venerdì, Aprile 19, 2024
Litigo Ergo Sum

La prova documentale tra illegalità e verità processuale

La categoria della prova documentale è disciplinata dal legislatore agli articoli 234-243 c.p.p. Ben vero, queste norme raggruppano tipologie di documenti molto eterogenee, cementate tuttavia da un denominatore comune: l’essersi formate al di fuori dell’ambito processuale. Tra le norme di cui si discute, particolare attenzione desta l’articolo 240, il quale disciplina una duplice tipologia di documenti: il documento anonimo ed il documento «illegalmente formato o acquisito».

Con riferimento al primo, il legislatore si è limitato a dichiararne la non acquisibilità ed utilizzabilità, facendo tuttavia salvi i casi in cui questi «costituiscano corpo del reato» o «provengano comunque dall’imputato». In proposito, autorevole dottrina ha dimostrato come il concetto di provenienza dall’imputato debba intendersi quale produzione in giudizio da parte dello stesso.

Per quanto riguarda invece il documento illegalmente formato o acquisito, la categoria della illegalità rappresenta invero una novità all’interno dell’impianto codicistico, essendo quest’ultimo estraneo a qualsivoglia riferimento sul punto. Per tale ragione, la dottrina si è interrogata sulla portata di tale richiamo e ne ha ricercato la soluzione riferendolo alla illiceità. Ciò consentirebbe dunque di ricollegare l’immediata secretazione e la custodia in luogo protetto del documento alla situazione di contrasto con una norma giuridica. Contrasto riconducibile all’esigenza di impedire che si formi una prova (documentale) in violazione delle disposizioni che regolano i modi e i tempi per l’ottenimento di «dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni relativi al traffico telefonico e telematico».

L’inutilizzabilità di una prova di tal fatta – nemmeno, sembrerebbe, come corpo del reato – è stata accolta con favore dai fautori della “teoria dei frutti dell’albero avvelenato”, per la quale il vizio nel momento formativo della prova genera una sua non-utilizzabilità, prescindendo dal valore posseduto dalla prova stessa. È innegabile tuttavia come la prevista conseguenza della distruzione del documento illegalmente formato o acquisito sia carente sotto più profili, soprattutto in presenza di prove in grado di scagionare l’imputato.

Alla luce delle considerazioni esposte, è bene tuttavia rammentare come l’odierno processo penale abbia ormai del tutto accantonato il mito della verità materiale, in favore della meno sfuggente verità processuale, più attenta alla tutela di valori costituzionalmente garantiti. In una nota sentenza del 1996, la Cassazione ha definito quest’ultima «la verità limitata, umanamente accertabile e umanamente accettabile, del caso concreto». Tale è quella rappresentata dall’insieme dei giudizi formulati seguendo le regole del diritto processuale. Il rispetto delle regole in questione infatti è finalizzato proprio al rispetto dei diritti: se le regole vengono violate, il risultato non potrà concorrere a formare la verità processuale. Per tale ragione, è da considerare prova “buona” solamente quella rispettosa delle regole del gioco e regolarmente introdotta in giudizio. Ed il documento illegalmente formato o acquisito, da questo punto di vista, non può che essere prova cattiva.

 

Articolo a cura di: Andrea Amiranda

Andrea Amiranda

Andrea Amiranda è un Avvocato d'impresa specializzato in Risk & Compliance, con esperienza maturata in società strategiche ai sensi della normativa Golden Power. Dal 2020 è Responsabile dell'area Compliance di Ius in itinere. Contatti: andrea.amiranda@iusinitinere.it

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