domenica, Ottobre 6, 2024
Litigation & Arbitration

La prova della simulazione nell’ambito dei rapporti patrimoniali tra coniugi

Il tema della simulazione assume interessanti aspetti di carattere pratico riguardo alla prova della vicenda simulatoria posta in essere dalle parti, in quanto risulta necessario individuare se il soggetto che ha proposto l’azione di simulazione, possa essere qualificato come parte o terzo rispetto al contratto simulato, affinché si possa applicare o meno l’aggravio probatorio previsto ai sensi dell’art 1417 c.c. che stabilisce: “La prova per testimoni della simulazione è ammissibile senza limiti, se la domanda è proposta da creditori o da terzi e, qualora sia diretta a far valere l’illiceità del contratto dissimulato, anche se è proposta dalle parti”.

È questa una norma immutata fino ad oggi, nel suo tenore letterale, dall’originaria codificazione del 1942, e che trova il suo antecedente storico nell’art. 1319 c.c. del 1865, che pur non disciplinando in maniera specifica la simulazione in generale, regolava la prova del contratto simulato, stabilendo che: “le controdichiarazioni fatte per privata scrittura non posso che aver effetto tra le parti contraenti ed i loro successori a titolo universale”. Già nella vigenza del codice abrogato tale regola poteva ben essere ricostruita in maniera del tutto armonica con il diritto comune in materia di prova del contratto, poiché l’art. 1341 c.c. del 1865 poneva un chiaro limite di ammissibilità alla prova per testi, stabilendo, non a caso che non poteva essere fornita prova testimoniale di accordi contrari o aggiuntivi rispetto a quanto risultante da atti scritti.

Il regime della prova, varia sensibilmente a seconda del soggetto che intende far valere la simulazione: esso assume connotazioni rigide od elastiche rispettivamente quando l’iniziativa sia promossa dai simulanti ovvero dai terzi o dai creditori.

Le parti normalmente offrono la prova dell’accordo simulatorio a mezzo di una controdichiarazione o contro-scrittura che, nel caso della simulazione relativa, può anche assumere le vesti dello stesso negozio dissimulato. Essa è generalmente qualificata dalla giurisprudenza di legittimità come dichiarazione di scienza, avente una funzione di accertamento dell’esistenza del patto simulatorio. La stessa può provenire da ambedue le parti ovvero anche da una soltanto di esse, a condizione, tuttavia, che riporti la sottoscrizione di ambedue i contraenti, ovvero di quello contro cui la stessa è fatta valere; oltre che essere precedente, coeva o successiva all’atto simulato, anche se in ogni caso occorre che si dia la prova della preesistenza, contestualità ed attualità dell’intento simulatorio.

Nel caso in cui una contro-scrittura non esista, perché non predisposta dai contraenti ovvero perché altrimenti inidonea ai fini probatori, come nel caso della controdichiarazione sottoscritta dal solo simulante beneficiario dei suoi effetti, sarà data ai simulanti possibilità di avvalersi di altri mezzi di prova, nei limiti di quanto previsto dalle regole generali dettate in tema di prova dei contratti.

In definitiva, in presenza di una controdichiarazione scritta, la parti possono provare la simulazione con la mera allegazione della controdichiarazione dove è indicato il carattere simulato del contratto apparentemente concluso e ciò che in realtà intendono realizzare. In assenza di controdichiarazione scritta, si applica l’art 2722 c.c., regolante la prova dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per cui le parti non sono ammesse a provare per testimoni patti aggiunti o contrari al documento contenente il contratto simulato, ad eccezione del caso in cui le parti provino l’illeceità del contratto dissimulato. In quest’ultimo caso le parti sono libere di provare la simulazione tramite testi e presunzioni (semplici).

La prova dell’accordo simulatorio, infatti, altro non rappresenta se non la prova di un patto contrario al contenuto del documento da cui risulta il negozio simulato quindi, opereranno i normali limiti che ineriscono alla prova dei contratti, sia in relazione alla prova testimoniale (art. 2721 ss. c.c.) che alle presunzioni semplice (art. 2729 c.c.).

La ratio del differente regime probatorio valevole per la parti ed i terzi riposa sul principio di vicinanza della prova, in quanto secondo l’id quod plerumque accidit, la contro scrittura e quindi il documento che consacra l’intesa simulatoria, è nella disponibilità delle parti e non dei soggetti estranei alla vicenda simulatoria, ossia i terzi. Sarebbe quindi del tutto incoerente ammettere questi ultimi a fornire la dimostrazione della simulazione ed imporre, però, una prova impossibile.

Il sovraccarico probatorio attiene principalmente a quella che è un’esigenza di tutela nei confronti di terzi, che confidando “in buona fede” nella situazione di apparenza possano aver compiuto atti di acquisto di diritti da parte del titolare apparente. Per terzo s’intende colui che non solo non è parte formale, né tanto meno sostanziale dell’accordo simulatorio.

Quindi in virtù dell’apparentia iuris su cui hanno fatto affidamento e sulla base del principio di buona fede, il Legislatore detta una disciplina in base alla quale la simulazione rileva verso i terzi (compreso i creditori), non essendo questi partecipi dell’atto simulato,  come mero fatto giuridico: perciò i terzi e i creditori possono avvalersi di tutti i mezzi di prova. La prova della simulazione può dunque esser data anche per testimoni, senza limiti, e per presunzioni. Qualora la domanda di simulazione sia proposta da terzi che, estranei al contratto, non sono in grado di procurarsi la prova scritta, la prova per testi e per presunzioni della simulazione non subisce alcun limiti.

Il coinvolgimento di soggetti diversi dalle parti richiede quindi una loro attenta individuazione, in quanto, come sottolineato da autorevole dottrina (Ricciuto): “la giurisprudenza è chiara nel ritenere che per se il codice legittima i terzi a far valere la simulazione del contratto rispetto alle parti quando essa pregiudica i loro diritti non consente, peraltro, di ravvisare un interesse indistinto e generalizzato di qualsiasi terzo ad ottener il ripristino della situazione reale, essendo per converso la relativa legittimazione indissolubilmente legata al pregiudizio di un diritto conseguente la simulazione”.

La rilevanza processuale del fenomeno simulatorio in tema di prova, è riscontrabile anche, e soprattutto, in tema di regime patrimoniale dei coniugi, definito da autorevole dottrina come “il regime delle spettanze e dei poteri spettanti ai coniugi in ordine agli acquisti ed alla gestione dei beni da part degli stessi (Bianca)”.

Il legislatore individua due diversi regimi: da un lato la comunione legata disciplinata ai sensi dell’art. 177 e ss. c.c., che a seguito della riforma del diritto di famiglia del 1975 (legge n. 151) rappresenta il regime ordinario e si applica nel caso in cui le parti non hanno disposto diversamente; dall’altro il regime di separazione dei beni ex art. 215 e ss. c.c., scelto dalle parti all’atto di celebrazione del matrimonio (art. 162 c.c.) o con atto pubblico (c.d. convenzione matrimoniale).

Il discrimen tra i due diversi regime si sostanzia nel fatto che mentre nella comunione legale le parti sono contitolari e co-gestori degli acquisti compiuti, in regime di separazione dei beni le parti saranno titolari e gestori esclusivi dei beni che acquisteranno a qualsivoglia titolo (art. 215 c.c.).

Quindi tutti gli acquisti compiuti dai due coniugi in regime “ordinario” ricadranno in comunione, ad eccezione di quelli relativi ai beni personali ex art. 177 co. 1 lett a) c.c., comportando un incremento patrimoniali comune da assicurare l’equi-ordinazione economica, oltre che morale dei coniugi.

Ciò che qui interessa, in relazione al fenomeno simulatorio, è stabilire quale sia la posizione giuridica del coniuge che sia estraneo alla vicenda simulatoria concernente l’acquisto di un bene mobile o immobile.

Infatti, se uno dei coniugi, in regime di comunione, stipuli con un terzo un accordo interpositorio al fine di acquistare un bene mobile o immobile, per sottrarlo alla “caduta” comunione, l’acquisto solo apparentemente potrà dirsi sottratto al regime di comunione. Eppure per decretarne la caduta in comunione dovrà essere provata la simulazione in giudizio.

La giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in merito con sentenza 1737/2013 con cui ha affermato che: “il coniuge in regime di comunione legale ed estraneo all’accordo simulatorio è legittimato, in quanto terzo pregiudicato a far valere e a provare senza limitazioni probatorie la simulazione”.

Il caso di specie aveva ad oggetto, appunto, una simulazione soggettiva relativa (interposizione fittizia di persona), tramite la quale un soggetto (interponente) allo scopo di dissimulare la sua qualifica di effettivo acquirente, frapponeva un terzo nel contratto di compravendita stipulato con l’alienante. La moglie dell’interponente, al fine di determinare la “caduta” in comunione del bene acquistato, vantava un interesse ad ottenere l’accertamento giudiziale della qualifica di acquirente effettivo in capo al coniuge. La ricorrente denunciava la violazione degli artt. 11 c.c., 1415, co. 2 e 1417 c.c., deducendo che doveva essere considerata terza pregiudicata rispetto alla vicenda simulatoria in quanto, appunto estranea all’accordo simulatorio, ed in quanto terza, quindi, non le poteva essere precluso il diritto di provare liberamente e senza limiti il predetto accordo tra interponente e terzo.

Il giudice della nomofilachia, ha accolto il ricorso della ricorrente, affermando che in quanto soggetto terzo rispetto alla vicenda simulatoria poteva provare la simulazione senza limiti di sorta, quindi ex art. 1417 sia tramite testi che presunzioni; sopratutto in considerazione del fatto che la simulazione, avendo impoverito il patrimonio della comunione legale, le aveva cagionato un pregiudizio, spogliandola sia del diritto ex art. 177 co. 1 lett a) c.c., che di quelli derivanti dall comproprietà del bene ex art 180 c.c. in relazione, all’amministrazione dello stesso.

 

 

 

 

 

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