giovedì, Aprile 18, 2024
Fashion Law Influencer Marketing

La post-sale confusion e il paradosso esclusività-accessibilità dei marchi del fashion luxury

1. Introduzione

Uno dei paradossi più noti del luxury world è quello che vede le maison alla continua ricerca di un equilibrio perfetto tra l’esclusività e l’accessibilità, concetti tra loro quasi ossimorici. Per quanto concerne la tematica dell’esclusività si rimanda a quanto già approfondito nell’articolo “I marchi notori e la tutela contro i c.d. falsi palesi: il caso Gucci[1]. In quella sede sono stati richiamati gli aspetti fondanti l’appeal del fashion luxury, come il mytichal status e la forte immedesimazione del consumatore nel suo marchio del cuore, in quanto ne riconosce e ne condivide i valori. Quando si parla di accessibilità, invece, si fa riferimento alla concreta possibilità di acquisto. Segnatamente, in questo contesto si sta ad indicare la possibilità di acquistare prodotti – anche se di valore notevolmente inferiore – comunque contraddisti dal noto marchio. È chiaro che ogni brand di lusso voglia mantenere un alto grado di esclusività, per preservare l’elité ristretta dei consumatori del lusso, ma allo stesso tempo deve, in un certo qual modo, sdoganare il proprio marchio, lasciando al consumatore medio la possibilità di acquistare una piccola parte del sogno. Esempio calzante in questo senso è quello della maison francese Hermes e la sua “Birkin”, la cui fama può solo che precedere. Ebbene, questo specifico modello di borsa è quello che può essere definito prodotto esclusivo per antonomasia. Basti pensare al solo fatto che, dopo aver deciso di andare in boutique ad acquistarla, è necessario attendere un lungo periodo (addirittura mesi!) prima di poterla sfoggiare – ciò a sottolineare ancor di più l’artigianalità del prodotto e quindi la sua esclusività. Allo stesso tempo, la casa di moda francese, per alimentare il sogno di una vita di possedere una Birkin, deve “nutrire” gli appassionati, ad esempio mettendo in vendita dei prodotti di altra tipologia, come quelli beauty o profumi, a prezzi decisamente più accessibili. Questo meccanismo opera sicuramente per i non-affordable luxury brand – i marchi del c.d. lusso assoluto – ma anche per gli affordable luxury brand, i quali – comunque appartenendo al mondo del lusso – risultano meno di nicchia. La premessa sull’accessibilità e l’esclusività del marchio è indispensabile per comprendere meglio il fenomeno della post sale confusion e le sue dirette conseguenze. Anticipiamo solamente che questa particolare specie di confusione è lesiva della notorietà del marchio perché inficia la sua esclusività, facendo credere al pubblico di riferimento che il prodotto in questione sia più accessibile e diffuso di quanto si possa immaginare.

2. La post sale confusion: origine e giurisprudenza

È, a questo punto, doveroso cercare di dare una definizione di post-sale confusion. Nella sostanza, essa si configura quando il rischio di confusione sopraggiunge in un momento successivo all’acquisto. In tale fattispecie, infatti, non rileva la confusione del consumatore in merito all’origine del prodotto  quando egli compie le sue scelte di consumo; qui, quello che rileva è la percezione dei terzi che, vedendo il bene indossato o comunque portato da altri, possano aver dubbi in merito alla sua provenienza[2]. Il fenomeno della confusione successiva all’acquisto ha origini oltre oceaniche, è stato introdotto per la prima volta con una riforma del Lanham Act ad opera del legislatore americano. Il testo originario subordinava la tutela del marchio al fatto che l’uso del segno del contraffattore fosse suscettibile di creare confusione, causare errore o ingannare gli acquirenti in merito alla fonte di origine di beni e/o servizi[3]. In questo modo l’unica confusione che poteva ledere i diritti del titolare del marchio anteriore era quella sussistente al momento dell’acquisto, limitando così nettamente le ipotesi di confondibilità. Nel 1955, interveniva l’emendamento su spinta dei giudici americani che, non riuscendo a far rientrare le ipotesi di post-sale confusion nella fattispecie della contraffazione, le ricondussero all’interno del perimetro della concorrenza sleale[4]. Il suddetto emendamento eliminava il riferimento agli “acquirenti” estendendo così l’ambito della confusione anche ai casi in cui ad essere confusi fossero soggetti diversi dal compratore. Nonostante l’intervento della novella, soltanto a partire dagli anni Ottanta iniziava ad essere riconosciuta in giurisprudenza l’esistenza della confusione successiva all’acquisto[5].

Traslando la disciplina americana al contesto europeo, la configurabilità di una confusione di tale sorta è già da tempo riconosciuta dalla giurisprudenza comunitaria. Primo e clamoroso episodio in cui la Corte ne riscontrava gli estremi è il caso Arsenal[6].

Il caso – che ha visto coinvolta la squadra di calcio inglese – ruotava intorno alla vendita, da parte del sig. Reed, di fasce da tifoseria non ufficiali.

La Corte impostava il suo dispositivo sulla base della circostanza che, nonostante fossero presenti sulla bancarella del convenuto dei disclaimers che indicavano che non si trattasse di prodotti di merchandising ufficiale, in ogni caso – data l’identità del marchio e dei prodotti del sig. Reed con quelli distribuiti dell’Arsenal – “non (poteva) essere escluso che taluni consumatori, in particolare se i prodotti (fossero stati) presentati loro dopo essere stati venduti dal sig. Reed e asportati dal chiosco in cui appariva l’avvertenza, (interpretassero) il segno come indicante l’Arsenal FC quale impresa di provenienza dei prodotti”.

In questa sentenza, oltre a riconoscere un’ipotesi di double identity, i giudici di Lussemburgo affermavano che la deviazione della fonte di origine di un prodotto poteva integrarsi anche successivamente all’acquisto, a maggior ragione agli occhi dei terzi che non avevano contezza di quelle che erano state le modalità di vendita, ingenerando così una post-sale confusion. Da questa prima sentenza della Corte di Giustizia ne sono seguite molte altre, sia dei giudici europei che italiani. Tra questi ultimi, quello di più interesse, è stato affrontato dalla Corte di Cassazione nel 2018, culminato con l’ordinanza n. 26001 del 17 ottobre 2018. Il caso analizzato è quello che vede protagonista la maison Ferragamo e il suo celebre segno distintivo “gancini”. Alla sua nascita, questo segno non rappresentava il marchio ufficiale di Ferragamo e fino al 1992 non era nemmeno registrato ma nonostante ciò, fin dagli albori, è stato un elemento che nelle menti di molti faceva nascere automaticamente un collegamento diretto con lo stilista. Oggi, nessuno ha dubbi sull’origine di borse e accessori contraddistinti da “gancini” perché simbolo ideato e utilizzato da oltre 70 anni dallo stilista avellinese.

Proprio per la fama del marchio, più di qualcuno ha tentato di utilizzarlo e trarre vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà, senza però mai riuscirci.

Il fatto alla base della controversia giurisprudenziale era il seguente: la società Val Vibrata produceva ornamenti metallici riproducenti il marchio registrato “gancini”, i quali erano venduti alla società di pelletteria Ripani che li utilizzava per la realizzazione di borse della sua collezione autunno-inverno 2008/2009. La signora G.Z., infine, aveva la responsabilità di vendere siffatte borse nel suo negozio “L’Alternativa”. Questa la situazione che si configurava e dalla quale si poteva chiaramente evincere lo scorretto comportamento della Ripani, che apponeva sui suoi prodotti un segno palesemente imitatorio dei “gancini” di Ferragamo con il fine ultimo di utilizzarlo in via decorativa – uso non consentito, così come affermato anche dalla Corte europea – e trarne così un indebito vantaggio. La fibbia della Val Vibrata, infatti, era utilizzato dalla Ripani esattamente come Ferragamo utilizzava gancini, da decenni, per le proprie borse. Da tale comportamento imitatorio discendeva un rischio di confusione sia in merito all’origine del prodotto sia per la possibile integrazione di un’ipotesi di post-sale confusion.

Il pubblico di riferimento, infatti, vedendo indossata una delle borse di cui è causa, avrebbe potuto ritenere che si trattasse di una Ferragamo, essendo questa simile sia dal punto di vista del disegno della fibbia sia da quello della posizione in cui essa è collocata. Nel decidere la questione i giudici riprendevano implicitamente il concetto dell’imperfect recollection e ritenevano sussistente la somiglianza tra i segni perché, solamente a seguito di un attento raffronto diretto, sarebbe stato possibile individuare le differenze tra questi. Tale valutazione, in generale, non può essere sicuramente svolta dal consumatore medio, il quale mai si troverà nella situazione di poter paragonare direttamente i due segni, al contrario, avrà come mezzo di paragone di quello che si trova davanti la sola immagine che ricorda dell’altro. Infine, la condotta posta in essere dalla sig.ra G.Z. era stata condannata anch’essa insieme alle società, tuttavia in capo a quest’ultima era stata riconosciuta esclusivamente la responsabilità solidale per contraffazione perché, data l’ampia notorietà del segno distintivo della Ferragamo, una persona inserita nel settore non poteva non far caso al fatto che le borse della Ripani costituissero imitazione delle più ben note borse di lusso.

3. Considerazioni conclusive

Dopo aver analizzato la questione dal punto di vista storico-giuridico e giurisprudenziale è possibile ritornare all’ossimorico binomio esclusività-accessibilità dei brands di fashion-luxury e, in tal modo, chiudere il cerchio. È di tutta evidenza che un comportamento di siffatto genere leda irrimediabilmente il marchio notorio, soprattutto se si pensa al fatto che le principali caratteristiche di questa tipologia di brands sono proprio l’esclusività e la scarsità. Da un punto di vista di economia di mercato, una società rientrante nella fashion industry generalmente non avrà mai un market share superiore al 5%. Infatti, se tale percentuale fosse più alta, i prodotti non potrebbero più considerarsi esclusivi perché acquistati da una buona fetta di mercato. Per mantenere l’esclusività, i marchi di lusso non possono penetrare eccessivamente nel segmento del mercato di riferimento, non devono essere eccessivamente visti per le strade delle città. Ed è proprio qui che il danno causato dalla post sale confusion si manifesta. Se in un momento successivo all’acquisto, sostanzialmente quando – in questo caso – la borsa  simil-Ferragamo viene sfoggiata, c’è la possibilità che altri vi riconoscano una borsa griffata, ecco che, nella mente del pubblico generale, si crea un’errata convinzione: le borse di marchi notori non sono così inaccessibili.

In una situazione del genere, i veri consumatori del lusso diventerebbero restii ad acquistare nuovamente prodotti di quella griffe perché, apparentemente, volgarizzati e accessibili alla maggioranza della popolazione. Situazione quest’ultima più che lontana dalla mentalità degli amanti del lusso, i quali compiono scelte di acquisto finalizzate a distinguersi dagli altri consumatori, seguendo la più vera e profonda direttiva dell’esclusività. In conclusione potremmo affermare – senza troppo azzardo – che questa tipologia di confusione è tra le più dannose per i marchi notori e per l’allure che li contraddistingue. In fondo, i marchi notori devono gran parte del loro successo all’aura of luxury e a quell’esclusività che legittima i consumatori del lusso a sentirsi parte di un piccolo entourage di privilegiati.

[1] Sul punto si legga: Trotta, I marchi notori e la tutela contro i c.d. falsi palesi: il caso Gucci, Ius in itinere, https://www.iusinitinere.it/i-marchi-notori-e-la-tutela-contro-i-c-d-falsi-palesi-il-caso-gucci-34242

[2] M. J. Allen,Who Must Be Confused and When: The Scope of Confusion Actionable under Federal Trademark Law, 1991, The Trademark Reporter n. 81, p. 209.

[3] Section 32(1), Lanham Act.

[4] G. E. Sironi, La percezione del pubblico nel diritto dei segni distintivi, 2013, Giuffrè Editore

[5] Ibidem.

[6] Corte di Giustizia UE, caso C-206/01. Arsenal Football Club plc c. Matthew Reed.

Si legga anche: ORLANDINI, La tutela del fashion design nei Paesi di Common Law, Ius in itinere, disponibile al link https://www.iusinitinere.it/la-tutela-del-fashion-design-nei-paesi-di-common-law-32021

Serena Trotta

Laureata con lode in Giurisprudenza presso la Luiss Guido Carli nell'ottobre 2020 con una tesi in diritto Commerciale. Attualmente praticante avvocato presso l'Avvocatura Generale dello Stato. Animata da un forte interesse per l'ambito fashion e luxury, ha deciso di proseguire gli studi iscrivendosi al Master di II Livello (LL.M.) in Fashion Law presso la Luiss School of Law.

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