degli accertamenti preliminari abbia dato esito positivo.

Il conducente ha facoltà di nominare un difensore di fiducia e di farsi assistere, poiché l’alcoltest rientra negli accertamenti urgenti di polizia giudiziaria, ma nel caso in cui gli agenti legittimati ritengano di procedere agli accertamenti preliminari non sono tenuti all’obbligo di dare avviso di detta facoltà;[11] al contrario, nei casi di accertamento approfondito da parte degli stessi agenti o della struttura sanitaria, su richiesta degli agenti, il soggetto ha il diritto di essere avvisato, altrimenti può far valere la nullità dei test fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado.[12] Si può comprendere come detta facoltà possa essere utilizzata quale pretesto per dilungare i tempi, con l’intento di permettere al corpo di smaltire la sostanza alcolica.

L’esito positivo dell’alcoltest costituisce prova della sussistenza dello stato di ebbrezza ed incombe sull’imputato l’onere di fornire la prova contraria, rilevando eventuali vizi ed errori degli strumenti o della procedura di rilevazione. La giurisprudenza è concorde nel ritenere che non è rilevante come vizio l’intervallo temporale, più o meno ampio, tra condotta del soggetto agente ed espletamento dei test, a meno che siano decorse alcune ore, nel qual caso è necessaria la sussistenza di altri elementi indiziari.[13]

Non è sufficiente, del resto, sostenere che i risultati dell’alcoltest siano passibili di alterazione a causa dell’assunzione di particolari farmaci: rientra nella diligenza del soggetto accertare, prima di mettersi alla guida, la compatibilità dell’assunzione di un dato farmaco con la circolazione stradale; del pari, la diligenza richiede di evitare l’assunzione di bevande alcoliche unitamente a farmaci nelle ipotesi in cui possano alterare le capacità psicofisiche in sinergia. La mancanza di tale diligenza incide sulla valutazione della colpevolezza. La giurisprudenza sembra non tener conto della distinzione tra i vari farmaci e tende a valutare in modo stringente la colpevolezza del soggetto agente.[14]

Non è, dunque, sufficiente, quale scusante, la circostanza che un soggetto ignori la composizione di un farmaco dal momento che rientra nella sua diligenza accertarsi quali sostanze assuma, attraverso la lettura del foglio illustrativo del medicinale, e, se non dovesse conoscere la natura di un eccipiente, ricade sul soggetto stesso l’onere di consultare il medico.

[1] Anton Aldo Abrugiati, Vincenzo Di Ciò e Rocco JR. Flacco, Il Codice della Strada e le

 norme complementari con note di commento e giurisprudenza, UTET giuridica, 2016, pagg. 566-567.

[2] Cass. Pen., sent. 5404 del 2012.

[3] Cass. Pen., sent. 18784 del 2003.

[4] Cass.Pen., Sez. Un., sent. 1299 del 1996.

[5] Stefano Petitti ed Enzo Vincenti, Codice della Strada, Giuffrè Editore, 2014, pagg. 829-833.

[6] Cass. Pen., sent. 5520 del 1994; Cass. Pen., sent. 3829 del 1995; Cass. Pen., sent. 1049 del 1999.

[7] Cass., Sez. Un., sent. 1299 del 1996; Cass. Pen., sent. 7538 del 1997; Cass. Pen., sent. 5832 del 1997; Cass. Pen., sent. 39057 del 2004; Cass. Pen., sent. 6889 del 2011; Cass. Pen., sent.4825 del 2012.

[8] Cass. Pen., sent. 19386 del 2013; Cass. Pen., sent. 15187 del 2015.

[9] Cass. Pen., sent. 5909 del 2013.

[10] Corte cost., sent. 238 del 1996.

[11] Cass., Sez. Un., sent. 5396 del 2015.

[12] Ibidem.

[13] Cass. Pen., sent. 21991 del 2013; Cass. Pen., sent. 47298 del 2014; Cass.  Pen., sent. 40722 del 2015.

[14] Stefano Petitti ed Enzo Vincenti, Codice della Strada, Giuffrè Editore, 2014, pagg. 836-839.

Fonte immagine: www.pixabay.com

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