La proprietà industriale e i diritti del lavoratore “inventore”
La proprietà industriale e i diritti del lavoratore “inventore”
A cura di Assuntina Avallone, Benedetta Barlottini, Maria Rosaria Chiedi e Giulia Costa partecipanti dell’Executive Master in Avvocato di Affari e dell’Executive Master in Giurista d’Impresa
Ai sensi dell’art. 1 del Codice della Proprietà Industriale (D. Lgs. 30/2005), “la proprietà industriale comprende marchi e altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazione di origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti a semi conduttori, informazioni aziendali riservate, e nuove varietà vegetali…”.
In buona sostanza, con l’espressione “Proprietà Industriale” ci si riferisce in generale a quell’insieme di norme che disciplinano i diritti sopra menzionati. Tale termine rimanda al mondo dell’industria, richiamando un diritto che è inerente alla vita dell’impresa. Il diritto industriale, infatti, rappresenta uno degli strumenti fondamentali che l’imprenditore deve utilizzare al fine di salvaguardare ed aumentare le quote di mercato da lui conquistate.
I diritti attribuiti dai titoli di proprietà industriale, infatti, concedono alle imprese una sorta di monopolio di sfruttamento e utilizzo delle loro creazioni/invenzioni da parte di terzi, senza la preventiva autorizzazione da parte del legittimo proprietario. La proprietà industriale nasce, quindi, per offrire a tutte quelle aziende un diritto di esclusiva sui propri beni immateriali (il c.d. asset intangibile d’impresa).
Ma cosa succede quando la creazione/invenzione è il frutto dell’opera e dell’attività posta in essere dal lavoratore subordinato?
Il Codice della proprietà industriale, agli artt. 64 e 65 prevede una specifica disciplina che si occupa delle invenzioni del dipendente, finalizzata essenzialmente a soddisfare l’esigenza di fondo di contemperare due interessi contrapposti: da un lato, l’interesse del lavoratore che ha creato un’opera o realizzato un’invenzione ad esserne riconosciuto autore sotto il profilo morale e a trarne vantaggio sotto il profilo patrimoniale – come è previsto in generale per ogni autore e inventore – e, dall’altro, l’interesse del datore di lavoro, nel cui contesto aziendale l’opera o l’invenzione sono maturate, a trarne profitto economico, così come normalmente avviene per qualsiasi risultato del lavoro dei suoi dipendenti.
A questa contrapposizione di interessi corrisponde l’astratta operatività di regole confliggenti tra loro: la disciplina generale sulle opere dell’ingegno, destinata ad attribuire tutti i diritti, morali e patrimoniali, all’inventore, cioè al lavoratore, da un lato; e il principio secondo cui l’imprenditore acquista, direttamente, i risultati del lavoro del dipendente, senza necessità di alcun atto di trasferimento, come effetto naturale del contratto di lavoro subordinato, il quale viene considerato una componente della più ampia organizzazione aziendale creata e gestita dall’imprenditore – e di cui questi sopporta costi e rischi – che trova il suo corrispettivo nella retribuzione che l’imprenditore corrisponde al dipendente medesimo.
Le soluzioni al problema del contemperamento di tali interessi offerte dal diritto vanno analizzate separatamente.
- Invenzione di servizio e invenzioni di azienda
Quando il risultato inventivo è stato realizzato dal dipendente “nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o d’impiego, in cui l’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o dello specifico rapporto ed è a tal scopo retribuita”, questo deve qualificarsi come invenzione di servizio, fattispecie disciplinata dall’art. 64, comma del Codice della Proprietà industriale. In tal caso, i diritti di sfruttamento economico apparterranno al datore di lavoro, quale corrispettivo degli investimenti effettuati e del rischio economico sopportato, mentre il dipendente-inventore avrà diritto ad essere riconosciuto come autore dell’opera.
L’articolo 64, comma 2 C.P.I. disciplina poi l’invenzione d’azienda, ovvero le invenzioni realizzate sempre nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro, per le quali non viene però prevista alcuna retribuzione per l’attività inventiva realizzata. Anche in tale ipotesi, i diritti nascenti dall’invenzione appartengono al datore di lavoro che, qualora ottenga il brevetto o utilizzi quanto creato dal dipendente, deve riconoscere a quest’ultimo un equo premio, fatti sempre salvi i diritti morali. In cosa consiste l’equo premio? E’ il giusto accordo tra il diritto del lavoratore a vedersi riconosciuto il proprio apporto all’invenzione ed il diritto del datore di lavoro ad acquisire i risultati di un impegno organizzativo ed economico[1]. Ai fini di una corretta determinazione del premio, è bene tenere in considerazione l’importanza dell’invenzione, le mansioni ricoperte dall’inventore, la retribuzione percepita dallo stesso e l’effettivo contributo organizzativo che l’inventore ha ricevuto dal datore di lavoro[2].
L’art. 64, commi 4 e 5 C.P.I. prevede, inoltre, che, la competenza relativa all’accertamento della sussistenza del diritto al pagamento dell’equo premio, ricada in capo al giudice ordinario. Qualora dinanzi a quest’ultimo non si riesca a giungere ad un compromesso, interviene un collegio arbitrale composto da tre membri. Gli arbitri vengono nominati rispettivamente dalle parti e uno di comune accordo, in caso di dissonanza viene direttamente nominato dal Presidente della sezione specializzata del Tribunale competente ove il prestatore d’opera esercita abitualmente le sue mansioni.
È bene altresì sottolineare che, affinché il datore di lavoro possa godere di tutti i diritti derivanti dall’invenzione, come sopra precisato, lo stesso dovrà proporre domanda di brevetto, o fare pieno utilizzo dell’invenzione in regime di segretezza industriale, nell’esecuzione o adempimento di un contratto o rapporto di lavoro e comunque entro e non oltre un anno qualora l’inventore lasci l’azienda.
Particolare rilevanza assume la questione della distinzione tra le due fattispecie sopra esaminate, soprattutto in ragione delle diverse conseguenze economiche previste dal legislatore per il dipendente-inventore[3]. Sul punto è sorto un vivace dibattito, da cui sono scaturiti nel tempo diversi orientamenti ricostruttivi, che hanno dato rilievo a differenti elementi caratteristici della fattispecie. Secondo un’elaborazione più risalente[4], l’invenzione del dipendente è da qualificarsi “di servizio”, quando l’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto[5]. Tuttavia, nella giurisprudenza più recente, accanto a impostazioni che danno rilievo alla previsione nel contratto di un adeguato compenso concordato preventivamente[6], si è fatta strada un’impostazione più sostanzialistica, che assegna valore preminente alla pattuizione contrattuale nel suo insieme e alla volontà delle parti[7].
- Le invenzioni occasionali
Alle invenzioni di servizio e d’azienda si affiancano, quale terzo e ultimo caso di invenzioni dei dipendenti, le invenzioni occasionali (c.d. libere) disciplinate dall’art.64 comma 3 C. P. I..
Affinché le scoperte tecniche e scientifiche brevettabili, realizzate dai dipendenti, possano essere ricondotte in quest’ultima categoria, il legislatore, al comma 3 richiede la non sussistenza dei requisiti previsti dai commi 1 e 2 dell’art.64 e che l’invenzione industriale rientri nel campo di attività del datore di lavoro.
L’invenzione occasionale, quindi, secondo il dettato normativo, può essere considerata una categoria residuale configurabile solamente nelle ipotesi in cui il lavoratore la realizzi al di fuori del rapporto di lavoro o di impiego, ossia in assenza di qualsiasi nesso causale con la propria attività lavorativa e che, nel contempo, abbia ad oggetto tecniche rientranti nell’attività normalmente svolta dall’impresa presso la quale presta servizio[8]. È quindi richiesta una coincidenza meramente temporale tra il momento della realizzazione dell’invenzione e l’attività di impresa: infatti la creazione della stessa può avvenire anche al di fuori dell’orario di lavoro[9].
Con l’invenzione occasionale, ritorna ad operare la regola generale secondo la quale il diritto al brevetto è in capo all’inventore. Tuttavia, trovandosi in costanza di rapporto di lavoro, nel momento in cui è stata realizzata la stessa, il comma 3, concede al datore di lavoro un diritto d’opzione per l’uso (e non di prelazione), esclusivo o non esclusivo dell’invenzione, per l’acquisto del brevetto oppure per la facoltà, relativa alla medesima invenzione, di acquistare brevetti esteri[10]. Questo diritto è esercitabile a discrezione del datore di lavoro in un lasso di tempo di tre mesi dalla data di ricevimento della comunicazione dell’avvenuto deposito del brevetto. Se, entro tale termine, il datore di lavoro manifesta la propria volontà di trarne profitto, può sottoscrive una dichiarazione negoziale recettizia contenente, quali indicazioni, l’oggetto e il corrispettivo offerto. In caso di accettazione, il lavoratore avrà diritto ad un corrispettivo, consistente in un canone fissato oppure nel prezzo “da fissarsi con deduzione di una somma corrispondente agli aiuti – necessari – per pervenire all’invenzione”. A tale scopo, quindi, non si può considerare sufficiente l’uso di fatto dell’invenzione del datore di lavoro, poiché il diritto di opzione deve essere esercitato in modo chiaro ed espresso[11].
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[1] Cass. civ. sez. lav., 06 novembre 2000, n. 14439.
[2] Sistema Frizzera, Equo premio, IlSole24ore
[3] W. Falco, Le invenzioni del dipendente: un dibattito ancora aperto, in www.toffolettodeluca.it, 9 ottobre 2020.
[4] C. Galli, Problemi in tema di invenzioni dei dipendenti, in Riv. dir. ind., parte 1, 1997, 22; L.C. Ubertazzi, I profili soggettivi del brevetto, Giuffrè, Milano, 1985, 15.
[5] M. Martone, Invenzioni del lavoratore, in P. Lambertucci (a cura di), Diritto del lavoro. Dizionari del Diritto Privato promossi da Natalino Irti, Milano, 2010, 232.
[6] Cass. civ., sez. lav., 19 luglio 2003, n.11305.
[7]Cass. civ., sez. lav., 6 maggio 2014, n. 14371; Trib. Bologna, 16 agosto 2016.
[8] G. Casaburi, Osservazioni a Tribunale di Torino 9 gennaio 2013, in Foro it., 2013, I, 2331.
[9] Trib. Milano, n.282 del 14 gennaio 2019.
[10] Cass. civ., sez. lavoro, 18 marzo 2015, n. 5424.
[11] Cass. civ., sez. I, 10 settembre 2014, n.19009.