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La nomina del Commissario ad acta e la permanenza del potere di provvedere in capo all’Amministrazione. La parola dell’Adunanza Plenaria

Con la recentissima pronuncia n. 8/2021, pubblicata lo scorso 25 maggio, l’Adunanza Plenaria è tornata a pronunciarsi sugli effetti conseguenti alla nomina – ovvero all’insediamento – del Commissario ad acta, nominato ai sensi dell’art. 117, co. 3°, c.p.a., in termini di perdita, da parte dell’Amministrazione soccombente nel giudizio proposto avverso il suo silenzio, del potere di provvedere sull’originaria istanza.
Nello specifico, con la sentenza in commento, la Plenaria esamina il regime giuridico degli eventuali atti adottati dall’Amministrazione “tardivamente” rispetto al termine fissato dal Giudice amministrativo in esito ad un giudizio avverso il silenzio, laddove quest’ultimo abbia provveduto nelle more a nominare un Commissario ad acta in sostituzione della Amministrazione inadempiente.

LA VEXATA QUAESTIO          

L’analisi degli esiti di un tardivo esercizio del potere amministrativo costituisce, senz’altro, un tema di grande attualità, specie a seguito del D.L. Semplificazioni, conv. con modificazioni in L. n. 120/2020, il quale, introducendo il nuovo comma 8-bis all’art. 2 L. n. 241/90, sanziona espressamente con l’inefficacia l’eventuale atto adottato tardivamente dalla Pubblica Amministrazione.
Al riguardo, si osservi che le ipotesi menzionate dal Legislatore attengono tutte a casi di silenzio assenso, eccezion fatta per l’art. 19 L. n. 241/90, il quale rappresenta l’unica ipotesi di silenzio inadempimento cui consegue la consumazione dei poteri della Amministrazione[1].
Pertanto, fuori dei casi di silenzio assenso, e ad eccezione di particolari tipologie di silenzio inadempimento, il mancato esercizio di potere entro il termine di legge fissato per la conclusione del procedimento amministrativo non preclude alla P.A. di intervenire, sia pur tardivamente, conservando essa il relativo potere.
Di regola, dunque, la tardività non è causa di illegittimità o di inefficacia dell’atto: a fronte di un silenzio inadempimento, salva la previsione di termini decadenziali per l’esercizio del potere, l’atto tardivo è valido ed efficace.
In un tal contesto, dottrina e giurisprudenza si sono a lungo interrogate sulla sorte dell’atto adottato dalla P.A. una volta che sia sopraggiunta la nomina del Commissario ad acta da parte del Giudice amministrativo, onde porre rimedio alla protratta inadempienza della Amministrazione.
Siffatta problematica risulta alimentata, altresì, dalla natura anfibologica del Commissario ad acta: sebbene l’art. 21 c.p.a. lo qualifichi formalmente quale “ausiliario del giudice”, permane un’ambiguità di fondo, dovuta alla natura sostanzialmente amministrativa dell’attività svolta.
Qual è, dunque, la sorte dell’atto adottato dalla P.A. dopo la nomina, o dopo l’insediamento, del Commissario? Permane un potere di provvedere in capo alla P.A. dopo la nomina, o dopo l’insediamento, o, addirittura, dopo che il Commissario abbia provveduto?
Secondo una prima risalente impostazione, che non risulta poi espressamente ribadita, l’esautoramento dei pubblici poteri consegue alla nomina del Commissario ad acta, posto che il medesimo potere non potrebbe essere esercitato da organi diversi (ex multis: Consiglio di Stato, Sez. V, 10 marzo 1989, n. 165).
La nomina determinerebbe, dunque, il trasferimento del potere di provvedere in capo al Commissario ad acta.
A sostegno di siffatta impostazione viene richiamato l’art. 21-bis L. n. 1034/1971 (Legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali, poi abrogata dal codice del processo amministrativo), il cui comma 3° prevedeva espressamente che: “All’atto dell’insediamento il commissario, preliminarmente all’emanazione del provvedimento da adottare in via sostitutiva, accerta se anteriormente alla data dell’insediamento medesimo l’amministrazione abbia provveduto, ancorché in data successiva al termine assegnato dal giudice amministrativo con la decisione prevista dal comma 2”.
Tale previsione – che non compare nel nuovo art. 117 c.p.a. – sembrerebbe abilitare la P.A. a provvedere sino all’atto di insediamento.
L’eliminazione di tale disposizione dal nuovo impianto normativo sarebbe sintomatica della volontà del Legislatore di esautorare l’Amministrazione fin dalla nomina del Commissario ad acta, senza attenderne l’insediamento.
Pertanto, risultando trasferito il potere in capo al Commissario ad acta sin dalla nomina di quest’ultimo, l’eventuale atto adottato successivamente da parte della P.A. sarebbe tardivo e, quindi, invalido, poiché adottato da parte di un organo incompetente.
Tale ultimo aspetto costituisce un ulteriore profilo problematico, in ordine al quale la giurisprudenza si divide tra coloro che qualificano tale incompetenza quale forma di difetto assoluto di attribuzione, da cui discenderebbe la nullità dell’atto amministrativo tardivo ex art. 21 septies, L. 241/90, e coloro che, invece, ritenendo comunque sussistente un potere in astratto in capo alla P.A., escludono la nullità dell’atto amministrativo, ritenendolo al più annullabile, risultando il potere esercitato oltre i termini di legge.
Tale impostazione, tuttavia, non ha trovato larghi consensi in giurisprudenza.
Invero, per un altro orientamento, maggioritario nella giurisprudenza più recente, l’esautoramento si verificherebbe solo con l’operatività dell’investitura commissariale, ovvero, dopo l’“insediamento” del Commissario ad acta che attuerebbe il definitivo trasferimento del munus pubblico dell’ente che ne è titolare per legge a quello che ne diviene titolare in ragione della sentenza del Giudice amministrativo (ex multis: Consiglio di Stato, Sez. V, 5 giugno 2018, n. 3378).
Questa prospettiva è stata recentemente accolta dal Supremo Consesso della giustizia amministrativa che, con la sentenza n. 7 del 9 maggio 2019, ha offerto un proprio iniziale contributo interpretativo in ordine alla questione di diritto oggetto della pronuncia esaminanda, affermando che “l’insediamento del commissario ad acta, infatti, nella sua duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione inadempiente surrogata, priva quest’ultima della potestà di provvedere”.
Tuttavia, di diverso avviso è parsa l’Adunanza Plenaria con la pronuncia in esame, la quale sembrerebbe aver condiviso la tesi sposata dalla Sezione IV del Consiglio di Stato con l’ordinanza di rimessione n. 6925 del 10 novembre scorso.    
Secondo tale distinta prospettiva – apprezzata da autorevole dottrina ma meno diffusa, in verità, nella giurisprudenza più recente – né la nomina né l’insediamento del Commissario ad acta realizzerebbero un esautoramento dei poteri della Pubblica Amministrazione, la quale continua ad operare nell’ambito delle attribuzioni che la legge le riconosce e che non prevede siano estinte con l’insediamento del Commissario (ex multis: Consiglio di Stato, Sez. IV, 10 maggio 2011, n. 2764).
In altri termini, trattandosi di organi diversi, non si verificherebbe alcun effetto di esautoramento e la competenza del Commissario ad acta diverrebbe concorrente con quella della P.A. – istituzionalmente competente ad emanare il provvedimento – quantomeno finché quest’ultima non si determini a provvedere.
A sostegno di tale tesi, il Giudice remittente richiama il principio di legalità in connessione con l’art. 97 Cost., il quale si riflette nella individuazione delle competenze delle autorità amministrative: è la legge che individua le competenze dell’organo amministrativo. Pertanto, solo una disposizione di legge, ovvero una sentenza del Giudice amministrativo basata su una norma di legge può incidere sull’ambito delle competenze, prevedendo l’esautoramento della Amministrazione.
Siffatta evenienza, pur consentita dal sistema, in tanto non potrebbe che costituire una extrema ratio in quanto constaterebbe un perdurante rifiuto dell’organo competente di fare il proprio dovere, “premiato” con una sostanziale de-responsabilizzazione.
Pertanto, in assenza di una chiara ed univoca determinazione del Giudice amministrativo sulla perdita di potere dell’organo ordinariamente competente, si potrebbe continuare a considerare perdurante la competenza attribuita, in via ordinaria, dalla legge.
Del resto, ogni possibile divergenza o mancata collaborazione tra questi ed il Commissario ad acta risulta, se del caso, facilmente risolvibile mediante la richiesta di chiarimenti al Giudice amministrativo.
Dunque, la tardività non costituisce un vizio di legittimità dell’atto amministrativo, purché, nel frattempo, non sia intervenuto il Commissario ad acta: in tale ipotesi, provenendo gli atti da organi ugualmente competenti, l’eventuale conflitto verrebbe risolto in virtù del criterio cronologico, secondo il principio ‘prior in tempore potior in iure’.

LA PRONUNCIA DELL’ADUNANZA PLENARIA

Con la pronuncia in commento – resa nell’ambito di un giudizio avverso il silenzio, ai sensi dell’art. 117 c.p.a., il cui principio di diritto risulta applicabile ogniqualvolta il Giudice amministrativo, nell’ambito della propria giurisdizione, nomini, come proprio ausiliario, un Commissario ad acta onde sostituirsi alla Amministrazione – l’Adunanza Plenaria ha condiviso quest’ultimo orientamento, ritenendo che la P.A., risultata soccombente in sede giurisdizionale, non perda il proprio potere di provvedere, pur in presenza della nomina e dell’insediamento di un Commissario ad acta al quale sia stato conferito il potere di provvedere per il caso di sua inerzia nell’ottemperanza al giudicato (ovvero nell’adempimento di quanto nascente da una sentenza provvisoriamente esecutiva ovvero da un’ordinanza cautelare), e fino a quando lo stesso non abbia provveduto.
Fino a tale momento, si verifica, dunque, una situazione di esercizio “concorrente” del potere da parte dell’Amministrazione, che ne è titolare ex lege, e da parte del Commissario, che, per ordine del giudice, deve provvedere in sua vece.
Invero, l’attività del Commissario ad acta costituisce attuazione della decisione del giudice, onde rendere effettiva la tutela giurisdizionale costituzionalmente affermata nei confronti della Pubblica Amministrazione. Gli effetti che si imputano all’Amministrazione non dipendono da una “sostituzione” nell’esercizio di poteri a questa attribuiti e da essa autonomamente esercitabili, ricorrendone le ragioni di pubblico interesse, né tantomeno ricorre un’ipotesi di trasferimento dei poteri medesimi (dall’Amministrazione al Commissario). Tali effetti derivano, invece, direttamente dalla pronuncia del giudice, la quale, avendo per oggetto atti amministrativi o l’esercizio in fieri di poteri provvedimentali, non può attuarsi se non attraverso l’adozione di atti o di provvedimenti, il cui momento genetico, tuttavia, non si ritrova nella norma attributiva del potere all’Amministrazione, bensì nella sentenza, ed il cui momento funzionale non è (almeno direttamente) rappresentato dalla cura dell’interesse pubblico, bensì dall’effettività della tutela giurisdizionale.
Sotto tale aspetto, è significativo che i poteri del Commissario siano tradizionalmente ricondotti alla giurisdizione “di merito” del Giudice amministrativo, la quale, anche nell’adozione di provvedimenti in luogo dell’Amministrazione, resta esercizio di attività giurisdizionale e non amministrativa.
Secondo l’Adunanza Plenaria, la distinta natura del potere esercitato dal Commissario ad acta rispetto al potere del quale è titolare la Pubblica Amministrazione soccombente già costituisce, di per sé, chiara indicazione in ordine all’ammissibilità della “concorrenza” della competenza commissariale con quella dell’Amministrazione.
Convenendo, in parte, con l’ordinanza di rimessione laddove la stessa afferma che “in assenza di una (pur consentita dalla legge) chiara ed univoca determinazione del giudice amministrativo sulla perdita di potere dell’organo ordinariamente competente, si potrebbe continuare a considerare perdurante la competenza attribuita in via ordinaria dalla legge, militando in tal senso il principio di legalità sulla articolazione delle competenze, nonché il principio di correttezza dei rapporti di diritto pubblico”, la Plenaria in commento, ha affermato che “è dubbio che il giudice abbia il potere di indicare una data oltre la quale l’amministrazione non possa più provvedere nell’attuazione della decisione, poiché si tratterebbe di un potere di “interdizione” dall’esercizio di poteri amministrativi per il quale difetta il presupposto normativo”; al contrario, la duplice possibilità di ottenere l’ottemperanza alla decisione sia da parte della P.A., sia da parte del Commissario ad acta, rafforza la posizione della parte già vittoriosa in sede di cognizione.
Siffatta concorrenza della competenza del Commissario ad acta e della Amministrazione ha ragion d’essere allorché uno dei due soggetti dia attuazione alla decisione del giudice, poiché “qualora il commissario ad acta adotti atti dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, gli stessi sono da considerarsi inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell’ottemperanza o del giudizio sul silenzio. Allo stesso modo deve concludersi per la speculare ipotesi di atti adottati dall’amministrazione dopo che il commissario abbia provveduto”.

[1] Art. 2, comma 8-bis, L. 241/90: “Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’articolo 14-ter, comma 7, nonché i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’articolo 19, commi 3 e 6-bis, primo periodo, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.

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