La responsabilità dei magistrati
La legge 117 del 1988 (nota anche Legge Vassalli), fu approvata a seguito del referendum n. 497/1987[1], quando gli italiani furono chiamati ad esprimersi in merito alla responsabilità dei magistrati.
La legge Vassalli si prefissava l’obiettivo di perseguire i fini fissati nel referendum, ma al contempo doveva garantire un’adeguata tutela e preservare l’indipendenza della magistratura. Al legislatore italiano fu attribuito l’ingrato compito di bilanciare gli interessi in gioco, e quindi di realizzare le esigenze del popolo italiano e di individuare una forma di responsabilità non eccessivamente gravosa per i magistrati.
L’intento non riuscì, difatti dalla pubblicazione della legge Vassalli derivò una profonda delusione per coloro i quali avevano confidato nel referendum dell’87, in quanto la legge prevedeva solamente una responsabilità “indiretta” dei giudici, per cui il privato leso poteva presentare apposita domanda di risarcimento unicamente avverso lo Stato.
Per tale ragione, la legge n. 117/88 fu causa di importanti dispute sorte in dottrina e in giurisprudenza, che denunciavano l’incongruità del contenuto legislativo dagli obiettivi del referendum, inoltre nel clima difficile che orbitava intorno alle legge in esame, si fece spazio la Corte di Giustizia Europea, la quale evidenziò come la legge Vassalli, non solo si “allontanava” dal referendum del’87, ma era risultava difforme anche rispetto all’ordinamento europeo.
Specificamente, la Corte di Giustizia dimostrò che la legge Vassalli violava gli obblighi derivanti dall’UE e non era conforme al diritto stesso, il quale escludeva qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di violazioni imputabili ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risultasse da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave.[2]
Di fronte all’inottemperanza dell’Italia per il mancato rispetto dei vincoli comunitari, si avviò una procedura di infrazione, che si concluse con una sanzione a carico dell’Italia per non aver rispetto gli obblighi derivanti dall’UE, oltre che una violazione dell’art. 117 Cost. il quale prevede che “la podestà legislativa è esercitata dallo Stato nei limiti dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”.
La Corte di Giustizia, in detta occasione, richiamando la sentenza Traghetti del mediterraneo [3] e sentenza Kobler[4], ha sottolineato che il diritto dell’Unione osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro interessato per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado, qualora tale violazione derivi da un’interpretazione di norme di diritto o da una valutazione di fatti e prove operate dall’organo giurisdizionale medesimo.
Dichiarando parimenti l’incompatibilità di una limitazione di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conduca ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata accertata una violazione manifesta del diritto vigente[5].
L’impatto della Corte di Giustizia ebbe delle ricadute importanti sulla legge Vassalli, la quale fu costellata da numerosi interventi normativi atti ad adeguare la disciplina della responsabilità dei magistrati al diritto europeo. Tra i vari tentativi proposti dal legislatore italiano, è d’obbligo menzionare la l. n. 18/2015 che pur innovando l’assetto processuale della legge Vassalli, conservò l’impostazione di una responsabilità solo “indiretta” dei magistrati.
La particolare forma di responsabilità “indiretta” creava un divario tra il privato leso e il giudice, difatti il cittadino poteva avanzare apposita domanda unicamente nei confronti dello Stato, quest’ultimo legittimato, successivamente, poteva esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato, autore del danno.
Le problematiche evidenziate riguardavano principalmente la palese limitazione della responsabilità dei magistrati (problematiche che avevano comportato il referendum dell’87) e che sembravano persistere anche con la nuova legge.
Il “rapporto trilaterale” venutosi a creare tra cittadino leso, magistrato e Stato, ha causato l’annoso dibattito sorto in dottrina, che evidenziava l’eccessiva protezione destinata al magistrato, che comportava la soppressione della tutela del privato, fatta salva unicamente nella disposizione dell’art. 13 c. 1 l. 117/88 che prevede che “chi ha subito un danno in conseguenza di un fatto costituente reato commesso dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni ha diritto al risarcimento nei confronti del magistrato e dello Stato”.
Tuttavia, proprio nell’intento di salvaguardare la tutela del privato danneggiato, la legge del 2015 si è fatta autrice di numerose novità: in particolare l’art. 2 ha ampliato il ventaglio delle ipotesi per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali; il legislatore ha, inoltre, ridisegnato le ipotesi per colpa grave previste dall’art. 2 c. 3, eliminando dal dettato normativo l’espressione “negligenza inescusabile”.
Giova inoltre evidenziare che a seguito delle continue spinte da parte della Corte di Giustizia, il legislatore del 2015 ha aggiunto il comma 3 bis all’art. 2 che disciplina che “fermo restando il giudizio di responsabilita’ contabile di cui al decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonche’ del diritto dell’Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonche’ dell’inescusabilita’ e della gravita’ dell’inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonche’ del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea”.
Sul punto occorre soffermarsi sulla disposizione di cui all’art. 267 TFUE che sembra chiara nel individuare un vero obbligo per il giudice di ultima istanza, laddove serbi dei dubbi in merito all’interpretazione di una norma europea, di adire la Corte di Giustizia, al fine di ottenere una delucidazione in merito, difatti nel dettato normativo di cui all’art. 267 TFUE, si rileva l’espressione “è tenuto”, interpretato nel senso di obbligo, discendendo da ciò una responsabilità nell’ipotesi di inottemperanza da parte dell’organo giurisdizionale.[6]
Diversamente la dottrina appare ancora divisa sulla configurabilità o meno di una responsabilità in capo al giudice non di ultima istanza, che non abbia rimesso la questione alla Corte di Giustizia.
Il problema si è posto poiché la norma in esame parla di obbligo unicamente in riferimento al giudice di ultima istanza e non anche rispetto ai giudici di primo e secondo grado, beneficiati da una mera facoltà di rimettere la questione dinanzi ai giudici europei. Nel testo normativo , infatti, il termine utilizzato in riferimento all’organo giurisidizonele è “può”, inteso come una possibilità, inoltre a corroborare questa “ facoltà” è la non defintività che caratterizza le decisioni dei predetti giudici, che ben potrebbero vedere ribaltare il contenuto della sentenza nei successivi gradi.
Sul punto però la giurisprudenza è ancora oscillante e pare non aver preso una decisione precisa in merito.
Fatta questa doverosa puntualizzazione e ritornando sul tema centrale della responsabilità dei magistrati, si è detto che la legge n. 18/2015 ha introdotto importanti novità, tra le quali si ricorda l’art. 3 che prevede come ulteriore ipotesi che configura la responsabilità dell’organo giurisdizionale il diniego di giustizia, che si sostanzia nel rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria. Se il termine non è previsto, debbono in ogni caso decorrere inutilmente trenta giorni dalla data del deposito in cancelleria dell’istanza volta ad ottenere il provvedimento.[7]
Si annoverano tra le altre novità introdotte dalla legge del 2015 la rivalsa dello Stato di cui all’art. 7 della medesima legge, che prevede la possibilità dello Stato di esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato nel caso di diniego di giustizia e nelle altre ipotesi indicate ex lege.
Da ultimo emerge chiaramente lo sforzo della riforma normativa del 2015 nel bilanciare correttamente gli interessi in gioco, ossia da un lato enfatizzare il principio di responsabilità,dall’altro di preservare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura.
[1] www.gazzettaufficiale.it/
[3] Sentenza 13 giugno 2006, causa C-173/03.
[4] Sentenza 30 settembre 2003, C-224/01.
[5] Commissione c. Italia 24.11.2011.
[6] Manuale di Diritto Amministrativo, R. Garofoli, XI Ed.
[7] www.diritto.it
Tayla Jolanda Mirò D’aniello nata ad Aversa il 4/12/1993. Attualmente iscritta al V anno della facoltà di Giurisprudenza, presso la Federico II di Napoli. Durante il suo percorso univeristario ha maturato un forte interesse per le materie penalistiche, motivo per cui ha deciso di concludere la sua carriera con una tesi di procedura penale, seguita dalla prof. Maffeo Vania. Da sempre amante del sistema americano, decide di orientarsi nello studio del diritto processuale comparato, analizzando e confrontando i diversi sistemi in vigore. Nel privato lavora in uno studio legale associato occupandosi di piccole mansioni ed è inoltre socia di ELSA “the european law students association” una nota associazione composta da giovani giuristi. Frequenta un corso di lingua inlgese per perfezionarne la padronanza. Conseguita la laurea, intende effettuare un master sui temi dell’anticorruzione e dell’antimafia.