giovedì, Marzo 28, 2024
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La querelle giurisprudenziale della Cassazione sullo sciopero articolato

      A cura di Giovanni Chemello

 

  1. Introduzione

Il diritto di sciopero, garantito dall’art. 40 della Costituzione, può essere esercitato in più forme: paradigmatico per massimizzazione dei costi imposti al datore e minimizzazione di quelli sopportati dai lavoratori, è il c.d. sciopero articolato. Esso si declina in due varianti principali, a seconda che la sua articolazione riguardi l’ambito spaziale o temporale. Si chiama “a singhiozzo” lo sciopero dato da un alternarsi di momenti di lavoro a momenti di astensione, i quali riguardano tutti i lavoratori, mentre si parla di sciopero “a scacchiera” laddove ad alternarsi nella prestazione lavorativa siano, di volta in volta, determinati gruppi o reparti.

Tali modalità di sciopero, di evidente dannosità per le esigenze aziendali, hanno destato a lungo perplessità, costantemente affrontate dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, il cui orientamento può essere suddiviso in tre fasi diverse.

  1. Prima fase

La prima, durata fino a metà anni ’70, è detta “dell’illiceità dello sciopero articolato”. La Cassazione offrì nel tempo, due tipi di argomentazioni per considerarlo tale: nella prima, riscontrabile in chiarissimi termini nella sentenza del 4 marzo 1952, n. 584, ha luogo una ricostruzione del concetto di sciopero ex art.40 Cost, fatta a tavolino allo scopo di escludere dal suo ambito concettuale lo stesso sciopero articolato (1). Per i giudici di legittimità fu possibile giungere a tale risultato attraverso un duplice iter: il primo, più semplice, consiste nella mera definizione di sciopero come “abbandono contestuale e continuo del lavoro”, quindi ne consegue che tale non possa essere un abbandono “alternato e intermittente”; nel secondo invece, si identifica la caratteristica peculiare dello sciopero legittimo nel fatto che esso sia “causativo di un danno giusto”, cioè limitato al lucro cessante – in altri termini, il datore subisce un danno giusto, per cui lo sciopero è legittimo, laddove venga meno l’utile estraibile dal lavoro non prestato a causa dello sciopero –. Qualora invece, lo sciopero avesse comportato anche un danno emergente, quale la disorganizzazione aziendale, allora sarebbe stato causativo di un danno ingiusto, e quindi illegittimo. (2)

La seconda argomentazione offerta dalla Cassazione per sancire l’illiceità dello sciopero, si rifà a norme di diritto comune che regolano i rapporti tra privati. Più recente rispetto al primo, questo modus interpretandi è quanto mai evidente nella sent. del 3 marzo 1967, n. 512. In essa le norme richiamate dalla Corte sono gli artt. 1175 e 1375 cod. civ., rispettivamente relativi al dovere di correttezza reciproca tra debitore e creditore e all’esecuzione in buona fede del contratto; nonché gli artt. 2094 e 2014 cod. civ., strettamente legati al rapporto di lavoro, il quale va svolto nel rispetto dei doveri specifici di collaborazione e diligenza. Nessuna di queste previsioni, secondo i giudici, verrebbe rispettata nello sciopero a singhiozzo né in quello a scacchiera. (3)

  1. Seconda fase

Dopo gli anni caldi di inizio decennio ’70, lo sciopero articolato, sempre più largamente diffuso, non poté che essere accettato, sia pur con forti riserve. In questa fase, la Corte di Cassazione adottò un approccio esegetico che, trasgredendo il suo orientamento iniziale, quindi trascurando il modo attuativo, si concentrò sul “rendimento del lavoro offerto dal personale attualmente non scioperante”. In particolare, il lavoro così reso disponibile non doveva essere soltanto “utilizzabile” ma, perché lo sciopero articolato fosse da considerarsi legittimo, anche “proficuo”, cioè “idoneo a conseguire per intero il risultato produttivo atteso, senza costi o oneri aggiuntivi per il datore, nonché potenzialmente redditizio”. Se invece il lavoro offerto ad intermittenza nello sciopero a singhiozzo, e ad alternanza in quello a scacchiera, non avesse rispettato questo requisito il datore avrebbe potuto rifiutarlo e non retribuirlo invocando l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ. (secondo le prime pronunce in tal senso), oppure il rifiuto giustificato della collaborazione all’adempimento, secondo l’orientamento divenuto prevalente. (4)

        4.Terza fase

La terza ed ultima fase, ha avvio con l’inizio degli anni ’80, ed in particolare con la sentenza n. 711 del 1980. In essa la Suprema Corte consacra la piena coincidenza tra il concetto legale di sciopero, quindi rientrante nell’alea dell’art. 40 Cost. e come tale considerato un diritto, con il concetto comune e corrente nel contesto sociale di sciopero, ossia “nulla più che un’astensione dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune”(5). Tale pronuncia fu considerata inizialmente uno spartiacque di enorme rilevanza per il definitivo riconoscimento di piena liceità allo sciopero articolato, salvo poi essere leggermente ridimensionata nel suo portato giuridico-politico.

Da un lato infatti, è indubbio che assumendo questa definizione di sciopero, vengono meno i limiti interni che prima erano dedotti dal modo o dall’effetto dannoso dell’astensione: perdono così rilievo quei requisiti di continuità e contestualità dell’abbandono del lavoro, nonché di necessaria causatività di un danno giusto (quindi circoscritto al lucro cessante), che nella prima fase avevano fatto optare la Corte per più di d’una pronuncia di illiceità.

Nondimeno, furono approfonditi dalla stessa giurisprudenza i limiti esterni. Fu infatti mantenuto il quello della proficuità ed utilizzabilità della prestazione ricevuta (cfr. seconda fase), ancorché interpretato in senso più rigido, per cui il suo rifiuto della stessa è giustificato solo in presenza di “assoluta ed obbiettiva inutilizzabilità” (6), e non più secondo quello più elastico del raggiungimento del risultato atteso e della sua redditività. Fu altresì coniato un nuovo limite esterno, quello della c.d. produttività aziendale, cioè la necessità di tutelare la sopravvivenza dell’impresa e la sua capacità di continuare a svolgere la propria iniziativa economica. Si tratta di un concetto piuttosto generico e suscettibile di un certo ampliamento, tale da delegittimare l’astensione dal lavoro non solo nei casi di effettivo e duraturo impedimento della produttività aziendale, ma anche per conseguenze più lievi, quali la temporanea diminuzione della competitività dell’impresa o della sua capacità finanziaria.

Per fortuna nella giurisprudenza meno risalente, finanche in quella odierna, non si è ancora concretizzato tale ampliamento. A conti fatti può quindi dirsi che l’area d’illiceità dello sciopero articolato sia stato di fatto ridotto, sia pur in modo meno efficace di quanto sperato. In ogni caso non può ancora dirsi del tutto sopita la querelle giurisprudenziale che dal ’48 a oggi è interessata a questa modalità di sciopero.

  1. Carinci, R. Tamajo , P. Tosi, T. Treu, Il diritto sindacale, 2020
  2. Civile, Sez. Lavoro, sentenza n. 584, 4 marzo 1952
  3. Civile, Sez. Lavoro, sentenza n. 512, 3 marzo 1967
  4. Civile, Sez. Lavoro, sentenza n. 2433, 7 aprile 1974 e sentt. Successive
  5. Civile, Sez. Lavoro, sentenza n.711, 30 gennaio 1980; seguita da Cass. Civile, Sez. Lavoro, sentenza n. 23552, 17 dicembre 2004; Trib. Roma, sentenza n. 827, 27 novembre 2007; Corte d’App. Firenze, 6 marzo 2009.
  6. Civile, Sez. Lavoro, sentenza n. 827, 1 settembre 1997

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