giovedì, Marzo 28, 2024
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La realtà oltre la vendita: il reselling e la customization

Recentemente, il brand di haute couture Chanel ha sollevato un interessante caso [1] davanti alla NY Federal Court, accusando il marchio di gioielleria Shiver + Duke dell’appropriazione del proprio brand attraverso la rielaborazione di bottoni originali della maison parigina. A prescindere dal caso specifico, tale fattispecie ha portato ad interrogarsi su due fenomeni di recente origine e di ampia diffusione, soprattutto tra i più giovani: stiamo parlando del reselling e del customing. Vediamo insieme di cosa si tratta e, soprattutto quali risvolti giuridici si nascondono dietro a tali pratiche.

Il fenomeno del reselling

Da alcuni anni, nel mondo della moda, ha preso piede un’attività chiamata reselling che consiste nell’acquistare modelli in tiratura limitata di un determinato prodotto con lo scopo di rivenderli, principalmente online (ma non solo), ad un prezzo maggiorato, come accadde a novembre 2020 con il “caso Lidl”.  La catena della grande distribuzione mise in vendita nei propri negozi delle scarpe da ginnastica della limitata collezione “Lidl Fan Collection” al prezzo di 13 euro e, dopo pochi giorni, le calzature erano già esaurite ovunque, spingendo gli acquirenti verso il reselling online [2]. Tale pratica, durante gli ultimi anni, è letteralmente esplosa nel settore delle sneakers, diffondendosi prevalentemente a partire dal 2020 e tuttora non accenna ad arrestarsi, come dimostrato dal report annuale “Current Culture Index” di StockX [3]. Ciò che porta ad una crescita esponenziale del reselling è, senza dubbio, la voglia di possedere dei pezzi rari e, spesso, unici, ma anche la possibilità di guadagni molto alti [4], poiché per un pezzo da collezione si arriva a pagare anche il quadruplo del prezzo originario. Di fatto ci troviamo di fronte ad un fenomeno che vede giovani ragazzi guadagnare diverse migliaia di euro attraverso la speculazione su prodotti ambiti e difficilmente reperibili in commercio. Tali adolescenti si appostano davanti ai negozi anche due o tre ore prima dell’apertura, per accaparrarsi gli ambitissimi pezzi a tiratura limitata. Altri reseller, sicuramente più esperti, sfruttano i ragazzi più giovani, chiamati “cavallini”, pagandoli una cifra irrisoria per appostarsi davanti ai punti vendita e comprare i prodotti al posto loro.

Tralasciando l’aspetto sociologico della questione, dal punto di vista giuridico, i diritti del titolare del marchio si esauriscono con la prima vendita, come indicato anche dal Codice della proprietà industriale che all’articolo 5 recita: “Le facoltà esclusive attribuite dal presente codice al titolare di un diritto di proprietà industriale si esauriscono una volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso”. Una volta immessi sul mercato i propri prodotti, il titolare del marchio non può opporsi alla loro ricommercializzazione da parte di terzi [5], poiché, in caso contrario, si andrebbe a limitare in modo eccessivo la libera concorrenza nel mercato. Di conseguenza, da questo punto di vista, non sorgono problemi rilevanti.

Customization, il caso Rolex vs La Californienne

Se per il reselling non esistono problemi a livello di titolarità dei diritti, così non è per il cosiddetto customizing, un’attività che prevede la rielaborazione del prodotto di partenza: in questo caso il marchio celebre viene combinato con altri elementi, potendo creare, per il potenziale acquirente [7], un rischio di confusione correlato all’identificazione della fonte. A differenza del reselling, nel caso della customization il prodotto è nuovo, autonomo e diverso rispetto a quello immesso sul mercato dal titolare del marchio e, di conseguenza, non da lui autorizzato. Il tribunale di Udine [8], per la prima volta, ha dichiarato illecito sotto il profilo penale [9] il fenomeno del customizing, in quanto considerato contraffazione di marchio altrui ex articolo 473 c.p.

Il caso aveva ad oggetto la produzione e la commercializzazione di spille ottenute assemblando bottoni raffiguranti marchi celebri. Alcuni di essi erano originali, mentre altri contraffatti. Secondo i giudici, l’assemblaggio dei bottoni generava un prodotto del tutto nuovo, il quale, pur essendo creato con alcune parti originali, tuttavia non era stato né prodotto, né autorizzato dal titolare del marchio celebre. Il tribunale proseguiva affermando che il customizing costituisce di fatto una pratica lesiva della fede pubblica, poiché il nuovo prodotto può generare confusione o ingannare i consumatori riguardo alla provenienza imprenditoriale dello stesso; infatti, nel caso di specie, l’elemento immediatamente percepibile era senza dubbio costituito dai bottoni raffiguranti il marchio noto. La sentenza è particolarmente importante, poiché compie un passo avanti, adattando l’articolo 473 c.p. ad una fattispecie illecita nuova, la quale non rientra ab origine nell’impianto normativo del testo.

Nonostante la customizzazione sia stata dichiarata illecita dalla giurisprudenza, bisogna tener presente un aspetto rilevante della questione, ovvero la sempre crescente domanda per i prodotti customizzati, la quale non è assolutamente da sottovalutare. A tale proposito è interessante accennare brevemente al caso statunitense Rolex / La Californienne, definito con un accordo [10]. La Californienne vendeva Rolex personalizzati in precedenza con cinturini colorati. Secondo Rolex l’alterazione dei propri prodotti, volta ad includere parti non originali, trasformava un orologio autentico in uno contraffatto e inoltre tale operazione “rende nulla la garanzia di Rolex [sui suoi orologi], in gran parte perché lo scambio di parti fa in modo che “Rolex non possa più garantire la qualità o le prestazioni di tali orologi[11] . L’azienda svizzera continuava affermando che gli orologi La Californienne non fossero né autorizzati né sponsorizzati da Rolex e che essi fossero addirittura contraffatti, perché alterati dalla sostituzione o dalla modifica di alcune parti non autorizzate dalla casa madre e non funzionassero più secondo gli stessi standard qualitativi degli orologi inalterati. Inoltre, basandosi sul fatto che alcuni clienti dei prodotti alterati avessero inviato gli stessi ad un rivenditore Rolex autorizzato per assistenza, Rolex affermava che La Californienne stesse effettivamente confondendo i consumatori e che tale confusione non fosse affatto dissipata “dalla stampa del nome degli imputati sul quadrante dei prodotti alterati, poiché gli orologi recano anche uno o più marchi registrati di Rolex”. Infine, oltre a confondere il consumatore, La Californienne intaccava deliberatamente l’immenso valore del brand Rolex e sfruttava la notorietà e la reputazione dello stesso, traendone vantaggio attraverso una pubblicità e una promozione volte a far credere che esistessero effettivamente delle autorizzazioni da parte del brand svizzero. Sulla base di tali circostanze, Rolex reclamava la violazione del marchio e la contraffazione dello stesso, nonché la falsa denominazione d’origine, chiedendo al tribunale americano un provvedimento ingiuntivo per impedire immediatamente e permanentemente a La Californienne di continuare a vendere i propri prodotti customizzati. La causa si è conclusa con un accordo che ha permesso a La Californienne di continuare a vendere i propri prodotti, evitandone però l’associazione al brand Rolex. Il giudice ha vietato poi a La Californienne l’utilizzo di qualsiasi condotta volta a creare confusione in relazione ai prodotti customizzati, lo sfruttamento del marchio “Rolex” in relazione ai prodotti alterati e la fornitura di servizi di garanzia o riparazione per qualsiasi orologio venduto in precedenza, qualora tali servizi violino i termini predisposti dall’accordo.

Questa vicenda si è conclusa di fatto a favore del brand svizzero, anche se con un accordo; ma quali sarebbero i risvolti giuridici se altre aziende, come ad esempio Nike, Adidas o Supreme si opponessero al fenomeno della customizzazione? Sicuramente tali brand potrebbero, come nel caso precedentemente analizzato, evidenziare un pregiudizio riguardante la loro reputazione, che dovrebbe senza dubbio essere valutato anche in relazione all’esaurimento dei diritti dell’azienda sul prodotto venduto. Ricordiamo poi che esiste un ulteriore aspetto, sottolineato dalla normativa italiana e, in particolar modo, dal secondo comma dell’articolo 5 c.p.i., ovvero quello dei motivi legittimi: se è vero che, una volta messo in commercio il bene, i diritti del titolare del marchio subiscono una limitazione, ciò non avviene nel momento in cui “il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio” e quindi proprio nel caso di customizzazione. In una situazione del genere, il bilanciamento degli interessi in questione risulterebbe senza dubbio complesso e non scontato.

[1] Chanel vs Shiver + Duke, case 1:21-cv-01277. Consultabile su: https://it.scribd.com/document/495486477/Chanel-v-Shiver-and-Duke .

[2] L. Maci, “Reselling, che cos’è e quali business sta generando la compravendita di sneakers”, in NetworkDigital360, 27 gennaio 2021. Consultabile su: https://www.economyup.it/innovazione/reselling-che-cose-e-quali-business-sta-generando-la-compravendita-di-sneakers/ .

[3] StockX è un sito fondato nel 2016 da Josh Luber e da Dan Gilbert, in cui è possibile comprare e vendere prodotti come se fossero azioni in borsa. Si tratta di fatto del primo mercato azionario di beni di consumo al mondo. La piattaforma è un po’ la testimonianza sia dell’andamento economico che delle tendenze del settore moda nella loro declinazione di rivendita. L. Pierattini, “Arriva in Italia StockX, il mercato per comprare (e vendere) sneaker come in Borsa”, in GQ Italia, 1 febbraio 2021. Consultabile su: https://www.gqitalia.it/tech-auto/article/reselling-italia-sneaker-borse-stockx .

[4] M. Casadei, “Sneakers, gli investitori puntano sui reseller: StockX incassa 110 milioni”, in Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2019. Consultabile su: https://www.ilsole24ore.com/art/sneaker-investitori-puntano-reseller-stockx-incassa-110-milioni-ACjz73U .

[5] Un negozio vintage, ad esempio, può lecitamente rivendere un prodotto acquistato da un privato, pur non essendo un rivenditore ufficiale del brand in questione.

[6] Ad esempio il servizio “Reseller sneakers serie limitate” di Striscia la Notizia del 15 ottobre 2018. Consultabile su: https://www.mediasetplay.mediaset.it/video/striscialanotizia/reseller-sneakers-serie-limitate_F309211901019C05 .

[7] Avv. G. Lombardi, “Il fenomeno del customizing”, in Diritto al Punto Podcast, 30 novembre 2020. Consultabile su: https://www.dirittoalpuntopodcast.com/post/il-fenomeno-del-customizing .

[8] Sentenza n. 1459 del 3 ottobre 2018. A. Carnobbio, “La giurisprudenza riconosce la rilevanza penale delle attività di “customizing” che sfruttano marchi altrui”, in Global Legal Chronicle Italia, 12 dicembre 2018.  https://www.globallegalchronicle.com/italia/la-giurisprudenza-riconosce-la-rilevanza-penale-delle-attivita-di-customizing-che-sfruttano-marchi-altrui/ .

[9] Sotto il profilo civile la giurisprudenza si è già consolidata in questo senso; ricordiamo ad esempio l’articolo 21 c.p.i., il quale al secondo comma vieta l’utilizzo di un marchio, nel caso in cui esso possa ingenerare un rischio di confusione sul mercato […] o da indurre in inganno il pubblico in particolare circa la natura, qualità o provenienza del prodotto, a causa del modo e del contesto in cui esso viene utilizzato.

[10] Consultabile su: https://storage.courtlistener.com/recap/gov.uscourts.cacd.764739/gov.uscourts.cacd.764739.30.1_1.pdf .

[11]Rolex calls foul on laCalifornienne and its colorful counterfeit watches”, in The Fashion Law, 18 novembre 2019. Consultabile su: https://www.thefashionlaw.com/rolex-calls-foul-on-lacalifornienne-and-its-colorful-counterfeit-watches/ .

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