La Legge n. 81/2014 nel prisma dell’art. 27, comma III, della Costituzione
A cura di Emanuela Laganà, Avvocato e Dottore di ricerca
Per la Rubrica “Di Robusta Costituzione”: La legge n. 81 del 2014 ha disposto la chiusura degli ospedali psichiatrici presenti sul territorio nazionale istituendo le c.d. REMS, le residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza, in un’ottica di “personalizzazione” della rieducazione per gli infermi di mente autori di reato finalizzata alla piena ed effettiva tutela della loro dignità.
Il presente contributo ripercorre succintamente le tappe principali che hanno condotto all’adozione di tale provvedimento sotto il prisma del principio di rieducazione del reo di cui all’art. 27, c. 3, della Costituzione.
La Legge n. 81/2014 nel prisma dell’art. 27, comma III, della Costituzione
Il tema dei diritti fondamentali dei soggetti con disabilità mentale che si siano resi autori di reato è tornato al centro di un ampio dibattito solo tempi relativamente recenti, in seguito all’approvazione della L. n. 81/2014 (di conversione, con modifiche, del D. L. n. 52/2014).
La nuova disciplina, sia pure tra luci e ombre, sembra proiettare sulla complessa tematica del disagio psichico, nonché del trattamento ad esso riservato nel diritto penale, la prospettiva dischiusa, nel nostro ordinamento, dall’elevazione della dignità della persona a valore “supercostituzionale”[1] e dunque a «punto archimedico del sistema costituzionale dei diritti e dei poteri»[2].
D’altronde la Carta del 1948 non solo esige che la Repubblica riconosca e garantisca i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.), ma ad essa affida anche il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, c. 2, Cost.). A tali princìpi che, evidentemente, non possono che riferirsi anche ai malati mentali, soggetti “vulnerabili” per definizione[3], vanno affiancati quelli sanciti dall’art. 27, c. 3, Cost., secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
In una prospettiva specificamente costituzionalistica non si può fare a meno di notare come la L. n. 81/2014 abbia visto la luce proprio in un momento storico in cui una rinnovata attenzione verso l’attuazione dell’art. 27, c. 3, Cost. si è manifestata nella comunità scientifica, in conseguenza della condanna inflitta al nostro Paese dalla nota sentenza “pilota” Torreggiani (cui hanno fatto seguito alcuni interventi adottati ad hoc dal legislatore[4]), come pure in relazione agli esiti dell’ampia consultazione pubblica avviata nel 2015 dal Ministro della Giustizia Orlando, i cui lavori si sono chiusi nella primavera del 2016 (c. d. Stati generali dell’esecuzione penale)[5].
L’aspetto relativo alla compatibilità delle condizioni di detenzione con l’esercizio dei diritti umani fondamentali ed il divieto di sottoposizione a tortura e trattamenti inumani e degradanti ex art. 3 CEDU assume ancor più pregnanza, in questa sede, se si pensa che i disabili psichici sono potenzialmente esposti a violazioni dei loro diritti che possono assumere connotati di maggiore gravità rispetto a quelli potenzialmente subiti dagli gli altri detenuti, in quanto particolarmente vulnerabili, in ossequio ai principi sanciti dalla Corte costituzionale con sent. n. 341 del 2006. Invero, ai soggetti ristretti nella loro libertà personale dovrebbe sempre essere «riconosciuta la titolarità di situazioni soggettive attive e garantita quella parte di personalità umana che la pena non intacca» (Corte cost. sent. n. 114 del 1979; cfr. anche sentt. n. 349 del 1993 e 190 del 2010). In sostanza, la premessa necessaria perché la pena non appaia contraria al senso di umanità e possa essere rivolta alla rieducazione del condannato è che l’ingresso nei luoghi di detenzione non incida sulla titolarità dei diritti fondamentali, ma solo sulle modalità del loro concreto esercizio, ferma restando in ogni caso l’intangibilità del loro nucleo essenziale[6].
Certo, «non v’è dubbio che queste istanze debbano convivere con quelle – altrettanto legittime – della difesa sociale, istanze che impongono di tutelare il corpo sociale nei confronti degli infermi di mente pericolosi, telos ineludibile per uno stato di diritto, nella sua strumentalità a garantire l’incolumità, ma anche la pacifica convivenza, dei consociati»[7]. Tuttavia, tali esigenze dovrebbero pur sempre essere esposte a un ragionevole bilanciamento con i diritti fondamentali della persona – in particolare, con il diritto alla salute – e con i princìpi sanciti dagli artt. 2, 3 e 27 Cost., come manifestamente espresso dalla Consulta nella sent. n. 253/2003[8].
Sennonché, appare evidente che l’approccio ordinamentale, sino alla L. n. 81/2014, fosse «totalmente sbilanciato a favore della difesa sociale, e pressoché dimentico delle istanze terapeutiche, di recupero e di integrazione dell’infermo di mente autore di reato»[9]. Questa conclusione trova conferma soprattutto alla luce del noto fenomeno degli ergastoli bianchi, dovuto alla circostanza che, prima dell’entrata in vigore della riforma, la durata massima del ricovero in O.P.G., al pari di quanto previsto anche per le altre misure di sicurezza detentive, era indeterminata, risultando informata alla regola secondo cui tali misure potessero persistere sino al perdurare della pericolosità sociale di chi vi era sottoposto. Tale accertamento veniva compiuto in base alle condizioni indicate all’art. 133, co. 2, n. 4, c.p. (ossia avendo riguardo alle «condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo»), così che, in molte occasioni, il ricorso alle misure di sicurezza e la loro proroga sono stati motivati, più che da patologie psichiatriche vere e proprie, dalle condizioni di marginalità, di isolamento sociale, di abbandono morale e materiale, nonché dalla difficoltà o impossibilità della presa in carico della persona da parte delle istituzioni di assistenza che avrebbero dovuto offrirle accoglienza.
Di ciò offrono conferma i drammatici risultati degli accertamenti condotti sulle condizioni degli O.P.G. dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale istituita nel 2008 (c. d. Commissione Marino, dal nome del suo presidente), i cui esiti diedero la spinta propulsiva verso il progressivo e definitivo superamento del sistema degli O.P.G. sancito definitivamente con la L. n. 81/2014, quasi ad ideale completamento della notissima “legge Basaglia” (L. n. 180/1979).
L’art. 27, co. 3, Cost., assume una peculiare rilevanza tra tutti i princìpi costituzionali implicati nella questione oggetto di trattazione, soprattutto poiché in esso sono contemplati il principio di umanizzazione della pena, che «trova concreta applicazione attraverso il divieto di profili afflittivi particolarmente intensi o degradanti della disciplina esecutiva delle differenti tipologie sanzionatorie»[10], e la finalità rieducativa della stessa, per mezzo della quale la sanzione esercita la sua primaria funzione di recupero sociale del reo finalizzata al reinserimento sociale dello stesso. La portata della norma impone un forte punto di rottura rispetto alla precedente impostazione sanzionatoria penale, che riconosceva alla pena una valenza essenzialmente “retributiva” (rispetto alla condotta antisociale posta in essere dal reo) e preventiva (rispetto alla commissione di nuovi illeciti)[11].
La Consulta, nella sentenza n. 313 del 1990, afferma infatti che: «incidendo la pena sui diritti di chi v’è sottoposto non può negarsi che indipendentemente da una considerazione retributiva, essa abbia necessariamente anche caratteri in qualche misura afflittivi» che però non possono in alcun modo arrecare «pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione», la quale finalità, infatti, indica «proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue»[12].
Il fine costituzionale della pena, quindi, è quello di rieducare per reinserire nel contesto sociale e ciò può avvenire solo nel rispetto dell’autodeterminazione del singolo che, a sua volta, impone il divieto del ricorso a tecniche che consistano in trattamenti inumani e degradanti, tra i quali cure farmacologiche o strumenti di contenzione meccanici tendenti ad incidere sulla personalità del reo[13].
Eventuali trattamenti contrari al senso di umanità non potrebbero perpetrarsi neppure invocando un presunto “diritto fondamentale alla sicurezza” che, data la portata amplissima, difficilmente potrebbe assumere il carattere della giustiziabilità tipico, invece, dei diritti fondamentali[14]. Una simile impostazione potrebbe dare la stura ad una ricostruzione costituzionale «falsa o perversa»[15]. D’altronde il diritto alla sicurezza di ciascuno potrebbe tradursi, di volta in volta, «nel diritto alla vita, all’integrità personale o alla riservatezza»[16]. Nel caso degli infermi di mente autori di reato, la restrizione della libertà personale, pur ammettendo eccezionalmente la “contenzione” (per il più breve tempo possibile), dovrebbe essere finalizzata prevalentemente alla cura (e, certo, anche a esigenze special-preventive, ossia evitare la commissione di un nuovo reato) ed è proprio in questa logica che la L. n. 81/2014 istituisce le R.E.M.S. quali luoghi ideali di rieducazione attraverso la cura della salute mentale.
Alla luce dell’art. 27 Cost. il trattamento sanzionatorio deve almeno tendere alla rieducazione del condannato e l’ordinamento penitenziario deve assicurarsi che tale processo rieducativo sia finalizzato all’effettivo reinserimento sociale del reo[17]. Il percorso di rieducazione deve quindi tenere conto della personalità del detenuto in modo tale che il trattamento sia individualizzato ed il percorso medesimo agevolato durante tutta la fase dell’esecuzione[18].
Rieducare è, quindi, sinonimo di recupero sociale, reinserimento sociale e risocializzazione. D’altronde, molto spesso, le storie di delinquenza non sono altro che storie di silenti disagi, emarginazione e discriminazione sociale che, in contesti caratterizzati da forti diseguaglianze ed alto tasso di diffusione dell’illegalità, incrementano a dismisura la tendenza verso condotte criminose.
La necessità di incentivare ed individualizzare i trattamenti finalizzati alla rieducazione ed al reinserimento sociale diviene ancora più pregnante se riferita agli infermi di mente autori di reato. Infatti, anche il disagio psichico dal quale poi traggono origine alcuni delitti è fortemente condizionato da storie e luoghi di violenza, esclusione, vessazione, assenza di valide alternative. Rieducare vuol dire anche consentire a chi lo voglia di condurre un’esistenza libera e dignitosa.
La dignità, in questo caso, si potrebbe dire che coincida con l’umanità della pena intesa come insieme di trattamenti penitenziari che siano adeguati alla persona ed alla sua identità e finalizzati a consentire il pieno reinserimento sociale del condannato[19]. Il piano di esecuzione della pena (in tutte le sue fasi) deve quindi conformarsi al rispetto della dignità della persona e mettere il reo nelle condizioni di ricostruire il legame sociale che si è interrotto con la commissione del reato[20]. Ai detenuti ed agli internati vanno dunque riconosciuti e garantiti tutti i diritti fondamentali, compatibilmente con le esigenze di esecuzione della pena.
Infliggere ai detenuti trattamenti contrari al senso di umanità potrebbe, inoltre, trasformare la pena in una sorta di vendetta, impedendo al condannato di cogliere la portata rieducativa e di reinserimento sociale cui la reclusione deve necessariamente mirare[21]. L’effetto distorto di una reclusione eccessivamente afflittiva potrebbe essere quello di vanificare la stessa finalità attribuita alla pena dalla Costituzione “sfregiando” il volto costituzionale della stessa, per come delineato negli articoli 27, co. 3, e 13, co. 4, Cost.
Le argomentazioni sopra svolte diventano tanto più pregnanti se riferite alla condizione, del tutto peculiare, in cui versano i “detenuti” che sono anche affetti da un vizio di mente. Si tratta di soggetti particolarmente deboli, nei confronti dei quali il principio rieducativo della pena deve essere coniugato in modo pregnante con la tutela (contestuale) del diritto alla salute.
Infatti, al fine di garantire un’adesione quanto più possibile piena e convinta al programma di rieducazione, è necessario assicurare la massima lucidità possibile del soggetto interessato, compromessa dal vizio di mente. In altri termini, per i soggetti detenuti negli (ormai ex) O.P.G., l’obiettivo costituzionale della “rieducazione”, sia pure legata a una componente afflittiva, non avrebbe dovuto prescindere dalla “cura” e dalla adesione piena e libera ad un progetto terapeutico riabilitativo[22].
Proprio rispetto a tali soggetti la tutela della dignità assume declinazioni particolari, in ragione del connotato di “doppia” debolezza che li denota, ossia quali detenuti e disabili mentali, imponendo di vagliare, di volta in volta, la ragionevolezza delle cure apprestate, al fine di garantire che non siano eccessivamente invasive, ma, al contempo, sufficientemente efficaci da poter permettere un’adesione (il più possibile) cosciente al programma di rieducazione.
D’altronde, come è stato autorevolmente affermato, il valore della dignità umana merita maggiore protezione quanto più è a rischio l’identità dell’individuo[23]. Ciò perché, tanto più il soggetto subisce la sofferenza dovuta al disagio psichico ed alla relativa stigmatizzazione, quanto più la sua umanità va protetta dal legislatore, dalla magistratura, come anche dall’amministrazione penitenziaria, dalle strutture sanitarie e da ogni altra istituzione della Repubblica che entri in contatto con il “folle reo”.
Convergono in tal senso i principi di cui agli artt. 2, 3 e 27, c. 3, Cost., anche in considerazione del fatto che i luoghi in cui si somministrano trattamenti detentivi, da sedi di mera reclusione, punizione ed esclusione dalla società, quali sono stati sino all’avvento della Costituzione, sono divenute sedi di protezione e di promozione della dignità della persona.
La portata dirompente dell’art. 27 Cost. non ha mancato di sortire i suoi effetti anche in relazione alla finalità rieducativa della pena per i reati commessi da soggetti mentalmente instabili di cui alla L. n. 81/2014.
In particolare, la L. n. 81/2014 si colloca nel solco tracciato dall’art. 3-ter del D.L. n. 211/2011 (successivamente convertito nella Legge n. 9/2012), il quale per la prima volta ha sancito normativamente la fine del binomio cura-custodia, fino a quel momento applicato alla gestione sociale della malattia mentale, disponendo quale “primo termine ultimo” quello del 1 febbraio 2013 per il completamento del percorso di superamento degli O.P.G. Invero, il legislatore, in una prospettiva coerente con gli artt. 27, c. 3, e 32 Cost. e con la tutela multilivello dei diritti dei disabili psichici, sancisce che i malati mentali destinatari di una misura di sicurezza detentiva non debbano essere più internati, ma ricoverati, curati e reinseriti adeguatamente nel contesto sociale[24].
Per il raggiungimento di tale ambizioso obiettivo, sulla scia degli importanti rilievi nella Relazione della Commissione parlamentare sull’efficacia ed efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, la norma individua gli aspetti strutturali ed organizzativi per la realizzazione delle nuove residenze ad esclusiva finalità terapeutica per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) nei confronti di soggetti non imputabili per vizio di mente, ma socialmente pericolosi, da istituirsi su base regionale, ad esclusiva gestione terapeutica.
Uno degli aspetti più rilevanti del provvedimento è stato senz’altro quello di aver attribuito centralità, in termini di competenze e responsabilità, al medico psichiatra responsabile della struttura, il quale, coordinandosi con le altre autorità coinvolte (magistratura, Prefettura, Dsm), dovrebbe curare sia la gestione della sicurezza interna sia le eventuali modalità con cui chiedere l’intervento delle forze di polizia in casi di necessità[25]. Invero, il D.L. n. 211/2011 (conv. in L. n. 9/2012) ha prospettato, per la parte gestionale, la responsabilità del Servizio sanitario regionale e, per la parte assistenziale, del Dipartimento di salute mentale territorialmente competente[26].
Tuttavia, nonostante fosse stato riconosciuto un ruolo cruciale nel nuovo assetto istituzionale alle Regioni, queste ultime non sono state in grado di rispettare il termine del 31 marzo 2013 anche in ragione dei numerosi interventi strutturali, organizzativi e di pianificazione loro richiesti, ma non adeguatamente supportati dal governo centrale[27]. Di proroga in proroga si è, quindi, giunti al D.L. n. 52/2014 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari) che, convertito con modifiche nella Legge n. 81/2014, ha stabilito quale termine ultimo ed improrogabile per il definitivo completamento del programma di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari la data del 31 marzo 2015, segnando così definitivo superamento della logica manicomiale che da sempre aveva caratterizzato l’approccio del diritto penale alla malattia mentale.
I punti focali della riforma possono essere così suddivisi: residualità della misura custodiale (da scontare presso una REMS sulla base del principio di territorialità); centralità dei Dipartimenti di salute mentale e dei piani terapeutici individuali; ridefinizione della pericolosità sociale per gli infermi di mente autori di reato; termine di durata massima della misura di sicurezza e relativi aggravi motivazionali per la proroga dell’internamento.
La norma in esame, nel solco tracciato dalla Corte Costituzionale con le note sentenze n. 253/2003 e n. 367/2004, statuisce che l’irrogazione della misura di sicurezza detentiva nei confronti dell’autore di reato non imputabile o semi-imputabile debba avere carattere eccezionale e residuale[28].
La centralità accordata al territorio è anch’ essa da intendersi quale tentativo di risocializzare e reintegrare, ex art. 27, c. 3, Cost., la persona nei luoghi ad essa familiari (ossia le Regioni di provenienza): uno degli aspetti più critici degli O.P.G., infatti, consisteva proprio nell’isolamento del malato, sino alla sua “espulsione” dal contesto sociale.
Al fine di meglio realizzare questo obiettivo, l’art. 1 – bis, lett. a) riconosce alle Regioni la facoltà di allocare le risorse finanziarie erogate a favore di politiche territoriali di potenziamento dei servizi socio – sanitari e della realizzazione dei piani terapeutici individuali, anche a scapito dell’originario piano edilizio relativo alla costruzione delle REMS.
L’aspetto forse più “originale” della normativa in esame è costituito dalla ridefinizione dell’accertamento della pericolosità sociale ad opera dell’art. 1, co. 1, lett. b), della Legge n. 81/2014 che ha lo scopo di porre fine alla drammatica prassi della proroga infinita della misura dell’internamento, anche nei casi in cui il “folle reo” fosse malato, povero, emarginato o socialmente disadattato[29].
Al fine di “scoraggiare” la pratica della proroga all’infinito della misura di sicurezza detentiva ed implementare il principio di residualità della stessa, la Legge n. 81/2014 introduce due categorie peculiari valutazioni motivazionali cui va incontro il giudice che intenda prorogare il provvedimento restrittivo della libertà personale: in negativo, la non sufficienza quale presupposto della proroga della mera assenza di piani terapeutici individuali (art. 1, comma 1, lett. b) e, in positivo, la necessità di documentare dettagliatamente le eventuali ragioni a sostegno della (eccezionale e transitoria) proroga della misura (art. 1, comma 1 – ter).
Si palesa, quindi, il chiaro intento del legislatore di rimodulare la diagnosi di pericolosità sociale sia in entrata che in uscita, nella prospettiva di una misura limitativa della libertà a carattere strettamente necessario e transitorio[30].
La Legge che abolisce gli O.P.G. stabilisce, tra l’altro, un tetto massimo alla durata della misura di sicurezza detentiva coincidente con il massimo edittale previsto dalla Legge per il reato commesso dall’infermo, e ciò al fine di scongiurare il ripetersi della tristemente nota prassi dei c.d. “ergastoli bianchi” in ragione della quale l’internamento, reiteratamente prorogato e non soggetto ad alcun limite temporale, diveniva infinito, violando palesemente i princìpi costituzionali di eguaglianza e di legalità, nonché il divieto di trattamenti punitivi contrari al senso di umanità, ed elidendo ogni possibile finalità rieducativa della pena (artt. 3, 25, 27, c. 3, Cost.).
Le misure di sicurezza detentive, provvisorie o definitive, irrogate nei confronti dei disabili mentali autori di reato «non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima»[31], fatti salvi i delitti puniti con la pena dell’ergastolo.
Resta irrisolto però l’aspetto relativo alla eventuale persistenza, in capo all’infermo di mente autore di reato, della pericolosità sociale al momento della scadenza del termine massimo di durata della misura restrittiva. Secondo taluno, il giudice dovrebbe predisporre la misura della libertà vigilata e, in caso di aggravamento e riacutizzazione della pericolosità sociale un nuovo ricovero in REMS[32].
Infine, un cenno va fatto ad alcune aspetti delle “nuove” residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che si sono poi rivelati forieri di particolari criticità nell’applicazione del disposto normativo.
Nella logica della legge n. 81/2014, esse divengono strutture a carattere residuale le cui caratteristiche strutturali, tecnologiche ed organizzative dovrebbero essere tali, come è stato osservato in precedenza, da garantire un trattamento dell’infermo di mente autore di reato socialmente pericoloso ad esclusiva finalità sanitaria. Le REMS, infatti, avrebbero dovuto ospitare esclusivamente gli infermi di mente autori di reato condannati in via definitiva ad una misura di sicurezza detentiva allo scopo di curarli e reinserirli nel contesto sociale. Nella realtà degli eventi, le cose sono andate diversamente. Le strutture hanno ospitato sia coloro ai quali è stata comminata in via provvisoria una misura di sicurezza (ex art. 206 c.p.) che i soggetti affetti da infermità psichica sopravvenuta nelle more del processo (ex art. 148 c.p.). Questa prassi rischia seriamente – così come confermato da ultimo anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 22 del 2022 – di compromettere sia la natura che la funzione delle REMS, con il risvolto pratico, tutto negativo, di sovraccaricare numericamente queste strutture a scapito del fondamentale diritto alla cure del paziente ad esse destinato, e cioè l’infermo di mente autore di reato condannato in via definitiva ad una misura di sicurezza detentiva[33].
Questo sovraccarico numerico, inoltre, ha generato il fenomeno, anch’esso oggetto della recente declaratoria della Consulta, delle lunghe liste d’attesa di soggetti sottoposti a misura di sicurezza detentiva provvisoria e “sospesi” in una sorta di “limbo” per insufficienza di posti disponibili presso le REMS[34].
In relazione alla esclusiva gestione sanitaria di queste strutture, taluno[35] si è espresso dubbiosamente per il potenziale cumulo, in capo alla figura del medico psichiatra dirigente delle strutture, di compiti sia di cura che di custodia. Infatti, si è evidenziato che attribuire al sanitario compiti di vigilanza potrebbe distogliere la sua attenzione dalle cure prestate ai pazienti ricoverati.
Anche rispetto al ruolo centrale attribuito ai Dipartimenti di salute mentale sia nella prevenzione che nella predisposizione dei piani terapeutici individuali è stata rilevata l’applicazione della legge n. 81/2014 “a macchia di leopardo” per via dell’adeguamento differenziato da Regione a Regione e dei notevoli ritardi di alcune realtà nell’implementazione degli strumenti normativi e logistici necessari al pieno adeguamento alle norme sul superamento degli OPG[36].
È opportuno rilevare, comunque, come sia stato notevole, nel processo di superamento degli O.P.G., il contributo fornito dalle associazioni culturali. D’altronde, tra tutte le questioni, forse la più importante e sottovalutata è quella culturale. L’internamento, infatti, prima che una questione giuridica è una questione culturale. L’emarginazione e l’esclusione sociale del folle sono stati sin qui ammessi e tollerati. In tal senso lascia ben sperare l’importante contributo fornito, nel senso dell’abolizione della normativa e della cultura manicomiale, dalla società civile, attraverso l’apporto offerto, durante l’iter legislativo, dalle formazioni sociali. Difatti, alcune associazioni (prima fra tutte “Stop O.P.G.” ma anche “Antigone”) hanno svolto un ruolo determinante – come ha dichiarato lo stesso Commissario Unico F. Corleone, nella Relazione conclusiva sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari – sia nel sollecitare che nel supportare, con proposte ed azioni concrete, il legislatore e tutti gli altri enti ed organi coinvolti nella piena attuazione della riforma.
[1] In tal senso, v. A. Ruggeri – A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Pol. dir., 1991, spec. pp. 361 ss. Sul tema cfr. pure S. Rossi, La salute mentale attraverso lo spettro dei diritti umani, in www.formucostituzionale.it; Id., La salute mentale tra libertà e dignità, Milano, 2015; AA.VV., Il nodo della contenzione. Diritto psichiatria e dignità della persona, a cura di S. Rossi, Merano, 2015; E. Aguglia – B. Forti, Le dimensioni della sofferenza psichica, in Journal of psychopathology, 3/2001. Per un quadro storico sull’evoluzione della nozione di sofferenza psichica, cfr. R. Cioffi, Modelli di sofferenza mentale in Freud e Jung, in www.rivistadipsichiatria.it, mentre per un quadro generale sulla sofferenza mentale e sulle ipotesi terapeutiche, si rinvia a S. FASSINO, Psicologia e psicopatologia della sofferenza, Torino 2004, pp. 5 ss.
[2]Così, G. Silvestri, Dal potere ai princìpi: Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari, 2009, pp. 10 ss. Dello stesso A., v. anche La dignità umana dentro le mura del carcere (Intervento del Presidente Silvestri al Convegno “Il senso della pena. Ad un anno dalla sentenza Torregiani della CEDU” Roma, Carcere di Rebibbia, 28 maggio 2014), in www.cortecostituzionale.it. Una riflessione critica sul concetto di dignità si trova in G.M. Flick, Elogio della dignità (se non ora, quando?), in Rivista AIC, 4/2014, 4 ss.; interessante, in merito alla relazioni tra dignità, eguaglianza e solidarietà, anche L. Carlassare, Solidarietà. Un progetto politico, in www.costituzionalismo.it, 1/2016, pp. 10 ss.; A. Ruggeri, Appunti per uno studio sulla dignità dell’uomo, secondo diritto costituzionale, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 15-12-2010; M. DICIOMMO, Dignità umana e Stato Costituzionale. La dignità umana nel costituzionalismo europeo, nella Costituzione italiana e nelle giurisprudenze europee, Firenze-Antella, 2010; A. Pirozzoli, La dignità dell’uomo. Geometrie costituzionali, Napoli, 2012.
[3] Cfr. sul punto S. Rossi, Forme della vulnerabilità e attuazione del programma costituzionale, in Rivista AIC, 2/2017, 1 ss. V. anche A. Apostoli, Il consolidamento della democrazia attraverso la promozione della solidarietà sociale all’interno della comunità, in www.costituzionalismo.it, spec. pp. 9-29.
[4]Cfr. Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani et al c. Italia. Particolarmente significativo il passaggio in cui la Corte afferma che «la Convenzione non impone agli Stati solo il divieto di tortura e di trattamenti umani e degradanti, ma sancisce anche un obbligo positivo, «che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente». Nell’ampia letteratura, v. spec. R. Conti, La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul sovraffollamento carcerario e i diritti del detenuto, in Pol. dir., 4/2013, pp. 441 ss.; F. Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di 1 anno, in www.penalecontemporaneo.it, 2013; G. Tamburino, La sentenza Torreggiani e altri della Corte di Strasburgo, in Cass. pen., 2013, pp. 11 ss.; P. Zicchittu, Considerazioni a margine della sentenza Torreggiani c. Italia in materia di sovraffollamento delle carceri, in Quad. cost., 1/2013, pp. 161 ss.
[5]Cfr. G. Giostra, La riforma della riforma penitenziaria: un nuovo approccio ai problemi di sempre, in Costituzionalismo.it, 2/2015; Id., Si schiude un nuovo orizzonte per l’esecuzione penale? Delega penitenziaria e Stati generali: brevi considerazioni a margine, in Questione giustizia, 2/2015, all’indirizzo www.questionegiustizia.it (ivi, 2017, v. anche i contributi di AA.VV., Proposte per l’attuazione della delega penitenziaria, a cura di G. Giostra e P. Bronzo, e di M. Bortolato, Una diversa cultura sociale della pena. I lavori conclusivi degli Stati Generali dell’esecuzione penale). Cfr. anche M. Ruotolo, Obiettivo carcere: guardando al futuro (con un occhio al passato), ibidem; Id., Gli stati generali dell’esecuzione penale: finalità e obiettivi, in Dir. pen. contemporaneo, all’indirizzo www.penalecontemporaneo.it, 2/2016; A. Della Bella, Riforma Orlando: la delega in materia di ordinamento penitenziario, ivi, 6/2017.
[6] Per una panoramica sulle strette relazioni tra salute mentale, libertà e dignità, cfr. S. Rossi, La salute mentale tra libertà e dignità, cit., pp. 6 ss.; AA.VV., Il nodo della contenzione, cit. Sulla diseguaglianza derivante dalla disabilità, cfr., tra i moltissimi, A. Lorenzetti, Diseguaglianza e disabilità, in www.gruppodipisa.it, 2/2015, pp. 2. ss.; E. Vivaldi, Disabilità e sussidiarietà. Il “dopo di noi” tra regole e buone prassi, Bologna, 2012; M. Bregolato , Applicare la legge n. 104/1992, Milano, 2015; S. Assennato – M. Quadrelli, Manuale della disabilità, Milano, 2012; S. Buonomo – N. Daita – G. Morelli, I diritti dei cittadini disabili, Roma, 2002; P. Baratella – E. Littamè, I diritti della persona con disabilità. Dalla Convenzione ONU alle buone pratiche, Trento, 2009; M.G. Bernardini, I diritti umani delle persone con disabilità, Bologna, 2016.
[7] In tal senso, v. per tutti G. Balbi, Infermità di mente e pericolosità sociale tra OPG e REMS, in www.penalecontemporaneo.it, 2015, p. 2.
[8] La sentenza n. 253/2003 del 18.07.2003 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 222 c. p. (Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario), nella parte in cui non consentiva al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale. In questo caso, l’automatismo conduceva alla imposizione di una misura segregante e “totale”, infrangendo l’equilibrio costituzionalmente necessario tra i princìpi costituzionali e violando esigenze essenziali di protezione dei diritti della persona, nella specie del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., in www.cortecostituzionale.it.
[9] Così, G. Balbi, op. loc. cit.
[10] I. Nicotra, Pena e reinserimento sociale ad un anno dalla sentenza “Torreggiani”, in www.dirittopenitenziarioecostituzione.it., p. 1.
[11] Ibidem, p. 2.
[12] Sent. Corte Cost. n. 313/1990 del 26 giugno, disponibile al sito www.giurcost.org.
[13] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2014, p. 701.
[14] A. Baratta, Diritto alla sicurezza o sicurezza dei diritti, in La bilancia e la misura, a cura di M. Palma, S. Anastasia p. 20-21. Del resto, in assenza di un’espressa definizione di “trattamento contrario al senso di umanità” è da ritenersi che questo possa essere identificato con qualsiasi condotta tenuta dalle autorità carcerarie che abbia come effetto quello di sottoporre il detenuto o l’internato a trattamenti che siano in contrasto con il principio supremo della dignità umana. Non esistono, dunque, condotte tipizzate cui riferirsi per l’accertamento della sussistenza del trattamento contrario al senso di umanità che «deve caratterizzare il contenuto del singolo tipo di pena, indipendentemente dal tipo di reato per cui un certo tipo di condotta viene specificatamente comminato» (Corte cost. sent. n. 104/1982 del 27 maggio 1982, disponibile al sito www.giurcost.org).
[15] A. Baratta, op. cit., p. 19.
[16] A. Massaro, Salute e sicurezza nei luoghi di detenzione. Un’indagine penale intorno a carcere, REMS e CPR, Roma, 2017, p. 67.
[17] Si è ritenuto che, in quest’ottica, il verbo “tendere” è da intendersi quale limite all’ordinamento penitenziario chiamato a garantire ed incentivare il processo rieducativo: cfr. A. Pugiotto, Il volto costituzionale della pena ed i suoi sfregi, in Rivista AIC, 2/2014. Sul punto si v. pure I. Nicotra, Il senso della pena. Ad un anno dalla sentenza Torreggiani della Corte EDU, in Rivista AIC, 2/2014.
[18] Cfr. Corte cost., sent. n. 313/1990, in www.giurcost.org. Sul tema si v. pure Corte cost., sent. n. 104/1982, in www.giurcost.org.
[19] Il rispetto della dignità umana, come ha sostenuto Papa Francesco «non solo deve operare come limite all’arbitrarietà ed agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità ed integrità della persona umana».
[20] M. Ruotolo, Il primato del principio pro homine, in Giustizia e carceri secondo Papa Francesco a cura di P. Gonnella, M. Ruotolo, Milano, 2016, p. 25.
[21] S. Rossi, La salute mentale tra libertà e dignità, cit., p. 370.
[22] A. Laurito, Le REMS e la sfida del nuovo modello terapeutico-riabilitativo, in Salute e sicurezza nei luoghi di detenzione. Un’indagine penale intorno a carcere, REMS e CPR, a cura di A. MASSARO, Roma, 2017, pp. 257 ss.
[23] G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, cit., secondo cui, inoltre «la dignità dell’uomo è, per sua natura, intangibile ma ovunque è calpestata».
[24] Si noti bene: tale disciplina, non ha apportato alcuna modifica espressa al codice penale, né alle norme sull’ordinamento penitenziario. Questo costituisce uno degli aspetti più problematici, sia di questa norma che delle previsioni introdotte successivamente dalla legge n. 81/2014: il mancato coordinamento con la disciplina penalistica e processuale penalistica in merito agli aspetti relativi alle misure di sicurezza, al giudizio di pericolosità sociale ed alla stessa nozione di infermità accompagneranno il dibattito fino ad oggi. Lo scopo generale della norma è comunque nobile e, al fine di garantirne la più rapida attuazione possibile, il sesto e il settimo comma della disposizione individuano, piuttosto dettagliatamente, attraverso quali risorse finanziarie dare attuazione alle nuove strutture. Secondo la disposizione in esame inoltre, tutti coloro che, nel frattempo, avessero cessato di essere socialmente pericolosi sarebbero stati presi in carico dai Dipartimenti di salute mentale della loro Regione di provenienza.
[25] Sul tema della responsabilità penale in ambito psichiatrico, tra i più recenti contributi, v. M. Pelissero, La colpa medica nella giurisprudenza penale, in “Dibattito a più voci intorno alla colpa medica, con specifico riferimento alla responsabilità del medico psichiatra”, in Contratto e impresa, 2015, p. 540 ss.; C. Sale, La «flessibilità» dell’evento da impedire in psichiatria, in Riv. it. med. leg., 2015, pp. 1393 ss., nonché, C. Cupelli, La responsabilità penale dello psichiatra. Sui rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari, Napoli, 2013; dello stesso A., Dagli Opg alle Rems: un ritorno alla medicina custodiale?, in www.penalecontemporeaneo.it, 23 dicembre 2016. In senso critico, evidenzia la carenza di uniformi e seri controlli nelle strutture destinate ad accogliere soggetti dichiarati pericolosi dalla magistratura P. DI Nicola, Prime riflessioni su chiusura Opg, in www.questionegiustizia.it, 9 Giugno 2014, p. 19.
[26] La disciplina strutturale e gestionale delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza è stata successivamente riveduta ed aggiornata in sede di Accordo in Conferenza Unificata del 26 febbraio 2015, che ne ha ulteriormente precisato i criteri di gestione sanitaria interna incentrati sui piani terapeutici individuali finalizzati alla cura della salute psico-fisica dell’internato ed al suo successivo reinserimento sociale.
[27] Si pensi, ad esempio, che il decreto di natura non regolamentare richiesto dall’art. 3-ter della l. n. 9/2012, veniva adottato soltanto nell’ottobre 2012 e delimitava gli aspetti strutturali delle nuove residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza. Sul tema, ex multis, si v. F. Della Casa, op. cit., pp. 66 ss.; A. Pugiotto, La follia giuridica dell’internamento nei manicomi criminali, su www.eddiesseonline.it; M. Pelissero, op. ul. cit., pp. 8 ss.; A. Manna, La lunga ed accidentata marcia verso l’abolizione degli Ospedali psichiatrici giudiziari, in www.osservatorioantigone.it/rivista/index.php?option=com_docman.doc, pp. 17 ss.
[28] Così dispone l’art. 1 della legge n. 81/2014: «Il giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del semi infermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate a fare fronte alla sua pericolosità sociale». Pertanto il giudice, sia in fase cautelare che esecutiva, potrà applicare la misura custodiale provvisoria o definitiva solo ed esclusivamente se e quando – acquisiti tutti gli elementi necessari – nessuna altra misura meno restrittiva della libertà personale (prima fra tutti la libertà vigilata) risulti adeguata a contenere la pericolosità sociale del soggetto
[29] Il giudice, nella fase di accertamento o verifica della pericolosità sociale del folle reo, infatti, non dovrà tenere conto dei parametri sanciti dall’art. 133, comma secondo, n. 4 del codice penale (condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo). Il paradosso del regime precedente, definito di “pericolosità sociale latente”, era infatti quello di punire “doppiamente” il folle reo, consentendo che l’internamento finisse per essere prorogato in tutti quei casi nei quali il malato fosse anche povero, emarginato o socialmente disadattato. Ciò, in quanto la valutazione della attualità della pericolosità veniva ricondotta ad indici esterni rispetto alle condizioni bio-psichiche dell’infermo internato (quali le condizioni di vita familiare e sociale del reo, ex art. 133 C. p., comma 2°, n. 4). In questo quadro, risultava peraltro possibile riesumare, nella sostanza, la “pericolosità sociale presunta”, nonostante l’espunzione di tale istituto dall’ordinamento in seguito alla sent. n. 139/1982 della Corte costituzionale, che ne ha dichiarato l’incostituzionalità, ed alla cancellazione della stessa operata dalla “legge Gozzini”, 10 ottobre 1986, n. 663.
[30] A. Pugiotto, Dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari alla (possibile) eclissi della pena manicomiale, op. et loc. cit.
[31] Cfr. su questo aspetto, F. Maisto, Quale superamento dell’Opg? Su www.questionegiustizia.it , 7 aprile 2015.
[32] Cfr. F. Maisto, Quale superamento, cit. Di opinione contraria, M.T. Collica, Ospedale psichiatrico giudiziario: non più misura unica per l’infermo di mente adulto e pericoloso, in Diritto Penale e Processo, 3/2004, p. 307. Nell’ottica dell’ampliamento del novero delle misure di sicurezza a disposizione del Giudice nel trattamento dell’infermo di mente autore di reato si è espresso D. Piccione, Il metodo dell’integrazione dei saperi ed i nuovi scenari del trattamento dell’infermo di mente autore di reato, intervento allegato alla Prima Relazione semestrale sul superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, in www.penalecontemporaneo.it, 27 dicembre 2016, pp. 65 ss. L’Autore propone l’adozione, ad esempio, della misura dei sicurezza della libertà vigilata a “modulazione graduale mediante prescrizioni variabili plasmabile secondo la condizione di disturbo e disagio vissuta dal singolo”. Una simile prescrizione risponderebbe al dettato dell’art. 27 Cost., favorendo un trattamento sanzionatorio rispondente alle esigenze del soggetto. Dello stesso A., v. anche Libertà dall’ospedale psichiatrico in dimissione e rischi di regressione istituzionale, cit., p. 11.
[33] Certamente, il diritto fondamentale alla salute ed alle cure riguarda anche tutti coloro il cui stato di infermità è ancora indefinito, ossia in via di osservazione, accertamento e definizione. Ma, a tal proposito, potrebbero disporsi altre soluzioni trattamentali. La prima potrebbe essere quella di affidare questi soggetti alle articolazioni psichiatriche penitenziarie che dovrebbero (secondo l’Accordo in Conferenza Unificata del 12 ottobre 2011) essere presenti almeno presso un istituto carcerario di ogni Regione (in cui gli interventi diagnostici sono assicurati dai Dipartimenti di salute mentale delle Aziende sanitarie territorialmente competenti e dagli specialisti del servizio, ex Accordo in Conferenza Unificata del 22 gennaio 2015) per potervi ivi espletare la fase di osservazione ai fini della successiva comminazione della misura provvisoria art. 206 c.p., assicurando una prima fase di terapia soprattutto farmacologica. Per i soggetti affetti da scompenso psichiatrico acuto si potrebbe prescrivere una misura cautelare da in località protetta (ex art. 286 c.p.p.), a carico del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura in maniera tale che la persona scompensata possa essere meglio assistita nella fase più intensa della manifestazione del disturbo psichico. Entrambe le soluzioni necessiterebbero dell’attivazione dei servizi sanitari di assistenza per meglio garantire al soggetto sottoposto all’osservazione un’adeguata soluzione al termine di essa. In tale prospettiva potrebbe acquisire nuova e diversa centralità la figura dello psichiatra che, nelle more dell’accertamento della condizione psichica dell’imputato, in veste di perito nominato dal giudice (trattandosi di infermità in fase di accertamento si presume la necessità di periziare il presunto infermo di mente autore di reato), potrebbe coordinarsi con i servizi territoriali per meglio predisporre – nel rispetto della logica della misura custodiale quale extrema ratio e del connesso minor sacrificio possibile per la libertà personale del folle reo – con gli stessi una misura comunitaria territoriale adeguata alla personalità, al disturbo ed al bisogno di cure del soggetto. Quest’ultimo, anche nel corso del giudizio – fermo restando il necessario coordinamento con la magistratura competente – ad esempio, potrebbe iniziare a “sperimentare” l’efficacia terapeutica della misura per lui predisposta. Si sono espressi criticamente, rispetto alle previsioni della legge n. 81/2014 D. Piccione, Libertà dall’ospedale psichiatrico giudiziario in dimissione e rischi di regressione istituzionale, cit., pp. 5 ss.; P. Di Nicola, La chiusura degli OPG: un’occasione mancata, cit., pp. 5 ss.; AA. VV., Il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: a new deal per la salute mentale?, cit., pp. 3ss.; R. Polin, Un’analisi critica del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, cit.; L. Cimino, Il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: un analisi critica, cit., pp. 29 ss.
[34] Sul punto cfr. P. DI Nicola, Vademecum per tentare di affrontare (e risolvere) il problema dell’assenza di posti letto nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, cit., pp. 2.
[35] Ex multis, cfr. C. Cupelli, Dagli OPG alle REMS: un ritorno alla medicina custodiale?, cit., pp. 6 – 10.
[36] Sul punto, L. Cimino, Il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, cit., pp. 38 – 39.