giovedì, Marzo 28, 2024
Di Robusta Costituzione

La problematica attuazione del diritto d’asilo in Italia: profili di illegittimità costituzionale del d.l. n. 113/2018

A cura di Erica Lestini

 

  1. Introduzione

Il diritto d’asilo in Italia è disciplinato dall’art. 10 co. 3 della Costituzione, il quale afferma: “lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, alle condizioni stabilite dalla legge”.

La sua attuazione all’interno dell’ordinamento italiano è stata piuttosto problematica: gli interventi normativi in materia di condizione giuridica dello straniero, spesso disorganici, alcune volte incompleti o dettati da esigenze emergenziali[1], hanno dato luogo a quella che è stata efficacemente definita “schizofrenia dell’accoglienza”[2], in riferimento non solo all’atteggiamento del legislatore, ma anche a quello dell’opinione pubblica, oscillante tra accoglienza e rifiuto.

In particolare, per ciò che riguarda l’oggetto del presente lavoro, con il cd. “Decreto Sicurezza e Immigrazione” (d.l. n. 113/2018 convertito con modificazioni nella l. n. 132/2018), il legislatore ha proseguito una pratica, inaugurata già nel 2009, che vede un rafforzamento del binomio immigrazione-sicurezza pubblica, riducendo il fenomeno migratorio a mero problema di legalità e ordine pubblico e fomentando una politica restrittiva e securitaria in tema di trattamento giuridico dello straniero[3].

All’interno di tale provvedimento normativo, la dottrina più autorevole non ha tardato a rilevare una serie di dubbi di legittimità costituzionale, sia per vizi formali che per vizi sostanziali.

 

  1. Vizi formali

Per ciò che riguarda i vizi formali, è stata messa in evidenza prima di tutto una carenza dei presupposti necessari richiesti per il ricorso alla decretazione d’urgenza, con particolare riguardo alla mancata ricorrenza dei “casi straordinari di necessità ed urgenza” di cui l’art. 77 Cost. Gli stessi dati diramati dal Ministero dell’Interno mostrano infatti un decremento dello sbarco di migranti in Italia nel 2018 dell’80% rispetto al 2017 e addirittura del 90% rispetto al 2016[4]. Sul punto, ha recentemente fatto chiarezza la stessa Consulta[5], la quale non ha ravvisato alcuna violazione dell’art. 77 co. 2 ad opera del d.l. n. 113/2018, ritenendo che, se è vero che il provvedimento in questione non affronta una nuova emergenza, non si può negare che la persistenza di un problema, cioè il massiccio afflusso dei richiedenti asilo e la loro gestione, possa concretare le ragioni di urgenza che giustificano l’intervento del Governo. Sembra tuttavia opportuno precisare come l’abuso della decretazione d’urgenza da parte del legislatore ordinario non sia un fenomeno circoscritto al solo caso in esame; la sua preoccupante diffusione, al contrario, ha spinto gli studiosi a mettere in guardia più volte circa un pericolo di banalizzazione del decreto-legge, con conseguente smarrimento della sua natura eccezionale.

Strettamente connesso a questo aspetto è quello della disomogeneità delle materie trattate dal decreto, come emerge dalla semplice lettura del titolo (“Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”), il quale, peraltro, è stato addirittura integrato in sede di conversione mediante “Delega al Governo per il riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate”, con conseguente correzione e integrazione dei decreti legislativi delegati nn. 94 e 95 del 29 maggio 2017. La modificazione parlamentare del titolo originario di un decreto-legge è stata tuttavia già considerata dalla Corte costituzionale come sintomo della “evidente estraneità delle disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite[6]. Parte della dottrina[7] ha di conseguenza ravvisato una violazione del 2° comma dell’art. 77 Cost. e più nello specifico della ratio ad esso sottesa: sul punto, giova richiamare la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, pronunciatasi in materia di decretazione d’urgenza, ha affermato che “il presupposto del “caso” straordinario di necessità e urgenza inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso come un tutto unitario, atto normativo fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno. La scomposizione atomistica della condizione di validità prescritta dalla Costituzione si pone in contrasto con il necessario legame tra il provvedimento legislativo urgente ed il “caso” che lo ha reso necessario, trasformando il decreto-legge in una congerie di norme assemblate soltanto da mera casualità temporale[8].

Infine, il Governo ha presentato un maxiemendamento interamente sostitutivo del testo originario, su cui ha posto la questione di fiducia sia al Senato che alla Camera per l’approvazione finale. Questa procedura di approvazione sembrerebbe aver troncato qualsiasi dibattito parlamentare sul punto, producendo, in primo luogo, una violazione dell’art. 72 co. 1: viene infatti vanificato completamente il ruolo delle Commissioni parlamentari in sede referente, consistente nella vera e propria elaborazione del testo da presentare in Assemblea. All’interno di tale aspetto, gioca un ruolo centrale l’istituto dell’emendamento, da intendersi non solo come presentazione di modifiche, bensì anche e soprattutto quale momento di discussione e votazione. Da questo punto di vista, è chiaro come tale istituto divenga espressione di uno dei caratteri fondamentali del parlamentarismo, cioè il “confronto dialettico”[9] inteso quale strumento per giungere alla decisione e alla formazione della volontà collettiva[10]. Sul punto, un secondo dubbio di legittimità costituzionale è stato sollevato rispetto all’art. 77 Cost., dal momento che il binomio maxiemendamento-questione di fiducia sembrerebbe ridurre il procedimento di conversione da strumento di controllo a mero provvedimento di ratifica delle scelte compiute dal Governo. Più nello specifico, la seconda Camera, che in questo caso è la Camera dei Deputati, sarebbe chiamata ad una mera ratifica di quanto approvato dalla prima, con conseguente violazione del bicameralismo perfetto di cui l’art. 70 Cost., la quale addirittura produrrebbe, secondo alcuni, una situazione di “monocameralismo indotto”[11], caratterizzato da una netta asimmetria di ruoli e funzioni, tra la Camera che interviene per prima e dunque “decidente” e la Camera che interviene per seconda, ovvero “ratificante”[12].

 

  1. Vizi sostanziali

Passando invece ai più rilevanti tra i vizi sostanziali ravvisati dalla dottrina, l’art. 3 del Decreto Sicurezza e Immigrazione ha introdotto una nuova forma di trattenimento ai fini identificativi dei richiedenti protezione internazionale all’interno dei cd. centri hotspot, per un massimo di trenta giorni, al termine dei quali, qualora l’identità non fosse accertata, gli stessi potranno essere trattenuti nei Cpr per un periodo massimo di centottanta giorni. Tale disposizione sembrerebbe comportare una violazione indiretta dell’art. 117 co. 1 Cost. per il mancato rispetto dell’art. 8 par. 1 della direttiva n. 33/2013, il quale vieta il trattenimento dei richiedenti protezione internazionale per il solo fatto di aver presentato una domanda di protezione internazionale, nonché dell’art. 31 della Convenzione di Ginevra, dal momento che viene sanzionato il soggiorno irregolare del richiedente asilo in fuga da conflitti e persecuzioni per il solo fatto, peraltro a lui non imputabile, di non possedere dei documenti di viaggio,; infine, dell’art. 5 CEDU in materia di libertà personale.

L’art. 10 ha invece introdotto un procedimento immediato davanti alla Commissione territoriale, l’autorità amministrativa che si occupa di valutare le domande di protezione internazionale. Coloro che sono sottoposti a procedimento penale per alcuni tipi di reato di particolare allarme sociale, ovvero sono stati condannati anche in via non definitiva, vengono sottoposti ad una procedura immediata di fronte alla Commissione territoriale; in caso di diniego, l’eventuale ricorso non avrà efficacia sospensiva e si procederà immediatamente all’espulsione. Alcuni studiosi[13] hanno dunque sollevato perplessità in relazione al rispetto della presunzione di non colpevolezza di cui l’art. 27 co. 2 Cost. e del diritto di difesa di cui l’art. 24 co. 2 Cost.; altri hanno invece fatto notare come il punto focale della questione sia piuttosto la capacità o meno di garantire il contraddittorio a distanza: in materia, peraltro, già il Decreto Minniti-Orlando del 2017 aveva previsto una procedura camerale speciale con contraddittorio cartolare, dunque alcuna novità sarebbe stata apportata dal d.l. n. 113/2018. Inoltre, tale secondo filone dottrinale non ha ravvisato alcuna violazione dell’art. 10 co. 3 Cost., dal momento che proprio tale disposizione costituzionale afferma che la legge debba stabilire le condizioni di esercizio dell’asilo, condizioni che dovranno essere inevitabilmente anche procedurali e legate alla capacità di accoglienza dello Stato e alla tutela di altri beni giuridici.

Ancora, l’art. 13 ha disposto che il permesso di soggiorno per richiedenti asilo, valido come documento di riconoscimento, non costituisca titolo per l’iscrizione anagrafica, precludendo a tali soggetti la possibilità di accedere a servizi relativi alla residenza, come ad esempio la fruizione delle prestazioni sanitarie. Diversi Tribunali italiani hanno accolto i ricorsi presentati da richiedenti asilo ai quali era stata preclusa l’iscrizione anagrafica, tra cui quelli di Firenze, Bologna e Genova. Stesso discorso per i Tribunali di Ancona, Milano e Salerno, i quali hanno contestualmente sollevato questione di legittimità costituzionale di fronte alla Corte, lamentando non solo doglianze relative a vizi formali, come la violazione dell’art. 77 co. 2, ma anche, vedendo citarne solo alcune, il mancato rispetto dell’art. 2 Cost., rientrando il diritto all’abitazione tra i diritti fondamentali strettamente connessi alla dignità umana, e dell’art. 3 Cost., dal momento che esso produrrebbe un’ingiustificata disparità di trattamento. La Corte costituzionale si è recentemente pronunciata sul punto con sent. n. 186 del 09/07/2020, rigettando la questione di legittimità costituzionale riguardante la violazione dell’art. 77 co. 2 Cost.[14] e dichiarando invece incostituzionale il divieto di iscrizione anagrafica del richiedente protezionale per violazione dell’art. 3 Cost. sotto molteplici profili, sostanzialmente perché introdurrebbe una deroga, priva dei «requisiti di razionalità e ragionevolezza», alla disciplina dell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 (“Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione”). Invero, mentre il Governo e l’Avvocatura dello Stato hanno ritenuto argomento idoneo a giustificare l’esclusione dall’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo la loro precarietà sul territorio italiano, la Corte ha censurato l’art. 13 del Decreto Salvini sotto due profili. Prima di tutto, ha affermato che “così provvedendo, tuttavia, il legislatore contraddice la ratio complessiva del decreto-legge al cui interno si colloca la disposizione denunciata. Infatti, a dispetto del dichiarato obiettivo dell’intervento normativo di aumentare il livello di sicurezza pubblica, la norma in esame, impedendo l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, finisce con il limitare le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica sulla popolazione effettivamente residente sul suo territorio, escludendo da essa una categoria di persone, gli stranieri richiedenti asilo, regolarmente soggiornanti nel territorio italiano. E ciò senza che questa esclusione possa ragionevolmente giustificarsi alla luce degli obblighi di registrazione della popolazione residente[15]. In secondo luogo, “negando l’iscrizione anagrafica a coloro che hanno la dimora abituale nel territorio italiano, tuttavia, la norma censurata riserva un trattamento differenziato e indubbiamente peggiorativo a una particolare categoria di stranieri in assenza di una ragionevole giustificazione: se infatti la registrazione anagrafica è semplicemente la conseguenza del fatto oggettivo della legittima dimora abituale in un determinato luogo, la circostanza che si tratti di un cittadino o di uno straniero, o di uno straniero richiedente asilo, comunque regolarmente insediato, non può presentare alcun rilievo ai suoi fini[16].

L’art. 14 del d.l. n. 132/2018 ha inoltre apportato modifiche al testo della legge n. 91/1992 (cd. legge sulla cittadinanza), inserendo l’art. 10bis[17], il quale prevede la revoca della cittadinanza italiana per chi, dopo aver ottenuto la concessione della stessa, non essendo italiano per nascita, è stato condannato definitivamente per aver compiuto gravissimi delitti lesivi del bene giuridico della sicurezza dello Stato e dell’ordine pubblico (delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordinamento costituzionale, ovvero di ricostituzione di associazioni sovversive o di eversione dell’ordine democratico).

La disposizione in esame sembrerebbe costituzionalmente illegittima da vari punti di vista. Prima di tutto, il d.l. n. 113/2018, secondo alcuni commentatori, “frantuma”[18] il concetto di cittadinanza, distinguendo tra cittadini di “serie A” e cittadini di “serie B”, in quanto prevede che dalla stessa fattispecie penale derivino conseguenze che si differenziano in base alla modalità di acquisizione della cittadinanza, in aperto contrasto con l’art. 3 Cost. e in particolare con il divieto di discriminazione per condizioni personali[19]. A sostegno di ciò, giova sicuramente ricordare una pronuncia della Corte costituzionale in relazione alla censura dell’aggravante di clandestinità, in cui si legge che “la condizione giuridica dello straniero non deve essere (…) considerata (…) come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi, specie nell’ambito del diritto penale, che più direttamente è connesso alle libertà fondamentali della persona[20]. Va tenuto a mente, cioè, che anche se l’acquisto della cittadinanza da parte dello straniero non è un diritto fondamentale[21], una volta che essa sia stata acquisita, egli sarà cittadino al pari degli altri.

Sul piano strettamente culturale, è stato efficacemente affermato che l’art.10bis della legge n. 91/1992  creerebbe una “fuoriuscita dal concetto unitario di cittadinanza”[22], intesa come garanzia di tutela dei diritti del singolo nei confronti dello Stato e dunque come una delle più importanti conquiste della Rivoluzione Francese, caratterizzante la civiltà europea da quel momento in poi; oltre al fatto, da non sottovalutare, che tale disciplina sembrerebbe circondare di un’aura di sospetto chi non è italiano “di sangue”[23].

Ancora, dal punto di vista penalistico, la revoca della cittadinanza sembra in contrasto con la funzione rieducativa della pena sancita dall’art. 27 Cost., nonché con il divieto, ex art. 22 Cost., per il legislatore ordinario, di revocare la cittadinanza per motivi politici, dal momento che i reati da cui scaturirebbe tale provvedimento, a ben vedere, sarebbero reati di natura politica, visto che si tratterebbe di fattispecie incriminatrici volte a tutelare il bene giuridico della personalità dello Stato da condotte mosse da motivi ideologici o politici.

Infine, secondo il meccanismo della norma interposta, si potrebbe configurare una violazione degli artt. 10 co. 2, e 117 Cost., in base al fatto che l’art. 14 violerebbe gli impegni assunti dall’Italia mediante la Convenzione ONU sulla riduzione dei casi di apolidia, adottata a New York il 30 agosto 1961 e ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge n. 162/2015. Non solo, cioè, il condannato a cui viene applicata anche la sanzione della revoca della cittadinanza, nell’ipotesi in cui non avesse la possibilità di acquisirne un’altra, sarebbe spinto verso una condizione di apolidia[24], ma si innescherebbe anche un corto circuito politico-costituzionale, dal momento che la condizione di apolide rende impossibile l’espulsione verso un altro Stato, con la conseguenza che un soggetto che abbia compiuto gravissimi reati contro lo Stato continuerà comunque a risiedere in Italia, seppur in un “cono d’ombra”[25].

L’aspetto sicuramente più innovativo del nuovo decreto è tuttavia l’abolizione, ad opera dell’art. 1 dello stesso, del permesso di soggiorno per protezione umanitaria, che poteva essere rilasciato nelle ipotesi in cui ricorressero seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali, qualora il soggetto non avesse i requisiti per accedere alla protezione internazionale, secondo quanto stabilito dall’art. 5 co. 6 del d.lgs. n. 286/1998. Dopo il recepimento delle direttive europee riguardanti la protezione sussidiaria e quella umanitaria, la giurisprudenza di legittimità era giunta a ritenere che l’art. 10 co. 3 Cost. fosse stato definitivamente attuato attraverso questo sistema, affermando “il diritto d’asilo è oggi interamente attuato e regolato, attraverso la previsione di situazioni finali previste nei tre istituti di protezione ad opera della esaustiva normativa di cui al d.lgs. 251/2007 (adottato in attuazione della direttiva 83/2004/CE) e dell’art. 5 co. 6 del T.U. approvato con d. lgs. 286/1998, sì ché non si scorge alcun margine di residuale diretta applicazione della norma costituzionale[26] e arrivando alla conclusione che la protezione umanitaria costituisse “una delle forme di attuazione dell’asilo costituzionale, proprio in virtù del carattere aperto e non integralmente tipizzabile delle condizioni per il suo riconoscimento, coerentemente con la configurazione ampia del diritto d’asilo contenuto nella norma costituzionale[27].

Secondo parte della dottrina[28], l’eliminazione di un tassello importante di questo disegno attuativo del diritto d’asilo comporterebbe dunque l’abrogazione di una legge costituzionalmente obbligatoria, la quale può essere modificata, ma non abrogata, pena la cancellazione della tutela precedentemente concessa, con conseguente violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituisce strumento[29].

L’abrogazione dell’art. 5 co. 6 T.U. d.lgs. n. 286/1998 ha inoltre posto problemi di legittimità costituzionale in riferimento ai “seri motivi risultanti da obblighi costituzionali e internazionali” connessi alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, con conseguente violazione degli artt. 2, 10 co. 3 e 117 Cost. (in quest’ultimo caso per il mancato rispetto del principio di non refoulement di cui l’art. 33 della Convenzione di Ginevra, dell’art. 3 CEDU e dell’art. 11 del Patto dei Diritti Civili e Politici).

Tuttavia, una seconda linea di pensiero[30], volta ad un’interpretazione costituzionalmente orientata del d.l. n. 113/2018, ritiene che esso non precluda la possibilità di riconoscere un permesso umanitario per motivi derivanti da obblighi costituzionali o internazionali, dal momento che la vincolatività di tali fonti non può derivare da un loro riconoscimento ad opera di una fonte ad esse subordinata: un conto sono le esigenze di carattere umanitario degli stranieri, che, essendo ancorate ad obblighi costituzionali o internazionali, non sono legislativamente disponibili, un conto sono gli strumenti legislativi che si pongono a tutela di quelle esigenze. Di conseguenza, secondo questo filone dottrinale, il Decreto Salvini non avrebbe effettuato una predeterminazione o una tipizzazione, ma soltanto una esemplificazione di fattispecie ermeneuticamente aperte. Si tratterebbe, insomma, di un’”abrogazione apparente”. Per di più, sembra opportuno ricordare come la protezione umanitaria non sia prevista da alcuna fonte internazionale; il suo carattere aperto e flessibile, inoltre, se da un lato le permetteva di porsi come strumento volto a colmare le lacune del sistema di protezione internazionale, dall’altro la esponeva ad interpretazioni al limite dell’arbitrarietà da parte delle varie Commissioni territoriali competenti ad occuparsi della domanda.

  1. Conclusioni

È chiaro che il provvedimento normativo appena commentato abbia affrontato il fenomeno migratorio in un’ottica prevalentemente securitaria, a riprova delle preoccupazioni del legislatore – non solo italiano, basti pensare al fenomeno della cd. Brexit – nei confronti del sistema di Welfare nazionale, messo a dura prova dal fatto che l’Italia, per la sua posizione geografica, sia posizione di sbarco privilegiato per i migranti soccorsi in mare. Tuttavia, al di là delle riflessioni strettamente e squisitamente giuridiche che possano essere svolte su un provvedimento normativo così controverso, è importante che l’espulsione venga considerata per quello che è, cioè una soluzione temporanea ed emergenziale, espressione del potere di sovranità di cui lo Stato gode sul proprio territorio, ma pur sempre mitigato da considerazioni di natura umanitaria legate al rispetto dei diritti umani. Ed è proprio dal presupposto che l’espulsione sia uno strumento da utilizzare come extrema ratio che potrebbe essere affrontata la situazione di emergenza migratoria vissuta da alcuni Stati, focalizzando l’attenzione sulla necessità di un intervento congiunto dell’intera comunità internazionale, da attuare con il coinvolgimento di Stati anche non direttamente interessati dalle rotte migratorie, mediante, ad esempio, la stipula di accordi di redistribuzione dei migranti.

A livello europeo, infatti, una risposta in tal senso è stata la Dichiarazione di Malta stipulata il 23 settembre del 2019, che sancisce un nuovo accordo di redistribuzione dei migranti tra Italia, Malta, Francia e Germania, nell’ottica di una revisione del Regolamento di Dublino. Si tratta di un meccanismo di ricollocamento automatico dei migranti che arrivano in Italia e a Malta dopo essere stati soccorsi in mare presso i Paesi che aderiscono all’accordo. Il punto critico di tale meccanismo risiede nel fatto che esso interesserebbe solo i migranti soccorsi in mare e arrivati sulle coste italiane a bordo di navi militari o di navi delle ONG, cioè circa il 9% di quelli che arrivano via mare in Italia. L’accordo, inoltre, è stato sottoposto al Consiglio dell’Unione Europea l’8 ottobre 2019, ma in tale sede solo tre Stati hanno dato la loro disponibilità: Irlanda, Lussemburgo e Portogallo. Nell’attesa di una maggiore cooperazione degli altri Paesi europei, l’accordo è stato applicato nel caso dello sbarco, tra il 24 e il 26 novembre del 2019, di 213 persone a Messina e 62 a Taranto, ricollocate poi in Germania, Francia, Portogallo, Spagna e Irlanda.

Concludendo, potrebbe essere fondamentale, affinché vengano effettuati degli interventi normativi oculati, cambiare la percezione stessa del fenomeno migratorio, il quale non può più essere considerato come un aspetto estemporaneo ed eccezionale della storia umana, in quanto divenuto fattore strutturale della società odierna; basti pensare alla connessione registrata in Italia negli anni tra le trasformazioni sociali e le varie politiche migratorie attuate dal legislatore.

Sarebbe allora forse opportuno abbandonare l’idea di poter costringere un fenomeno così dirompente all’interno di rigidi schemi normativi, optando piuttosto per interventi ispirati alla flessibilità e alla sperimentazione che esso, per la sua stessa natura multiforme, richiede. In altri termini, sarebbe utile cambiare finalmente la prospettiva di approccio alla questione e, come efficacemente affermato in dottrina, “piuttosto che concludere, aprire il discorso sull’immigrazione”[31].

 

[1] Si veda B. Nascimbene, Diritto degli stranieri, Milano, 2015.

[2] Con queste parole E. Gramaglia, La schizofrenia dell’accoglienza, in Paginauno n.8 (giugno-settembre), sezione Dura Lex.

[3] Si veda C. Corsi, Profili di illegittimità costituzionale, in F. Curi (a cura di), Il Decreto Salvini. Immigrazione e sicurezza, Pisa, 2019.

[4] http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/documentazione/statistica/cruscotto-statistico-giornaliero.

[5] Corte cost., sent. n. 186, 09/07/2020.

[6] Corte cost., sent. n. 32, 12/02/2014.

[7] Si veda M. Ruotolo, Il decreto sicurezza e immigrazione alla prova dei vizi formali, in G. Santoro (a cura di), I profili di illegittimità costituzionale del Decreto Salvini, 21, https://cild.eu/wp-content/uploads/2019/05/E-book-Salvini_-Export_V11.pdf.

[8] Corte Cost., sent. n. 22, 13/02/2012.

[9] Con queste parole C.F. Ferrajoli, L’abuso della questione di fiducia. Una proposta di razionalizzazione, in Diritto pubblico, 2008.

[10] Si veda M. Ruotolo, I vizi formali attinenti al procedimento di conversione in legge del decreto sicurezza e immigrazione, in G. Santoro (a cura di), I profili di illegittimità costituzionale del Decreto Salvini, 34, https://cild.eu/wp-content/uploads/2019/05/E-book-Salvini_-Export_V11.pdf.

[11] In questo senso I. Lolli, Decreti-legge e disegni di legge: il Governo e la “sua” maggioranza, in Osservatoriosullefonti.it, fasc. 3/2016, 39 ss.

[12] Si veda G. Pistorio, Maxi-emendamento e questione di fiducia. Contributo allo studio di una prassi illegittima, Napoli, 2018, 142.

[13] Si veda G. Santoro (a cura di), I profili di illegittimità costituzionale del Decreto Salvini, https://cild.eu/wp-content/uploads/2019/05/E-book-Salvini_-Export_V11.pdf.

[14] Come accennato precedentemente: si veda supra, par. 2.

[15] Corte cost., sent. n. 186, 09/07/2020.

[16] Ibidem.

[17]La cittadinanza italiana acquisita ai sensi degli articoli 4, comma 2, 5 e 9, è revocata in caso di condanna definitiva per i reati previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), n. 4, del codice di procedura penale, nonché per i reati di cui agli articoli 270 ter e 270 quinquies del Codice penale. La revoca della cittadinanza è adottata, entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati di cui al primo periodo, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministero dell’Interno”.

[18] C. Melzi D’Eril, G. E. Vigevani, Perché il decreto sicurezza «frantuma» il concetto di cittadinanza, in Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2018.

[19] S. Curreri, Prime considerazioni sui profili d’incostituzionalità del decreto legge n. 113/2018 (c.d. “decreto sicurezza”), in Federalismi.it, n. 22/2018, 13.

[20] Corte cost., sent. n. 249, 08/07/2010.

[21] Così C. cost., ordinanza n. 490/1988.

[22] Con queste parole, C. Melzi D’Eril, G. E. Vigevani, Perché il decreto sicurezza «frantuma» il concetto di cittadinanza, in Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2018.

[23] In questo senso, C. Melzi D’Eril, G. E. Vigevani, Perché il decreto sicurezza «frantuma» il concetto di cittadinanza, in Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2018.

[24] Si veda A. Mitrotti, Il rovesciamento di prospettiva sulla misura di revoca della cittadinanza nel “dibattuto” Decreto sicurezza “Salvini”, in Osservatorio costituzionale, nn. 1-2/2019, 73.

[25] Così E. Xhanari, T. Spandrio, Brevi considerazioni sui profili problematici delle nuove disposizioni normative di cui al D.L. 113/2018, in Diritti Fondamentali.it, n. 2/2018.

[26] Corte di cass., sez. VI, ord. n. 10686/2012.

[27] Corte di cass., sent. n. 4455, 23/02/2018; dello stesso avviso, P. Bonetti, Il diritto d’asilo in Italia dopo l’attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche e sugli status di rifugiato e di protezione sussidiaria, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. 2, 2010.

[28] Si veda C. Corsi, Profili di illegittimità costituzionale, in F. Curi (a cura di), Il Decreto Salvini. Immigrazione e sicurezza, Pisa, 2019.

[29] Corte cost., sent. n. 49, 07/02//2000.

[30] In questo senso P. Bonetti, Il dito e la luna. La protezione delle esigenze di carattere umanitario degli stranieri prima e dopo il decreto Salvini, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n. 1/2019, 15-20.

[31] Con queste parole G. Azzariti, Piuttosto che concludere, aprire il discorso sull’immigrazione, in F. Angelini, M. Benvenuti, A. Schillaci, (a cura di), Le nuove frontiere del diritto dell’immigrazione: integrazione, diritti, sicurezza, Napoli, 2011, 405 ss.

 

Lascia un commento