La responsabilità civile degli arbitri.
Manifestazioni sempre più ricorrenti relative alla crisi della sovranità territoriale dello Stato e dell’assolutezza del suo potere normativo hanno messo in evidenza le inevitabili ripercussioni di tale crisi sull’esercizio della giurisdizione. In particolare si è avvertita la scissione dell’esercizio della giurisdizione e l’incrinarsi dell’esclusività di tale esercizio da parte dello Stato all’interno del quale l’attività giurisdizionale opera ed è destinata a produrre i suoi effetti.
In questa prospettiva si constata la progressiva “delocalizzazione della giurisdizione” dalla sovranità dello Stato attraverso varie modalità di espressione dell’esercizio dell’autonomia privata, essa si è gradualmente affermata nell’ordinamento italiano anche attraverso i vari interventi normativi che hanno rimodulato l’istituto dell’arbitrato previsto nell’originaria formulazione del codice di procedura civile. In questa logica non appare un mero fatto topografico, anche lo spostamento della disciplina complessiva dell’arbitrato all’interno del codice di rito, tant’è che Satta diceva: “il nuovo codice si chiude con l’arbitrato, col quale il vecchio si apriva”. Il dislocamento rifletteva il mutato atteggiamento spirituale del legislatore di fronte al travagliato istituto, come se con ciò egli lo avesse assunto agli onori della giurisdizione. Fisiologicamente con l’affermarsi della funzione giudiziale esercitata dagli arbitri si è sentita la necessità di costruire un assetto normativo idoneo a regolarne la responsabilità civile, affrontando il problema dell’esistenza per l’arbitro di un obbligo di ben giudicare.
L’art. 813 ter c.p.c., nella sua attuale formulazione, statuisce che: “Risponde dei danni cagionati alle parti l’arbitro che: 1) con dolo o colpa grave ha omesso o ritardato atti dovuti ed è stato perciò dichiarato decaduto, ovvero ha rinunciato all’incarico senza giustificato motivo; 2) con dolo o colpa grave ha omesso o impedito la pronuncia del lodo entro il termine fissato a norma degli articoli 820 o 826”. Dunque, la prima ipotesi di responsabilità enucleabile dal dettato della norma in esame evidenzierebbe le prestazioni strumentali, preliminari e prodromiche al perseguimento di un determinato risultato; la seconda, invece, farebbe riferimento esclusivamente all’esito dell’attività svolta dagli arbitri prescrivendo il raggiungimento del risultato medesimo. Con riferimento alla rinuncia all’incarico, si è stabilita l’inammissibilità del recesso ingiustificato, in quanto ciò impedirebbe di pevenire alla decisione della controversia. Si badi che la generica indicazione contenuta nella vigente norma ha indotto la dottrina ad esaminare le possibili ipotesi di rinuncia all’incarico, per verificare quali possano considerarsi legittime. A riguardo, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere giustificato motivo di rinuncia all’incarico il sopravvenire di situazioni che imporrebbero al giudice di astenersi o che comunque renderebbero legittima una richiesta di ricusazione promanante dalle parti, con l’ulteriore precisazione che tale situazione deve essersi verificata indipendentemente dalla volontà del soggetto. Altra ipotesi di legittima rinuncia è quella prevista dall’art. 816 sexies c.p.c., a norma del quale se una parte viene a mancare, gli arbitri possono assumere le misure idonee per consentire il rispetto del contraddittorio per la prosecuzione del giudizio; se nessuna delle parti ottempera alle disposizioni degli arbitri per la prosecuzione del giudizio, gli stessi possono rinunciare all’incarico. Ulteriore legittima rinuncia sussumibile dall’art. 816 sexies è la mancata corresponsione degli anticipi richiesti sia sulle spese che sui compensi. Parte della dottrina rietiene che rappresenti giustificato motivo di recesso, seppur con l’accordo di entrambe le parti, anche l’allargamento del thema decidendum. Si deve precisare, inoltre, che secondo le regole sulla distribuzione dell’onere della prova, nel corso di un potenziale giudizio promosso dalle parti contro l’arbitro che ha rinunciato all’incarico, grava sul giudice privato l’onere di provare la legittimità del suo contegno. I contorni degli obblighi gravanti sugli arbitri si chiariscono ulteriormente con l’esame degli articoli 820 e 821 c.p.c.: entrambe le norme sono destinate a precisare il termine entro il quale deve essere pronunciata la decisione della lite.
L’art. 820 conferma la natura non essenziale, disponibile del termine per la pronuncia del lodo, dal momento che stabilisce che il termine può essere prorogato non solo per volontà delle parti stesse, ma anche dall’autorità giudiziaria, dietro istanza motivata di una di esse o degli arbitri. L’art. 821 c.p.c. precisa il concetto di lodo, concetto sul quale parametrare l’adempimento del principale obbligo che grava sugli arbitri. Nonostante il tenore della disposizione sembra accogliere la soluzione per cui, entro il termine, sia sufficiente sottoscrivere il semplice dispositivo, tuttavia, dalla disciplina complessiva dell’arbitrato sembra potersi accogliere un concetto di lodo omogeo ed unitario, sicchè appare necessario confezionare un lodo completo, raggiungere un chiaro convincimento, che si traduca in una decisione adeguatamente motivata. Per amor di completezza bisogna, infine, sottolineare che la norma di cui all’art. 813 ter c.p.c. stabilisce che: “Fuori dai precedenti casi, gli arbitri rispondono esclusivamente per dolo o colpa grave entro i limiti previsti all’art. 2, commi 2 e 3, della l. 13 aprile 1988, n.117”. La norma rinvia alla disciplina relativa alla responsabilità dei magistrati e la ratio di tale scelta da parte del legislatore probabilmente risiede nell’esigenza di regolare in modo uniforme la responsabilità di chi svolge un’uguale funzione, quella di giudicare. Ora, bisogna segnalare che la norma oggetto del rinvio operato dal codice di rito circa la responsabilità civile dei magistrati nel febbraio del 2015 è stata novellata, con modifiche anche di non poco conto, per il tramite della l. n. 18 del 27 febbraio 2015. A riguardo giova precisare che secondo autorevole dottrina la responsabilità degli arbitri conosce un sistema alternativo e completo rispetto al quale si potrebbe finanche ritenere l’assoluta irrilevanza delle modifiche alla legge 117/1988. Dunque, escludendosi per ovvi motivi l’applicabilità della lettera d), in riferimento all’emissione di un provvedimento concernente la liberta personale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione, costituendo la motivazione lo specchio della giurisdizione di garanzia, se ne può dedurre che le uniche ipotesi contestabili a titolo di colpa grave sono la violazione di legge e l’errore di fatto revocatorio.
Infine, ex art. 813 ter c.p.c., l’azione di responsabilità nei confronti del giudice privato può essere proposta in pendenza del giudizio arbitrale solo nel caso previsto dal I comma, n. 1, in modo tale da evitare che l’azione de qua possa essere utilizzata per finalità distorte o strumentali, in grado di turbare la serenità di giudizio dell’arbitro. Se è stato pronunciato il lodo, l’azione di responsabilità può essere proposta solo dopo l’accoglimento dell’impugnazione con sentenza passata in giudicato e per i motivi per cui l’impugnazione è stata accolta. Per ciò che attiene alla misura del risarcimento, se la responsabilità non dipende dal dolo dell’arbitro, non può superare una somma pari al triplo del compenso convenuto o, in mancanza di determinazione convenzionale, pari al triplo del compenso previsto dalla tariffa applicabile.
Si conclude che ciascun arbitro risponde solo del fatto proprio e ciò, peraltro, appare coerente con la scelta di declinare la persona dell’arbitro al singolare nell’indicare le singole ipotesi di responsabilità.
La costituzione in collegio non dissolve gli obblighi dei singoli arbitri.
Elena Ficociello nasce a Benevento il 28 luglio del 1993. Dopo aver conseguito la maturità classica presso l’istituto “P. Giannone” si iscrive alla facoltà di giurisprudenza Federico II di Napoli. Si laurea il 13 luglio del 2017, discutendo una tesi in diritto processuale civile, relativa ad una recente modifica alla legge sulla responsabilità civile dello Stato-giudice, argomento delicato e problematico che le ha dato l’opportunità di concentrarsi sui limiti dello ius dicere. A tal proposito, ha partecipato all’incontro di studio organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura presso la Corte di Appello di Roma sul tema “La responsabilità civile dei magistrati”. Nell’estate del 2016, a Stasburgo, ha preso parte al master full time “Corso Robert Shuman” sulla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, accreditato dal Consiglio Nazionale Forense, convinta che un buon avvocato, oggi, non può ignorare gli spunti di riflessione che la giurisprudenza della Corte EDU ci offre.
Adora viaggiare e già dai primi anni di liceo ha partecipato a corsi di perfezionamento della lingua inglese, prima a Londra e poi a New York, con la Greenwich viaggi.
È molto felice di poter collaborare con Ius in itinere, è sicuramente una grande opportunità di crescita poter approfondire e scrivere di temi di diritto di recente interesse.
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