mercoledì, Marzo 27, 2024
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La Sharia nel quadro dei diritti umani: il caso Molla Sali c. Grecia

Lo scorso 19 dicembre la Corte europea dei diritti dell’uomo ha pubblicato una sentenza che si è subito rivelata particolarmente controversa, soprattutto alla luce dell’attuale quadro sociale e politico del nostro continente. La questione, relativa alla tutela delle aspettative ereditarie della ricorrente, riguarda l’applicazione della legge islamica, la Sharia, anziché le norme del codice civile greco in tema di successioni. Ed infatti, la ricorrente lamentava dinanzi alla Corte EDU il fatto che le autorità nazionali, dopo la morte del marito, membro di spicco della comunità musulmana della Tracia, avessero applicato la legge concernente questioni ereditarie della comunità di riferimento e non la legge ordinaria, causando un pregiudizio ai diritti della donna. In particolare, i giudici greci non solo avevano riconosciuto come la volontà del de cuius dovesse essere letta secondo la legge interna al proprio gruppo etnico-religioso, ma hanno anche riconosciuto il mufti come autorità competente in luogo del giudice ordinario; occorre tra l’altro sottolineare come, in questo caso, il marito della ricorrente avesse redatto il testamento secondo i criteri previsti dalla legge ordinaria e non dalla Sharia.

Per questi motivi, il caso Molla Sali c. Grecia[1] non può dunque essere qualificato come un semplice conflitto tra due ordinamenti, ma deve necessariamente essere letto alla luce della specifica situazione della comunità musulmana in Tracia e delle scelte dei soggetti coinvolti. Invero, in numerose pronunce, la giurisprudenza greca ha ricordato che l’applicazione della legge islamica e la competenza del mufti sono previs dalla legge 147/1914, secondo cui “all matters relating to the marriage of persons belonging to the Muslim religion (…) shall be governed by religious law and adjudicated in conformity with such law.“. Pertanto, rileva che la legislazione greca riconosce tanto la Sharia quanto la presenza di una autorità quale il mufti come elementi indefettibili ed essenziali della cultura musulmana, parte fondamentale del patrimonio culturale del gruppo, fortemente radicato sul territorio[2]. Questo riconoscimento deriva da alcuni documenti internazionali che proteggono e tutelano la comunità musulmana tracia tra cui il Trattato di Atene del 1913 e il Trattato di Sevrès, nei quali si dà atto che, per questioni relative alla sfera familiare ed ereditaria, nonché per tutto ciò che riguarda i rapporti interni alla comunità, è competente l’autorità religiosa e la legge applicata all’interno del gruppo stesso[3].

Senonché, le conclusioni di comitati e commissioni internazionali – come il Comitato CEDAW o il Comitato sul Patto internazionale per i diritti civili e politici – evidenziano come l’applicazione della Sharia sia, in molti casi, lesiva dei diritti fondamentali di alcune categorie di persone, tra cui, in particolare, le donne, anche alla luce del loro ruolo marginale all’interno di una comunità, come quella musulmana, essenzialmente patriarcale e fallocentrica. [4].

La questione assume dunque una diversa sfumatura: i due ordinamenti non sono necessariamente in conflitto, ma devono coesistere nel rispetto dei diritti fondamentali di ogni individuo. D’altra parte, non si possono nemmeno ignorare gli evidenti problemi di compatibilità tra ordinamento civile e Sharia, che rappresentano comunità e valori spesso opposti, in particolare per quanto riguarda norme religiose spesso discriminatorie nei confronti delle donne e delle persone non di fede musulmana. In questo senso, come evidenziato dai rappresentanti della comunità cristiana, “Sharia law was more than a normative regime, constituting an ethos which prescribed a global vision of the relationship between religion, society and the individual[5].

I giudici di Strasburgo, dinanzi a tale quadro, hanno quindi cercato di rimanere saldi sui fatti di causa per garantire una pronuncia conforme alla propria giurisprudenza. In questo senso, la prima domanda che è posta la Corte è se, nel caso di specie, il trattamento subito dalla ricorrente, che ha visto ridurre la propria quota nell’asse ereditario per applicazione della legge islamica, fosse difforme dalla concreta situazione che si sarebbe venuta a creare applicando la legge ordinaria. Su questo punto, non vi è dubbio della diversità di trattamento dovuta all’applicazione della legge religiosa rispetto a quella civile[6]. Maggiori problemi crea invece il quesito relativo alla sussistenza di una legittima motivazione per giustificare tale differenza di trattamento messa in atto dai giudici nazionali. Su questo aspetto, il governo ha affermato come le scelte fatte dai tribunali interni fossero motivate dalla necessità di tutelare l’interesse pubblico, rappresentato dalla protezione dei diritti delle minoranze garantendo l’applicazione della Sharia.

La Corte di Strasburgo ha ricordato che l’interesse pubblico giustificativo di talune scelte delle autorità internve vada valutato alla luce del principio di proporzionalità, in un’ottica di bilanciamento tra gli interessi. Nel caso di specie, le decisioni dei giudici interni, favorevoli all’applicazione della Sharia, producevano effetti notevoli: infatti, il rischio è persino quello che i testamenti redatti da individui di nazionalità greca ma di religione musulmana rispondano solamente alla legge islamica, normativa di riferimento per la comunità[7]. L’interesse della Corte, in contesti come questo, è di censurare le pronunce dei giudici interni solo nel caso in cui siano manifestamente irragionevoli od arbitrarie, limitandosi, negli altri casi, a vagliarne l’adeguatezza rispetto al dettato convenzionale[8], anche qualora si faccia riferimento ad altri documenti internazionali[9].

Ed è proprio nel valutare l’adeguatezza di queste pronunce che la Corte ha censurato le scelte e le conclusioni dei giudici interni, rilevando violazione dell’articolo 1 protocollo 1 (diritto alla proprietà) in combinato disposto con l’articolo 14 CEDU (che prevede un generale divieto di discriminazione).

La giurisprudenza di Strasburgo è particolarmente chiara nell’affermare come la tutela della libertà religiosa non si può spingere fino a richiedere agli Stati di porre in essere una legislazione speciale per tutelare privilegi o status particolare ad una determinata comunità[10]. In questo senso, la scelta del marito della ricorrente di redigere testamento secondo le regole del codice civile doveva essere debitamente tenuta in considerazione dai giudici nazionali che, decidendo comunque di applicare la Sharia, hanno sostanzialmente eliminato il diritto del de cuius di “crearsi una identità” in senso negativo, ossia nel decidere se e in quali occasioni essere riconosciuto membro di una minoranza. La Grecia, in questo senso, è il solo paese del continente in cui si ammette questa forma di “esclusività” della legislazione, sicché diventa fondamentale, per le autorità, porre in essere un quadro normativo capace di tutelare il diritto degli individui di poter esprimere la propria religione anche nello sviluppo delle proprie relazioni e rapporti giuridici e, allo stesso tempo, il diritto di poter accedere ai benefici garantiti alla popolazione nel suo complesso, senza incorrere in discriminazioni di senso opposto. La recente legge del gennaio 2018, abrogando la precedente legge e cancellando l’esclusività della Sharia per questioni familiari ed ereditarie, rappresenta il primo passo verso la tanto richiesta armonizzazione tra il diritto civile greco e il diritto islamico[11].

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[1] Corte EDU, Mossa Sali c. Grecia, ricorso n. 20452/14, sentenza 19 dicembre 2018.

[2] Ibid., §§44 – 56.

[3] Ibid., §§62 – 69.

[4] Ibid., §§70 – 77.

[5] Ibid., §115.

[6] Ibid., §§138 – 141.

[7] Ibid., §148.

[8] Corte EDU, Radomijila e altri c. Croazia, ricorsi nn. 37685/10 e 22768/10, sentenza 20 marzo 2018, §149.

[9] Corte EDU, Waite e Kennedy c. Germania, ricorso n. 26083/94, sentenza 18 febbraio 1999, §72.

[10] Corte EDU, Molla Sali c. Grecia, cit., §155.

[11] Ibid., §161.

Fabio Tumminello

30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all'esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017. Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell'Unione Europea. Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos - Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo Paulo Pinto de Albuquerque ("I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 - 2020").

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