venerdì, Marzo 29, 2024
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La prova scientifica e il caso Bossetti

Introduzione.

La tematica della prova scientifica, e di quella genetica nello specifico, è spesso il cuore di molti procedimenti penali. Il rapporto tra le scienze empiriche e l’investigazione giudiziaria, invero, è sempre più stretto in quanto si fa ampio uso di metodi e tecnologie scientifiche quando si tratta di accertare particolari fatti delittuosi[1]. L’attività svolta sulla scena del crimine, difatti, assolve una funzione fondamentale, così come le analisi degli elementi ivi trovati. In accordo a questo, il sistema si muove cercando, da un lato di far fronte alle esigenze di urgenza che tali attività richiedono e, dall’altro, di consentire il pieno rispetto delle garanzie difensive.

Ed è proprio questo secondo punto di equilibrio che è mancato nel caso relativo alla condanna, ormai definitiva, di Massimo Giuseppe Bossetti. In merito, deve brevemente ricordarsi che egli è stato condannato in primo e secondo grado. A tale condanna è, poi, seguita la conferma della Corte di Cassazione, nonché la dichiarazione di inammissibilità del ricorso avverso la sentenza che lo condanna all’ergastolo, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Orbene, posto questo, sul punto è importante evidenziare che, il 13 gennaio 2021, la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio le ordinanze con cui la Corte d’Assise di Bergamo aveva dichiarato inammissibile la richiesta, formulata dalla difesa, di accesso ai reperti delle indagini. Si è, così, aperta la possibilità di analizzare 98 reperti (tra cui gli indumenti della vittima) e 54 campioni di DNA. Se, poi, da tale analisi si dovessero rinvenire nuovi elementi in grado di dimostrare che, in realtà, Bossetti doveva essere prosciolto, allora si potrebbe chiedere la revisione della sentenza di condanna, emessa in precedenza[2].

Al centro dell’eventuale processo di revisione si porrebbe, peraltro, proprio quella prova genetica su cui si basa l’intero incartamento processuale e che era stata definita dalla Corte d’Assise di Bergamo quale prova granitica[3] e non bisognevole di ulteriori elementi circostanziali, in quanto “di per sé sufficiente, anche in via autonoma, a fondare il giudizio di colpevolezza”[4].

Quello di Bossetti è un caso estremamente complesso che impone di porre l’attenzione su alcuni aspetti. Anzitutto, grazie all’analisi delle sentenze di primo e secondo grado, è possibile ricavare alcuni elementi importanti relativi all’ambito della criminalistica e, quindi, alla ricerca e alla analisi di segni particolari che hanno condotto all’indagato.

Successivamente, occorre dare atto del fatto che è stata riconosciuta un’importanza dirimente alla prova scientifica, e segnatamente a quella genetica, che però, come si vedrà, non è priva di incertezze relativamente alla sua validità.

A ciò deve aggiungersi che, sulla prova genetica, non si era formato il contraddittorio tra le parti, nonostante la richiesta di perizia relativa al DNA fosse stata avanzata dalla difesa sin dall’udienza preliminare.

Prima di procedere con l’approfondimento delle suddette questioni, occorre fare un’ulteriore considerazione relativa al rapporto tra investigazione scientifica e l’esito del processo.

Da più studiosi è stato rilevato, ormai da tempo, il pericolo del c.d. CSI effect. Tale definizione nasce da uno studio condotto dal National Institute of Justice e con essa si è inteso indicare il condizionamento, effettuato dai media e da alcune trasmissioni televisive, sull’opinione pubblica circa la capacità degli scienziati/investigatori di risolvere ogni crimine. Questo effetto si è radicato così tanto nella società che ne sono rimasti affascinati anche gli operatori del diritto. In questo modo, si assiste ad una costante pretesa di avere la prova scientifica. Essa diventa indispensabile, ma può diventare un’arma a doppio taglio sia per i giudici, che potrebbero essere indotti ad appiattire la propria decisione ad essa, sia per del Pubblico Ministero che, affascinato dai risultati, potrebbe focalizzarsi unicamente su questa perdendo di vista le altre possibili piste investigative[5].

Opposto al fenomeno sopra citato, si richiama il contro effetto CSI in base al quale in alcuni processi, americani, la giuria non accetta la prova scientifica al fine di evitare un condizionamento[6].

Rispetto a quanto è stato appena scritto, occorre però notare come affidare la soluzione dei casi alla sola scienza o estrometterla completamente dal processo sono soluzioni estreme che determinano una possibilità di errore maggiore rispetto ad un uso sensato di tutti gli strumenti che l’attuale momento storico fornisce all’uomo, senza dimenticare i metodi tradizionali.

È d’obbligo porsi l’interrogativo relativamente al se anche il caso in esame sia stato condizionato dall’effetto CSI.

Le indagini: dall’esame autoptico all’indagato.

Alla scomparsa della tredicenne Yara Gambirasio seguono delle lunghe ricerche che terminano dopo tre mesi con il ritrovamento del corpo in mezzo ad un campo incolto di Chignolo d’Isola. Il cadavere della ragazza era rimasto esposto agli agenti atmosferici e all’intervento di animali, sia sugli indumenti sia nei tessuti molli (ciò era comprovato dal rinvenimento di feci di topo e peli di animali).

Per quanto riguarda lo stato degli indumenti, dalla vita in su gli stessi erano ben conservati, mentre nella parte bassa del busto i pantaloni erano lacerati e gli slip tagliati[7]. Piccole intaccature erano presenti: sui polsi del giubbotto, allacciato fino a metà torace con la cerniera; sui margini inferiori della felpa (interpretati come dovute ad arma da taglio) e sull’attaccatura del cappuccio. C’erano, inoltre, diverse lesioni, dovute all’intervento di animali, sulla maglietta che comunque aveva dei piccoli tagli nella parte inferiore. I pantaloni presentavano dei tagli sui fianchi e sulla parte anteriore della coscia. Le mutandine erano tagliate sul lato destro[8].

Dall’esame esterno del cadavere, invece, si evidenziava che la mano sinistra era coperta dal polso del giubbotto, quella destra era chiusa a pugno e conteneva elementi erbosi e presentava l’intervento di roditori. La caviglia destra era avvolta da arbusti. Il viso, il capo, l’arto inferiore destro e a tratti la gamba sinistra erano ampiamente scheletrizzati. La regione pelvica e gli arti inferiori erano caratterizzati da corificazione cutanea. Il tronco e gli arti superiori presentavano una estesa epidermolisi. Si riscontrava, quindi, una certa differenza tra il busto, meglio conservato, e il capo e gli arti inferiori. I visceri erano ancora abbastanza conservati, mentre il cervello era colliquato[9].

Sono, poi, apparse ben evidenti molteplici lesioni da taglio e una da punta e da taglio, che i consulenti hanno ritenuto essere vitali[10]. Le lesioni si riconducevano all’utilizzo di un’arma bianca e si riscontravano: al collo, ai due polsi, in regione mammaria sinistra, lungo tutto il torace; sul dorso si rilevava una sagoma ad X e sul gluteo una a J. Due linee di continuo sovrapposte di circa quattro centimetri erano presenti sulla gamba destra[11].

Si ipotizzava che i colpi al capo[12] subiti dalla vittima (sulla regione nucale e sul versante sinistro e destro del volto) non fossero idonei autonomamente a cagionarne la morte, ma che potessero aver determinato uno stato di incoscienza,[13] anche perché mancavano delle lesioni da difesa. Secondo l’accusa, al decesso avrebbero contribuito diversi elementi: la situazione di debolezza di chi ha subito diverse lesioni sul corpo, la contusione alla testa e il freddo[14]. Stando a quanto sostenuto dai consulenti del Pubblico Ministero, Yara Gambirasio avrebbe subito gran parte dell’aggressione nel campo ed, in questo, la stessa sarebbe stata lasciata morire. La Corte abbracciava tale ipotesi: si escludeva che la stessa potesse essere stata uccisa in un altro posto e trasportata, in un secondo momento, nel campo di Chignolo d’Isola, come sosteneva la difesa. Questo veniva dedotto anche sulla base delle indagini botaniche[15], oltre a quelle entomologiche[16] e geologiche[17].

Per quanto riguarda lo studio delle lesioni, esaminate mediante microscopio elettronico a scansione, si evidenziava una diffusa presenza di polveri ricche di calcio e sferette metalliche. I R.I.S. esaminavano i dieci tamponi subunguenali, quattro tamponi genitali, due tamponi anali e quattro tamponi orali, senza ottenere risultati soddisfacenti[18].

Anche gli indumenti venivano sottoposti ad analisi. Sugli slip si eseguivano complessivamente cinquantadue prelievi, su sedici dei quali è stato rinvenuto il profilo genotipico maschile denominato “Ignoto 1”. Sui leggings venivano eseguite dodici campionature, due delle quali restituivano proprio il profilo di “Ignoto 1[19]. L’estrapolazione di quel profilo genetico portava alla svolta nelle indagini. Questo, infatti, veniva ritenuto determinante poiché era collocato in una posizione ritenuta ben più significativa rispetto al punto in cui erano stati trovati altri profili.

Veniva, così, fatta una ricerca a tappeto per identificare il soggetto cui apparteneva quella traccia biologica. Il risultato dell’indagine ha portato a Massimo Giuseppe Bossetti. Per questa ragione, il 16 giugno 2014 egli veniva sottoposto a fermo, poiché indiziato per l’omicidio di Yara Gambirasio. Dopo il fermo, gli inquirenti controllavano i tabulati telefonici, espletavano accertamenti videofotografici, venivano identificate e sentite diverse persone e si procedeva con le intercettazioni dei colloqui in carcere con i familiari. Oltre a questo, venivano analizzati i veicoli e i materiali sequestrati all’esito delle perquisizioni personali e domiciliari. In particolare, si esaminavano i dispositivi elettronici in uso all’imputato e si effettuavano gli accertamenti volti verificare se le fibre e le sferette metalliche rinvenute sul cadavere fossero derivate da un contatto tra la vittima e l’indagato. Venivano anche ricercate tracce biologiche e/o formazioni pilifere di Yara[20].

Occorre notare che, secondo la difesa, quelli che emergevano da queste indagini erano elementi deboli. Il quadro probatorio, invero, si basava esclusivamente sulla traccia biologica, la quale però presentava delle problematiche. Prima fra tutte, il fatto che del Bossetti venisse rinvenuto solo il DNA nucleare[21] e non anche quello mitocondriale[22]. Altro problema evidenziato dalla difesa era che in alcuni campioni veniva riscontrato un DNA mitocondriale non appartenente né alla vittima né all’indagato.

Il ruolo della prova scientifica, in particolare quella genetica.

Prima di comprendere che cosa si intenda per prova scientifica, occorre fare alcune preliminari considerazioni di carattere generale.

All’inizio di qualsivoglia processo, il fatto storico è incerto: da un lato l’accusa e dall’altro la difesa sostengono tesi differenti che abbisognano di essere dimostrate mediante prove. La prova dell’una piuttosto che dell’altra prospettiva riveste un ruolo fondamentale, in quanto induce il giudice al convincimento che un fatto sia stato determinato da un evento piuttosto che da un altro. In ogni caso, l’accertamento deve essere logico e, quindi, basato su principi razionali e attendibilità di colui che rende le dichiarazioni. Lo stesso, inoltre, deve essere in linea con i risultati di altre prove[23].

Ebbene, tra i mezzi di prova previsti dal codice di procedura penale occorre, in questa sede, soffermarsi sulla perizia e sulla consulenza tecnica di parte (di cui agli artt. 220 e ss. c.p.p.) che servono ad integrare le conoscenze del giudice con quelle di un esperto. Grazie a queste, viene introdotta la c.d. prova scientifica.

La prova scientifica viene definita dal Tonini quale “prova che, partendo da un fatto dimostrato, utilizza una legge scientifica per accertare l’esistenza di un ulteriore fatto da provare”. La legge scientifica altro non è se non “quella legge che esprime una relazione certa o statisticamente significativa tra due fatti della natura”[24].

Come in precedenza evidenziato, tale prova ha acquisito nel tempo un fascino sempre maggiore.

Non ci si può, però, esimere dal ricordare che la prova del DNA – quale prova scientifica –  ha dei limiti: essa non dimostra la colpevolezza di un soggetto, in quanto la genetica forense ha il compito di individuare un soggetto ma, nel fare questo, non può dare alcuna notizia circa il come e il quando quella traccia sia stata lasciata. Queste informazioni devono essere rintracciate attraverso altre prove o indizi gravi, precisi e concordanti. Se questi indizi mancano, si deve riconoscere il ragionevole dubbio circa l’effettiva commissione del reato da parte di quel soggetto[25]. Nel caso di Massimo Giuseppe Bossetti, egli veniva condannato senza avere la possibilità di verificare le risultanze derivanti dall’esame del DNA, cui le Corti hanno dato valenza di prova, pur presentando anomalie e contraddizioni che inevitabilmente avrebbero dovuto renderla discutibile.

Brevemente, occorre ricordare le problematiche che, secondo la difesa, ruotavano attorno alla prova genetica: c’era la questione, che lo stesso PM in requisitoria aveva definito irrisolta, del DNA mitocondriale appartenente a soggetto diverso dall’imputato; erano stati impiegati kit scaduti da mesi, ritenuti utilizzabili grazie ad una procedura di validazione che, però, non è mai stata prodotta in giudizio; mancava la validazione di riscontro nei controlli positivi e negativi per ogni esame; c’era la presenza di un allele sovrannumerario, liquidato come “artefatto” (però un solo allele differente significa altra persona); infine, si evidenziava una incredibile “lievitazione” dei quantitativi nei campioni passati di mano in mano (possibile per aggiunta di materiale o sostituzione di provette). Si poneva, dunque, il dubbio di un inquinamento dei campioni[26].

Rispetto a quanto appena esposto, occorre chiedersi se le Corti non abbiano subito il sopra descritto CSI effect, il quale porta inevitabilmente ad una decisione di condanna poiché la prova scientifica assurge a prova regina. Il dubbio è avvalorato dal fatto che non si è mai consentito alla difesa l’esame su quei campioni: durante il processo la difesa ha avuto solo l’accesso ai dati grezzi delle analisi genetiche, ma non ha mai potuto esaminare in modo diretto, con i propri consulenti, il materiale raccolto. Prima del recente annullamento con rinvio delle ordinanze della Corte d’Assise di Bergamo, effettuato dalla Suprema Corte, infatti, l’istanza della difesa, volta ad una perizia, è sempre stata ritenuta ultronea.

Il rilievo critico sollevato si innesta nel più ampio dibattito dottrinario inerente al rapporto tra prova scientifica e processo penale: tra chi afferma il primato del diritto e chi vuole affidarsi ai contributi della scienza. La prova scientifica non va considerata una prova sui generis rispetto alla categoria tradizionale delle prove penali. La stessa, però, è certamente dotata di alto valore tecnico, dovendo richiedere l’intervento di un esperto, ed è altamente affidabile in quanto basata su legge scientifica[27].

Occorre ricordarsi, però, che anche la scienza è fallibile. Le S.U. con la sentenza Franzese del 2002[28] hanno preso coscienza della fallibilità delle conoscenze scientifiche, ammettendone un impiego processuale solo se sono sottoposte al contraddittorio tra gli esperti. Con particolare riferimento all’indagine genetica, la Suprema Corte le ha riconosciuto, proprio per il grado di affidabilità, la piena valenza di prova e non di mero elemento indiziario ex art. 192, c. 2, c.p.p., evidenziando però che sono necessari risultati certi, altrimenti la stessa assumerà comunque valenza indiziaria[29].

A ciò si aggiunga che il tema della prova scientifica non si esaurisce in ambito processuale, ma riguarda anche le garanzie della sua formazione. È nelle indagini che viene generata la prova a contenuto scientifico, mentre nel dibattimento si effettua il contraddittorio dove C.T. e periti forniscono valutazioni su un risultato ottenuto, spesso, a seguito di un’attività irripetibile.

Relativamente a tale tematica è fondamentale la pronuncia della Corte di Cassazione sul caso relativo all’omicidio di Meredith Kercher. In quel caso, i togati affermavano che il dato scientifico non può automaticamente entrare nel processo e trasformarsi in verità processuale, ma esso deve essere soggetto a verifica per poter diventare certo, proprio perché è caratteristica della prova scientifica quella di dover essere verificata. “Un dato non verificato, proprio perché privo dei necessari connotati della precisione e gravità, non può conseguire, in ambito processuale, neppure a valenza di indizio”[30]. Gli ermellini sostengono questo ricordando che l’art. 192, c. 2, c.p.p. prevede quali sono i connotati che un elemento processuale deve possedere per assurgere a elemento indiziario: la gravità, la precisione, la concordanza. La giurisprudenza individua, inoltre, l’elemento della certezza che è intrinsecamente legato agli altri elementi e ne rappresenta la base. La certezza non va intesa in senso assoluto, ma è quella che si forma nel processo. Se l’analisi genetica è svolta in violazione dei protocolli, però, manca la certezza.

I protocolli sono dei documenti che stabiliscono degli standard scientifici per la regolazione dell’attività di repertazione e conservazione del campione. Sono regole di esperienza consacrate a livello internazionale che consentono, se rispettate, di conservare l’integrità e la genuinità delle tracce e quindi, come rilevato dalla Corte, l’affidabilità delle risultanze derivanti dall’analisi. È bene evidenziare che i protocolli operativi non sono regole giuridiche, non hanno valore giuridico e questo potrebbe far ritenere che il loro mancato utilizzo non abbia rilievo in termini di utilizzabilità o nullità[31]. Non è, però, così e per questo è determinante la giurisprudenza e, in particolare quanto emerge dalla decisione relativa al delitto di Perugia, in cui si è affermato che l’errore del giudice a quo, nel processo a carico di Raffaele Sollecito e Amanda Knox, risiedeva nell’aver assegnato valore di indizio a risultanze che non avevano certezza.

Tale impostazione viene ripresa dalla difesa di Massimo Giuseppe Bossetti, che, come in precedenza ricordato, evidenziava sia la violazione dei protocolli (e quindi la non affidabilità del dato scientifico, perché non era suscettivo di nuovo esame) sia il mancato contraddittorio[32].

Prova scientifica e considerazione finali.

Come visto, le sentenze di primo e secondo grado hanno ritenuto dirimenti i risultati degli esami svolti dall’accusa e non hanno mai accolto quello che sosteneva la difesa. La Corte di Cassazione si era già pronunciata nel 2018 stabilendo che “gli esiti delle indagini tecnico-scientifiche eseguite sul DNA hanno dignità di piena prova, e non di mero elemento indiziario e pertanto, sulla loro base può essere affermata la responsabilità dell’imputato, sempre che la traccia genetica sia stata rinvenuta in una posizione specifica, che sia tale da escludere una contaminazione casuale del mezzo di prova”[33]. La pronuncia aveva, così, attribuito valenza di piena prova al risultato dell’esame sul DNA, dando ampia rilevanza alla posizione specifica nella quale la traccia genetica è stata rinvenuta.

A questo punto non possono non farsi delle considerazioni in merito ad alcune regole generali che, comunque, devono sempre tenersi a mente per non cadere in futuro nell’equivoco: trovato il DNA, trovato il colpevole.

La traccia genetica era rinvenuta sugli slip e sui leggings e, da questo, elemento si deduceva la prova di un’aggressione. Come sopra ricordato, però, la prova genetica non ha il compito di definire l’epoca e le modalità di deposito.  Provare l’aggressione, in un caso come questo, peraltro risulta ancora più difficile, in quanto non è certa la natura della stessa traccia biologica. Sebbene la ricerca della emoglobina abbia dato esiti positivi, non può non tenersi in considerazione, infatti, che la stessa fosse mischiata ai liquidi putrefattivi della vittima.

In realtà l’unico significato che si può dare a questo riscontro è quello di un eventuale contatto. Non può, però, non tenersi conto del fatto che potrebbe esservi stato un trasferimento secondario o addirittura terziario del materiale genetico. È vero, infatti, che vale il principio di interscambio[34], che non è una regola assoluta ma una filosofia, ma non bisogna mai dimenticarsi che l’intercambiabilità dipende da più fattori e, tra questi, ve n’è uno che potrebbe alterare i risultati: la contaminazione, la quale, su una scena del crimine, è sempre potenzialmente presente. Normalmente le tracce vengono trasferite in modo diretto, però è ben possibile che il trasferimento possa avvenire anche in modo indiretto o mediato. La sola individuazione della traccia, dunque, non può essere sufficiente a dimostrare un contatto diretto. In sintesi, è bene non escludere a priori la possibilità di una trasmissione secondaria, sebbene tale eventualità sia più bassa[35].

È proprio questa l’insidia del CSI effect, cioè quella di attribuire alla prova scientifica un significato maggiore di quello che ha e di non considerare che potrebbero essere svariate le ragioni per le quali una traccia si trova in un punto. È, inoltre, potenzialmente rischiosa l’affermazione che se la traccia si trova in uno specifico punto, allora può escludersi a priori la contaminazione casuale.

Conclusivamente, occorre sempre ricordare che l’esito dell’accertamento del laboratorio deve essere supportato da elementi circostanziali e attività investigative.

Non solo, ma occorre il contraddittorio tra le parti, il rispetto dell’art. 111 Cost.. Le risultanze scientifiche, quindi, per essere caratterizzate dall’affidabilità, devono poter essere confutate dalla controparte.

Il metodo scientifico impone che, dinnanzi ad un dubbio, si approfondisca. Per tale ragione, è importante il recente annullamento delle ordinanze della Corte d’Assise di Bergamo.

Fonte dell’immagine: www.pixabay.com

[1] D. Curtotti, L. Saravo, Manuale delle investigazioni sulla scena del crimine – Norme, tecniche, scienze, edizione 2013, p. XXIII.

[2] La revisione, disciplinata dagli artt. 629 ss. c.p.p., è un mezzo di impugnazione straordinario che ha ad oggetto le sentenze di condanna passate in giudicato. Per un maggior approfondimento sul punto si veda: https://www.diritto.it/la-revisione-del-processo-penale/.

[3] Corte di Assise di Bergamo, n. 1, 01 luglio 2016 (dep.27 settembre 2016), p. 133.

[4] Corte di Assise di Bergamo, n. 1, 01 luglio 2016 (dep.27 settembre 2016), p. 141.

[5] D. Curtotti, L. Saravo, Manuale delle investigazioni, cit., p. 411.

[6] D. Curtotti, Indagini sulla scena del crimine ed acquisizione dei dati probatori. Protocolli operativi ed utilizzabilità della prova: i profili processuali, in AA. VV., L’assassinio di Meredith Kercher. Anatomia del processo di Perugia, a cura di M. Montagna, edizione 2012, pp. 75 ss..

[7] Corte di Assise di Bergamo, n. 1, 01 luglio 2016 (dep.27 settembre 2016), p. 31.

[8] Ibidem.

[9] Corte di Assise di Bergamo, n. 1, cit., pp. 31-32.

[10] Consulenza medico-legale dei professori Cattaneo e Tajana in Corte di Assise di Bergamo n. 1, 01 luglio 2016 (dep. 27 settembre), 2016, pp. 35-37.

[11] Corte di Assise di Bergamo, n. 1, cit., p.31.

[12] Corte di Assise di Bergamo, n. 1, cit., pp. 35-37.

[13] Corte di Assise di Bergamo, n. 1, cit., pp. 35-37.

[14] Corte di Assise di Bergamo, n. 1, cit., p. 34.

[15] Corte di Assise di Bergamo, n. 1, cit., pp. 40-41.

[16] Corte di Assise di Bergamo, n. 1, cit., pp. 41-42.

[17] Corte di Assise di Bergamo, n. 1, cit., p.42.

[18] Corte di Assise di Bergamo, n. 1, cit., p. 64.

[19] Pagg. 252-269 della relazione del RIS in Corte di Assise di Bergamo n. 1, cit., pp. 64-65.

[20] Corte di Assise di Bergamo n. 1, cit., pp.61-63.

[21] Il DNA nucleare si trova nelle cellule eucariote e contiene i geni di entrambi i genitori ed è, però, unico per ogni persona e, quindi, è il solo che fornisce un’identificazione certa della persona.

[22] Il DNA mitocondriale si trova nei mitocondri e contiene solo i geni della madre e quindi non permette di identificare con certezza un soggetto.

[23] P. Tonini, Manuale di procedura penale, edizione 2016, p. 167.

[24] Ivi, p. 242.

[25] S. Bella Giustizia, un consulente pro ignoto per garantire la difesa. Il DNA è zero, Massimo Bossetti va assolto, settembre 2017, articolo pubblicato su “ildelitto.it”, disponibile qui: http://ildelitto.it/index.php/it/228-giustizia-consulente-pro-ignoto-per-garantire-la-difesa?fb_comment_id=1435388033182013_1435392626514887.

[26] Corte di Assise di Appello di Brescia, n. 16, 17 luglio 2017 (dep. 13 ottobre 2017), p. 86.

[27] D. Curtotti, L. Saravo Manuale delle investigazioni, cit., pp.7-8.

[28] Cass. Sezioni Unite, n. 30328, 11 settembre 2002.

[29] Cass. Pen., Sez. II, n. 8434, 2013, Mariller Rv 255257.

[30] Cass. Pen., Sez. V, n. 36080, 27 marzo 2015, pp. 29-39.

[31] D. Curtotti, L. Saravo, Manuale delle investigazioni, cit., pp. 135-143.

[32] Corte di Assise di Appello di Brescia n. 16, cit., pp. 113-114.

[33] Cass. Pen., Sez. I, 12 ottobre 2018 (dep. 23 novembre 2018), n. 52872.

[34] Il principio di interscambio è descritto da Edmond Locard “every contact leaves a trace”.

[35] D. Curtotti, L. Saravo, Manuale delle investigazioni, cit., pp. 416-418.

Maria Luisa Canale

Maria Luisa Canale, dott.ssa in giurisprudenza, abilitata alla professione forense ed esperta in scienze forensi. Si laurea il 28 marzo 2014 in giurisprudenza presso l'ateneo LUMSA di Roma con una tesi in diritto processuale penale dal titolo Il trattamento penitenziario dello "straniero". Con tale lavoro l'11 novembre 2015 vince il Premio di Laurea indetto dal Comune di Milano in memoria di Luca Massari. Ha svolto la pratica forense presso il foro di Roma, in uno studio di diritto civile, ove ha imparato a scrivere gli atti e i pareri, a rapportarsi con clienti, avvocati e magistrati ed ha approfondito soprattutto il diritto di famiglia. Ha frequentato la Scuola di specializzazione per le professioni legali presso la LUMSA che le ha dato la possibilità di svolgere il tirocinio presso la Corte di Cassazione sez. II e VII penale. Qui si è occupata dell'esame delle sentenze di merito e dei ricorsi, della ricerca giurisprudenziale, dello studio dei casi sottoposti, della redazione di ordinanze di manifesta inammissibilità e ha partecipato alle udienze. Successivamente, si è iscritta al Master di II livello in Scienze forensi (Criminologia, Investigazione, Security e Intelligence) presso l'università La Sapienza di Roma. Ha concluso questo percorso il 17 febbraio 2018 con votazione 110/110 e la tesi dal titolo Le problematiche del diritto di difesa in un caso di omicidio - la previsione di una tutela a futura memoria. Il 23 novembre 2021 Maria Luisa si abilita alla professione forense. Collabora con l'area di Criminologia di Ius in itinere. Da febbraio 2022 lavora come Consulente assicurativo e finanziario presso Filiali di Direzione, Generali Italia.

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