giovedì, Aprile 25, 2024
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La libertà di espressione: aspetti problematici nell’era di internet

La libertà di espressione: aspetti problematici nell’era di internet

 

Saggio vincitore della II Local Essay Competition di ELSA Lecce, a cura di Caterina Luceri e Francesco Ribezzo

La libertà di espressione, diritto costituzionalmente garantito (art. 21 della Carta Fondamentale della Repubblica[1]), assurto oramai al rango di «pietra angolare della democrazia»[2] altresì in ambito europeo (art. 10 CEDU; Regolamento UE 11 marzo 2014, 235, par. 113) ed internazionale (art. 19 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani), ha visto i confini della propria operatività fortemente condizionati dal progredire costante delle tecnologie telematiche. La disposizione costituzionale si presenta infatti indeterminata, non definendo esplicitamente contenuto e mezzo[3][4] dell’espressione. A ciò si aggiunge l’assenza di qualsivoglia riconoscimento espresso della libertà di informazione, che «è dovuto avvenire in via interpretativa».[5]

In via preliminare, è opportuno sottolineare come molto si sia discusso in dottrina sulle implicazioni poste dall’art. 21 della Carta Fondamentale della Repubblica.

Appurato che le regole giuridiche non incarnano valori assoluti, immutabili ed incontrovertibili[6], si può sostenere come il riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero sia anche una «necessità dell’ordinamento, più, o almeno, oltre che ad un bisogno dell’individuo»[7]. Essa configura l’esercizio di una funzione, unitamente all’adempimento dei doveri, altresì nell’esercizio delle libertà fondamentali, sicché esse costituiscono espressione della partecipazione di ogni individuo alla vita dello Stato.  È lecito così sostenere che tutti i diritti di comunicazione, dichiarazione o manifestazione del pensiero presentino una «struttura intimamente sociale».[8]

Tali pretese risultano essere però «intimamente contraddittorie»[9], animate al contempo da uno spirito di libertà tendenzialmente assoluto (tutti hanno la possibilità di contribuire utilmente ed attivamente alla produzione del diritto) e da limiti altrettanto assoluti alla medesima libertà (la produzione del diritto è limitata ai soli detentori del potere legislativo). Difatti, se è vero che comunemente si ritiene che la tutela apprestata dall’art. 21 Cost. sia tendenzialmente illimitata[10], è pure vero che «il concetto di limite è insito nel concetto di diritto. Nell’ambito dell’ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente, perché possano coesistere nell’ordinata convivenza civile ».[11]

Tra le diverse ricostruzioni, ha incontrato particolare favore tra gli studiosi quella che definisce la manifestazione di pensiero come l’attività mirante a sollecitare una riflessione nei destinatari. Specularmente, anche il tacere ha trovato tutela costituzionale.[12]

I più importanti corollari della libertà di espressione, i principi del free speech e del free market place of ideas[13], si trovano a doversi confrontare con quella che oggi soventemente si definisce post-verità14.

Difatti, gli algoritmi impiegati da motori di ricerca ed Internet service providers, che costruiscono una gerarchia di contenuti visualizzabili dall’utente tramite filtri miranti ad intercettarne le particolari preferenze, hanno messo in crisi il concetto di pluralismo. Esso rivestiva in epoca liberale un ruolo centrale nel processo di formazione dell’opinione pubblica, individuandosi nella molteplicità delle fonti (e delle opinioni) l’argine necessario al dilagare di pericolosi fenomeni di propaganda. Così i social networks, e con essi l’incontrollabilità di flussi di informazione organizzati con tecniche algoritmiche[14], sembrano porsi in rotta di collisione con lo stesso principio di democrazia.

Lo Stato costituzionale non può rifiutare la verità come valore essenziale[15], anzi «le democrazie si reggono sul principio di affidamento, e cioè sulla ragionevole presunzione che l’apparenza corrisponda alla realtà»[16]. Sembra invece che si proceda inesorabilmente verso la profilatura di una bubble democracy[17], di elettori imprigionati in una bolla di incomunicabilità, di pregiudizi e visioni del mondo parziali e talora paurosamente esasperati[18], passioni incontrollate di uno sciame digitale[19]. Sicché «alla politica, il più delle volte, non resta che inseguire lo sciame e entrare nelle bolle, assecondandone la polarizzazione e la mancanza di progettualità».21 Si è del resto sottolineato[20] come l’attuale inconfigurabilità di un monopolio nel settore dell’informazione possa ingenerare vere e proprie reazioni di panico, costituendo limite invalicabile alla funzionalità di quella che si volle definire ‘saggezza della folla23.   È a questo punto inevitabile dar conto della problematica delle fake news [21], di cui si suole distinguere tre differenti accezioni. Ad esse si riconducono le menzogne dei gruppi di potere[22] (od anche dei governi stranieri al fine di modificare l’agenda politica di uno Stato), la vox populi (non censurabile se circolante fuori dal web), le notizie false in senso stretto (ledenti interessi privati o pubblici, illegali tanto offline quanto online)[23]. Intesa in senso ampio, la fake news è la notizia errata in quanto imprecisa e distorta, anche a seguito di un travisamento colposo[24].

Indubbiamente non è possibile affermare a priori che i media, pur ispirati alla logica economica dello share e della decentralizzazione, abbiano apportato falsità nel processo di formazione dell’opinione pubblica; tuttavia è evidente come abbiano profondamente inciso su domanda ed offerta di informazione, ingenerando dubbi sulla effettiva configurabilità di una gerarchia delle fonti in questo campo.

Prossima a questa problematica è la difficoltà di distinguere nettamente libertà di pensiero (sottoposta unicamente a vincoli di natura penale) e libertà di informazione. La Costituzione italiana pone la seconda in stretta connessione con la libertà di stampa, cui si associa un carattere ‘industriale’ o professionale e, conseguentemente, un preciso apparato di vincoli e regole. Non può in ogni caso ignorarsi come, nel caso dei social networks, l’assenza di controlli e sanzioni analoghe a quelle legalmente previste per gli editori costituisca fattore di rischio per l’immissione di notizie fasulle nel circolo delle conversazioni online[25].  Tuttavia, «mentre per l’espressione non è possibile sostenere che esista un obbligo generale di dire il vero e dunque che la norma costituzionale tuteli solo le espressioni vere o verosimili; per l’informazione è possibile, almeno (e forse solo) in linea teorica, individuare limiti alla diffusione di fatti falsi al fine di tutelare altri diritti o gli stessi interessi costituzionalmente rilevanti che pure la libertà d’informazione protegge, come appunto il processo politico e democratico»[26]

Per ovviare a queste criticità, tra il 2006 e il 2008 è sorto in ambito ONU un progetto per la creazione del c.d. Internet Bill of Rights, una vera e propria Dichiarazione dei diritti in Internet [27]. In Italia essa è stata riprodotta dalla Commissione per i diritti e i doveri in Internet, allo scopo di elaborare principi e linee guida nell’uso della rete.  Essa ha trovato definitiva pubblicazione il 28 luglio 2015.

Denominatore comune di ognuna di queste iniziative è la qualificazione del diritto di accesso ad Internet come diritto sociale, sovraordinato alle esigenze poste dal mercato e dalla sicurezza, della cui protezione e promozione è lo Stato che deve farsi garante (ex art. 2 Cost.)[28]. «Parole chiave – insieme a quelle più note riguardanti la tutela dei dati personali e l’autodeterminazione informativa – sono accesso, neutralità, integrità e inviolabilità dei sistemi e domicili informatici, anonimato e oblio, interoperabilità, diritto alla conoscenza e all’educazione, controllo sul governo della Rete»[29].

Le piattaforme telematiche hanno abbattuto le barriere all’ingresso in un mercato dapprima molto concentrato33, con apporti assolutamente rilevanti e vantaggiosi in settori chiave quali la cultura, l’innovazione e il lavoro. Se il dislocamento delle fonti di produzione dell’informazione (network information economy), a prima vista, sembra idoneo a dar voce all’ideale di un «governo del potere pubblico in pubblico»[30], ad una più attenta analisi emerge come i servizi (in primis, la pubblicità) in grado di rendere profittevole quell’informazione siano nelle mani di un numero ristrettissimo di gestori, con l’inevitabile e progressiva perdita di quote di mercato dei mezzi di comunicazione tradizionali. Alla stabilizzazione di una simile tendenza ha contribuito essenzialmente la gratuità apparente dei servizi offerti da motori di ricerca e piattaforme social; apparente perché l’hidden cost (il ‘prezzo occulto’) del loro utilizzo consiste nella cessione dei dati degli users a terzi[31]. I social networks sempre più si presentano come intermediari dell’informazione (gatekeepers tra editori e fruitori) ed i motori di ricerca, con la previa selezione dei contenuti visualizzabili (filter bubble[32]), tendono ad organizzare i risultati delle ricerche secondo i (pre-) giudizi dei visitatori, illudendoli – con un effetto definito ‘disruptive’, ‘ingannevole’sulla bontà ed indiscutibilità delle proprie valutazioni (echo chamber)[33].  Eppure, a fronte di chi invoca la necessità di un intervento legislativo che disciplini con maggior rigore la responsabilità delle piattaforme anche per il «falso informativo in quanto tale»38, autorevoli agenzie ed organizzazioni internazionali si schierano contro simili interventi in quanto, per la loro genericità, «incompatibili con gli standard internazionali sulle restrizioni della libertà di espressione»[34]. Ancora, «l’Unesco ha incluso l’ascesa delle legislazioni anti-fake news tra le più preoccupanti minacce alla libertà di stampa registratesi nel panorama giuridico mondiale tra il 2012 e il 2017».[35]

A fondare ulteriormente questi timori si aggiunge la continua compenetrazione di manifestazione del pensiero ed informazione nelle attività svolte in Internet, sicché restrizioni sull’utilizzo della rete sarebbero difficilmente giustificabili a causa della simultanea ripercussione sulla libertà di espressione.     

La questione diviene ancor più complessa in riferimento al fenomeno dell’hate speech[36]. L’orientamento consolidato della CEDU è nel senso della limitazione eccezionale della libertà garantita dall’art. 10 della Convenzione con condanna a pena detentiva (ancorché sospesa) solo «qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza».[37] Una delle principali problematiche, difatti, consiste nell’individuazione di un mezzo efficace di contrasto all’hate speech che non contraddica l’esigenza di protezione di una libertà fondamentale[38]. Se è vero che tale espressione si affermò già negli anni Novanta, con la comparsa dei social networks sono emersi nuovi dilemmi e contraddizioni da risolvere. Secondo i principi CEDU[39], le restrizioni alla libertà di manifestazione del pensiero, perché possano essere applicate, devono perseguire obiettivi legittimi. Sono poste fuori legge le forme più gravi d’odio, rectius quelle che rappresentano un rischio effettivo per interessi di carattere generale o diritti altrui altrettanto rilevanti[40].

 Le difficoltà poste dai social networks sono costituite essenzialmente dal possibile anonimato degli autori dei contenuti, dalla permanenza nel web dei messaggi d’odio, la loro itineracy (la capacità di diffondersi in piattaforme ed ambienti virtuali differenti da quelli della prima pubblicazione), la tendenziale illimitatezza della rete. A ciò si aggiunge l’inesistenza di un’Autorità sovranazionale che si occupi specificamente di queste materie e che possa coordinare le azioni promosse nei singoli Stati. Un primo passo significativo è stato mosso nel maggio 2006, con l’adozione di un codice di condotta per il contrasto all’hate speech online da parte di importanti Internet Service Providers (Facebook, Twitter), piattaforme di condivisione (YouTube), compagnie multinazionali (Microsoft).

 Esse si sono così impegnate a rimuovere i contenuti d’odio online entro 24 ore dalla loro pubblicazione. È però opportuno avere presente cosa sia considerato e sanzionato come hate speech. Per Facebook, ad esempio, «sono vietati i contenuti che si configurano come attacchi, sia reali che percepiti, indirizzati a una persona o un gruppo di persone in base a razza, etnia, nazionalità di origine, religione, sesso o identità sessuale, orientamento sessuale, disabilità o malattia»[41]. Twitter vieta di «promuovere la violenza contro una persona, attaccarla direttamente o minacciare altre persone in base a razza, etnia, origine nazionale, orientamento sessuale, sesso, identità sessuale, religione, età, disabilità o malattia»[42]. Caso particolare è sicuramente quello di Yahoo, una delle aziende più severe nel reprimere i contenuti illeciti nel web.

L’ISP da ultimo menzionato, che svolge attività di hosting, è stato protagonista di una recente sentenza della Corte di Cassazione[43] che si è occupata della questione della configurabilità di forme di responsabilità in capo agli hosting providers[44]  nel caso di diffusione da parte di terzi, sui propri portali, di video o immagini ritraenti soggetti diversi. Il regime di responsabilità previsto dal D. Lgs. n. 70/2003 (artt. 16 e 17), fedele trasposizione degli artt. 12 e 15 della Direttiva sul commercio elettronico (Direttiva 2000/31/CE), non configura alcuna responsabilità in capo all’ISP, a condizione che il prestatore dei servizi informatici non sia a conoscenza diretta dell’illecito. La citata sentenza ha poi posto i seguenti principi di diritto: se l’hosting è attivo – ossia svolge un ruolo solo tecnico – non sono applicabili gli articoli 16 e 17 del citato decreto; se l’hosting è passivo – quindi offre mera ospitalità sui propri server ai contenuti realizzati dai terzi – sussiste responsabilità quando l’hosting medesimo, pur essendo a conoscenza dell’illecito e avendo la possibilità di attivarsi per la sua rimozione, non lo elimini.

È importante sottolineare come la Suprema Corte abbia affermato che la conoscenza effettiva da parte dell’hosting possa derivare da qualsiasi tipo di comunicazione. La condotta illecita, poi, può consistere tanto in un atto quanto in un’omissione che danneggi i terzi. Il fornitore di servizi hosting non è dunque automaticamente responsabile per i contenuti ospitati ma spetterà al giudice stabilire se l’hosting, una volta venuto a conoscenza dell’illecito, non vi ha posto rimedio rimuovendo il contenuto o, alternativamente, rivolgendosi a tal fine all’autorità giudiziaria o amministrativa competente.

Del medesimo avviso il Tribunale di Napoli Nord[45], che ha emesso un’ordinanza in una controversia legale in cui Facebook sosteneva che il dovere di rimozione dei contenuti illeciti ospitati operasse solamente dopo l’emissione di uno specifico ordine delle autorità competenti. Il Tribunale ha ritenuto invece che «appare irrazionale dover attendere un ordine dell’autorità, il quale potrebbe intervenire quando ormai i diritti in questione sono stati irrimediabilmente pregiudicati e non più suscettibili di reintegrazione». Ciò perché «pur non essendovi un obbligo di controllo preventivo dei contenuti presenti né una posizione di garanzia, sussiste tuttavia un obbligo successivo di attivazione, in modo che la responsabilità a posteriori dell’hosting provider sorge per non aver ottemperato – come per l’appunto verificatosi nella fattispecie in esame – a una richiesta (diffida) di rimozione dei contenuti illeciti provenienti dalla parte che assume essere titolare dei diritti, ovvero per non aver ottemperato a un ordine dell’autorità, sia essa giurisdizionale o amministrativa, cui si sia rivolto il titolare del diritto per ottenere il medesimo effetto». Con questa decisione, in conclusione, il decidente ha disposto la rimozione dei contenuti ledenti un interesse privato alla mera richiesta da parte del soggetto leso, senza che sia necessario attendere l’ordine dell’autorità. Quanto alla responsabilità di chi immette le informazioni nella rete, è ormai pacifico, secondo la giurisprudenza, l’applicabilità degli articoli del codice penale sull’ingiuria e la diffamazione anche agli accounts anonimi.

Le principali divergenze dottrinali si attestano, dunque, sulla configurabilità (o meno) di un obbligo di controllo preventivo dei contenuti pubblicati dagli iscritti o dagli utenti degli Internet service providers. A tal proposito, con la Direttiva 2000/31/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000, si è tentato di effettuare una distinzione tra Internet service provider, intermediari, Internet content provider. L’art. 15, Capo II (Principi), Sezione IV (Responsabilità dei prestatori intermediari) della Direttiva suddetta esclude la configurabilità di un obbligo generale di sorveglianza in capo agli ISP[46], in ragione delle difficoltà di rilevare con tempestività la presenza di contenuti a carattere diffamatorio e, non secondariamente, del timore di una possibile conflittualità tra pre-monitoraggio e libertà di espressione. Ancora la Corte Europea dei diritti dell’uomo[47] ha chiarito come contrasti con la Convenzione il riconoscimento generale di forme di responsabilità oggettiva in capo ai portali telematici che pubblichino commenti senza filtro, fatta eccezione per i casi di hate speech. È necessario, ad avviso del decidente europeo, fare applicazione dei parametri stabiliti in materia di libertà di stampa[48] e, conseguentemente, valutare caso per caso il contesto dei commenti e le misure che lo Stato di riferimento ordinariamente predispone per contrastare condotte diffamatorie. Tuttavia la Corte di Cassazione[49], in assenza di una specifica disposizione che disciplini la diffamazione online, ha stabilito che commenti offensivi inseriti nella pagina Facebook di un soggetto integrino il reato di diffamazione a mezzo stampa (art. 595, comma 3, c.p.). Trattasi di fattispecie di reato aggravata, che trova fondamento nella idoneità del mezzo utilizzato (Internet) a raggiungere un numero illimitato di persone.

Con una recentissima sentenza il giudice EDU si è altresì occupato del fenomeno degli hyperlinks (collegamenti ipertestuali)[50], pervenendo a soluzioni analoghe: contrasta con l’art. 10 della Convenzione l’addebito a priori di responsabilità per l’illiceità di determinate espressioni contenute nella pagina web di rinvio, altresì in forza del largo impiego dei collegamenti ipertestuali e del chilling effect (‘effetto raggelante’) che un loro totale divieto produrrebbe nella circolazione di informazione in Internet. Diversamente, sarebbero a buon diritto addebitabili forme di responsabilità agli Internet content providers, autori essi medesimi dei contenuti disponibili (anche illeciti).

Per quel che concerne le testate giornalistiche telematiche, in accordo con un orientamento espresso già dalle Sezioni Unite nel 2015[51], la Corte di Cassazione ha sancito l’estensibilità dell’art. 57 c.p. alle condotte dei direttori dei periodici disponibili online. Ad avviso del giudice di legittimità, una nozione evolutiva e costituzionalmente orientata di stampa non può prescindere da una sostanziale equiparazione tra queste ultime ed i giornali cartacei.

Da ultimo, con la Direttiva (UE) 2018/1808 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018, si è richiesto agli Stati membri di adottare i provvedimenti necessari per contenere, nei servizi media audiovisivi, le espressioni di odio.

L’AGCOM, per quanto la riserva assoluta di legge escluda che restrizioni alla libertà di espressione possano essere prescritte da fonti di rango sub-primario, ha emanato uno schema di regolamento – di cui alla delibera 25/19/CONS – recante «disposizioni in materia di rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione e di contrasto all’hate speech». Tra i fenomeni più preoccupanti per la carica d’odio insista nelle condotte tipiche vi è indubbiamente il cd. revenge porn, fattispecie introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 69/2019, oggi disciplinata dall’art. 612-ter c.p.

«A differenza degli atti persecutori, che possono prescindere da tali strumenti, la carica offensiva del “Revenge porn” si fonda in gran parte proprio sull’uso delle tecnologie digitali, che lo rendono al contempo estremamente semplice da realizzare (bastano pochi ‘click’) e devastante nelle conseguenze».[52] 

 

[1] M. OROFINO, Art. 21 Cost: le ragioni per un intervento di manutenzione ordinaria, in www.astridonline.it, pag. 78, evidenzia il «frazionamento costituzionale della tutela della libertà di espressione» e la differenza degli autonomi paradigmi di riferimento degli artt. 15 e 21 Cost. Il primo, astrattamente, contemplerebbe le comunicazioni interpersonali tra soggetti determinati, laddove il secondo sarebbe da ricondurre all’espressione rivolta ad un pubblico generale. L’art. 15 Cost., di conseguenza, non sarebbe una sottospecie della libertà di manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost. Una distinzione tanto netta non è oggi possibile alla luce dei servizi offerti da Internet, i quali consentono simultaneamente la comunicazione verso singoli interlocutori e la generalità degli utenti, oltreché di una interpretazione sistematica.

[2] Corte Cost., 17/04/1969, n. 84 (la prima sentenza emanata dalla Consulta – Corte Cost., 14/06/1956, n. 1 -, tra l’altro, verteva proprio sulla libertà di espressione). Limiti legittimi al diritto sancito in Costituzione all’art. 21 Cost. sono esclusivamente quelli fondati su disposizioni costituzionali poste a tutela di altri diritti fondamentali, ovvero di interessi costituzionali di rango primario (teoria dei cd. limiti impliciti). V’è riserva assoluta di legge – che si estende ai limiti impliciti –  per la definizione della fonte che possa imporre restrizioni alla libertà di espressione.  3 Segnatamente, l’allegato al suddetto regolamento intitolato ‘Obiettivi e priorità specifici dell’EIDHR’, contempla all’ ‘Obiettivo 3 – Sostegno alla democrazia’ la libertà di espressione online e offline, comprendendole nel novero dei diritti civili e politici fondamentali.

[3] È indubbio che limitazioni al mezzo finiscano per incidere, inevitabilmente, sulla libertà di espressione. A tal proposito, M. OROFINO (Art. 21 Cost: le ragioni per un intervento di manutenzione ordinaria, cit., pag. 84) evidenzia come «la Corte, pur mantenendo l’opzione unitaria [manifestazione e informazione sono due aspetti della medesima libertà], ha introdotto indirettamente una differenziazione tra libertà di manifestazione del pensiero e libertà di informazione non basata sul contenuto, come una prospettiva funzionale avrebbe forse domandato, ma sul mezzo». A maggior ragione, «con riferimento ai servizi del web

[4] Con sentenza 20/07/1990, n. 348, la Consulta ha definito in termini di diritto tanto l’informare quanto l’essere informati.  

[5] M. OROFINO, Art. 21 Cost: le ragioni per un intervento di manutenzione ordinaria, cit., pag. 84.

[6] C. ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, in Rivista Italiana per le scienze giuridche, 2011, pag. 17, sostiene che le regole giuridiche siano anzi espressione di un «principio pratico contingentemente persuasivo».

[7] C. ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, cit., pag. 17.

[8] C. ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, cit., pag. 18.

[9] C. ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, cit., pag. 19.

[10] L’unico limite posto ai diritti sostantivi è il buon costume, ex art. 21, comma 6, Cost. (sostanzialmente equiparabile al concetto di ‘pudore sessuale’). Per quanto concerne invece la modalità di manifestazione del pensiero, costituisce forma di limitazione l’impossibilità di adibire uno strumento all’esclusiva manifestazione di un determinato contenuto.

[11] Così Corte Cost., 14/06/1956, n.1, in De Jure.

[12] Corte Cost., 02/02/1972, n.2 e Corte Cost., 10/10/1979, n.117, in De Jure. 

[13] Al centro del dibattito americano a seguito della celebre dissenting opinion del giudice O. W. HOLMES nel caso Abrams vs. United States, 250 U.S. 616 (1919), il concetto di libero mercato delle idee è riconducibile all’opera di J. S. MILL. Conseguenza teorica primaria di questa impostazione sarebbe la derivabilità della verità dall’esercizio effettivo della libertà di espressione, a guisa di conoscenza comune che incontra il consenso della maggioranza. Tuttavia essa non ha riscontrato particolare successo in Europa, ove si associa comunemente valore assoluto alla libertà. 14 Una definizione coerente di verità è possibile nelle sole scienze naturali, come ripetitività dei risultati di un esperimento a parità di condizioni. Già PARMENIDE, nel poema ‘Sulla natura’, sosteneva la sua inconoscibilità in considerazione dell’innata incertezza e fallibilità dell’opinione (doxa) degli uomini.

[14]Sicché le informazioni sarebbero solo apparentemente diffuse bensì programmate matematicamente sin dalla loro origine.

[15] «L’hobessiano ‘auctoritas non veritas facit legem’ non è la verità degli Stati costituzionali», P.

HÄBERLE, Wahrheitsprobleme im Wefassungsstaat (1995), tr. it. Diritto e verità, Einaudi (Torino), 2000,pag. 105, riportato in G. PITRUZZELLA, La libertà di informazione nell’era di internet, in Media Laws – Rivista di diritto dei media, 2018, pag. 14.

[16] L. VIOLANTE, Politica e menzogna, Einaudi (Torino), 2013, pag. 4.

[17] L’espressione è di D. PALANO, autore di un saggio così intitolato in corso di pubblicazione e, sul medesimo tema, di un articolo disponibile all’indirizzo di seguito riportato: https://www.ilfoglio.it/politica/2017/05/01/news/labollamortaledellanuovademocrazia132173/.

[18] G. PITRUZZELLA, La libertà di informazione nell’era di internet, cit., pag. 23, discorre di «’neo-tribalismo’ che si alimenta nel web».

[19] BYUNG-CHUL HAN, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo Editore (Milano), 2015, riportato in G. PITRUZZELLA, La libertà di informazione nell’era di internet, cit., pag. 23, n. 36. 21 G. PITRUZZELLA, La libertà di informazione nell’era di internet, cit., pag. 23.

[20] F. PIZZETTI, Fake news e allarme sociale: responsabilità, non censura, in Media Laws – Rivista di diritto dei media, 2017.

[21] Il legislatore italiano tuttavia, pur accogliendo le numerose suggestioni sorte in ambito europeo, non si è dimostrato particolarmente accorto nell’introduzione di questa figura nel nostro ordinamento. I primi passi sono stati mossi con il disegno di legge Gambaro (presentato al Senato il 7 febbraio 2017), caratterizzato da un’impostazione di favore verso la sanzione penale, addirittura con il recupero della fattispecie di ‘disfattismo politico’ tipica del fascismo e l’auspicio della estensione della autonoma fattispecie di reato di pubblicazione o diffusione di «notizie false, esagerate o tendenziose» (già previsto dall’art. 656 c.p.) al web. Ad esso è seguito il disegno di legge Zanda sulle fake news (presentato al Senato il 14 dicembre 2017, durante la XVII Legislatura) e, infine, la proposta di legge, AC 1056, Fiano e altri, presentata alla Camera dei Deputati il 3 agosto 2018.

[22] Casi mediatici su tentativi di manipolazione dell’opinione pubblica per falsare la regolarità del processo elettorale sono frequenti. Si pensi al caso Russiagate nelle elezioni presidenziali USA del 2016. Trattasi di tematica tutt’altro che inedita nella storia. Il celebre scandalo delle erme, occorso ad Atene nel 415 a.C., è da molti ritenuto uno dei primi casi di fake news al fine di sovvertire un regime politico.

[23] M. BASSINI, G. E. VIGEVANI, Primi appunti su fake news e dintorni, in Media Laws – Rivista di diritto dei media, 2017, pag. 16 e ss.

[24] La soluzione condivisa da giurisprudenza e dottrina è quella di dare rilevanza alla sola ipotesi dolosa.

[25] Di questo avviso G. PITRUZZELLA, La libertà di informazione nell’era di internet, cit., pag. 12.

[26] M. OROFINO, Art. 21 Cost: le ragioni per un intervento di manutenzione ordinaria, cit., pag. 87.

[27] Disponibile all’indirizzo www.camera.it.

[28] V’è chi ha addirittura ipotizzato l’introduzione, nella Carta Fondamentale della Repubblica, di un articolo ad hoc (art. 34-bis).  

[29] S. RODOTÀ, Verso una dichiarazione dei diritti di Internet, consultabile all’indirizzo www.camera.it.  33 Si pensi alle frequenze, che costituivano le uniche (e scarse) risorse disponibili nel mercato delle trasmissioni via radio, appannaggio di pochissime imprese in posizione dominante. Inevitabile conseguenza era il venir meno delle tesi minoritarie o anti-conformiste. È così evidente il rapporto di reciproca presupposizione tra mercato concorrenziale e pluralismo dell’informazione. Per una analisi più approfondita, G. PITRUZZELLA, La libertà di informazione nell’era di internet, cit., pag. 1 e ss. Un monopolista poi, pericolosamente, avrebbe potuto assumere le vesti di censore o controllare del pensiero.

[30] N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Einaudi (Torino), 1995, pag. 75. Riportato in G. PITRUZZELLA, La libertà di informazione nell’era di internet, cit., pag. 3, n. 4.

[31] Come messo in luce da M. S. GALL, D. L. RUBINFELD, The Hidden Costs of Free Goods: Implications for Antitrust Enforcement, New York University Law and Economic Working Papers, 2015, riportato in G. PITRUZZELLA, La libertà di informazione nell’era di internet, cit., pag. 21.

[32] Esempio particolarmente significativo è l’algoritmo denominato ‘PageRank’, utilizzato da Google Search.

[33] Sicché anche le notizie subiscono un processo di selezione mediante algoritmi. Le espressioni inglesi sono tutte riportate in G. PITRUZZELLA, La libertà di informazione nell’era di internet, cit. 38 E. LEHNER, Fake news e democrazia, in Media Laws – Rivista di diritto dei media, 2019, pag. 2.

[34] ONU, OSCE, OAS, ACHPR, Joint Declaration on Freedom of Expression and “Fake News”, Disinformation and Propaganda, par. 2, lett. a), 3 marzo 2017, disponibile all’indirizzo https://www.osce.org/fom/302796. Così riportato in E. LEHNER, Fake news e democrazia, cit., pag. 4, n. 7. Numerosi Stati del Sud-Est asiatico (Indonesia, Laos, Thailandia) hanno negli ultimi anni implementato la legislazione anti-fake news, come ricorda E. LEHNER (Fake news e democrazia, cit., pag. 2).

[35] E. LEHNER, Fake news e democrazia, cit., pag. 3, che rinvia a UNESCO, World Trends in Freedom of Expression and Media Development, Global Report 2017/2018, 38-9 e 112.

[36] La Commissione ‘Jo Cox’ sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, istituita in Italia presso la Camera dei Deputati il 10 maggio 2016, nel rapporto finale del 6 luglio 2017 ne offre una caratterizzazione più ampia di quelle tipiche delle espressioni penalmente rilevanti (l’immagine metaforica adottata è quella della ‘piramide dell’odio’), in linea con quanto espresso dal Consiglio d’Europa, come «l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo, e comprende la giustificazione di queste varie forme di espressione, fondata su una serie di motivi, quali la ‘razza’, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale», disponibile all’indirizzo https://www.camera.it/leg17/1313.

[37] CEDU, 7 marzo 2019, decisione su ricorso n. 22350/13, Causa Sallusti contro Italia, par. 59, disponibile all’indirizzo https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20.wp.

[38] «Per questo si può dire che oggi anche gli incitamenti all’azione, le menzogne, le dichiarazioni offensive rientrano pienamente nell’ambito oggettivo della libertà di manifestazioni del pensiero, ma che al tempo stesso esse possono incorrere in limitazioni allorché il loro contenuto sia illegittimo», M. OROFINO, Art. 21 Cost: le ragioni per un intervento di manutenzione ordinaria, cit., pag. 87.

[39] Tra le pronunce più significative in tal senso, Handyside v. United Kingdom del 7 dicembre 1976 (n. ric. 5493/72); Jersild v. Denmark del 23 settembre 1994 (n. ric. 15890/89).

[40] La Corte EDU, abbracciando la teoria dei limiti logici alla libertà di espressione, esclude che l’hate speech possa essere tutelato ex art. 10 CEDU.

[41] Si veda https://it- it.facebook.com/help/135402139904490?helpref=uf_permalink.

[42] Disponibile all’indirizzo https://support.twitter.com/ articles/20175056.

[43] Cass., Sez I, 19/03/2017, n.7708 in De Jure.

[44] Essi costituiscono una sottocategoria degli Internet Service Provider.

[45] Trib. Napoli Nord, ordinanza del 03/11/2016 in De Jure.

[46] La piattaforma Facebook rientra nella categoria degli ISP.

[47] CEDU, Sez. IV, 02/02/2016, n. 22947, in De Jure.

[48] In Italia, invece, per lungo tempo si è ravvisato nella materialità dello scritto l’elemento decisivo per stabilire l’oggetto della tutela della libertà di stampa. La giurisprudenza (Cass. pen., sez. III, 11 dicembre 2008, n. 10535 in Mass. Giur. it, 2008) ha in ogni caso escluso – differentemente da quanto disposto in relazione alle testate giornalistiche telematiche – la possibilità di estendere le garanzie costituzionali legalmente previste per la stampa ai forum di discussione in Internet. Essi, infatti, al pari dei «nuovi mezzi di manifestazione del pensiero – quali newsletter, blog, newsgroup, mailing list, chat, messaggi istantanei» non rientrano «nella nozione di ‘stampato’ o di ‘prodotto editoriale’».

[49] Cass. Penale, Sez. I, 28/04/2015, n. 24431 in De Jure.

[50] Corte europea diritti dell’uomo, Sez. IV, sentenza 4 dicembre 2018 (n. 11257/16), in http://www.quotidianogiuridico.it/.

[51] Cass., SS. UU., 29/01/2015, n. 31022 in De Jure.

[52] G. M. CALETTI, “Revenge porn”. Prime considerazioni in vista dell’introduzione dell’art. 612-ter c.p.: una fattispecie “esemplare”, ma davvero efficace?, disponibile all’indirizzo www.penalecontemporaneo.it.

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