La spesa pubblica in rapporto ai vincoli europei
La spesa pubblica in Italia rappresenta una questione che ormai si avvia a compiere il mezzo secolo di vita. Fra il 1970 e il 1979, la spesa pubblica italiana passa dal 32,7% al 40,6% del PIL e, il debito pubblico, già negli anni 70 passa dal 37% al 58% del PIL con un deficit che si aggira intorno al 10% annuo. Dunque, il problema della spesa pubblica e del debito pubblico si presentavano già negli anni ’70.
In quel periodo però la situazione è in parte riassorbita, ammortizzata da un’inflazione molto elevata, costantemente al di sopra del 10% annuo che tocca punte del 20% negli anni 1974-1976. E’ chiaro che l’Italia lotta da tempo con una serie di dinamiche e meccanismi che pregiudicano l’economia del Paese. E’ noto che con l’ingresso nel Sistema Monetario Europeo e con il cosiddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca D’Italia nel 1981[1], il tema dell’inflazione viene affrontato e in effetti viene in un certo senso contenuto, delimitato. Nel 1986 l’inflazione è al 5%, quindi viene abbattuta.
E’ anche noto però che il deficit primario continua a correre e nel momento in cui il Paese deve finanziare il suo debito pubblico che inizia ad essere molto consistente sul mercato, a causa anche del divorzio tra Tesoro e Banca D’Italia, anche la spesa per interessi aumenta in maniera marcata. In qualche modo, il controllo dell’inflazione e la partecipazione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo viene controbilanciato o, per meglio dire, appagato, dal continuo aumento del debito pubblico.
Ciò accade ovviamente in presenza di un sistema politico che non è in grado di contenere il deficit primario, infatti l’Italia nel 1992 paga, soltanto gli interessi sul debito, il 12,2% del PIL. Già nel 1991 il Paese ha un surplus primario ed è noto che, nel 1992, la finanziaria da 93 mila miliardi del Governo Amato, il prelievo del 6 per mille sui conti correnti e lo sforzo notevole che l’Italia compie negli anni 1996 e 1997, con un’ulteriore finanziaria del Governo Prodi da 60 mila miliardi di lire e poi nel 1997 un’aggiunta di ulteriori 15 mila miliardi di lire, provano notevolmente il Paese.
Ciò però notoriamente consente all’Italia di partecipare ad un primo gruppo che aderisce alla Moneta Unica Europea e l’adesione consente di abbattere in maniera importante il servizio al debito. Gli interessi pagati sui titoli di Stato al momento dell’emissione crescono dal 3,3% all’11% nella seconda metà degli anni 90 e la percentuale di PIL, che viene pagata su interessi del debito pubblico, in linea di massima si dimezza, scendendo intorno al 6% del PIL.
In questo modo, il Paese, può tagliare il debito pubblico da circa il 120% del PIL intorno al 100%[2]. Ed è qui che si ferma lo sforzo di riduzione del debito pubblico. Ci sono chiaramente delle ragioni di natura politica e ci sono anche numerose ragioni di natura economica. Il 2002 e il 2003 sono cattivi anni per l’economia europea e anni ancor peggiori per l’economia italiana.
A seguire, il 2005 non è un anno favorevole, il 2006 è notoriamente anno elettorale e ciò ovviamente costituisce una nuova variabile di natura politica all’interno della vicenda del nostro debito pubblico. Nel momento in cui si avvia la grande recessione, nel 2008, il Paese viene colpito duramente e tutto lo sforzo di riportare il debito pubblico intorno al 100% del PIL, svanisce con la recessione e di conseguenza con la contrazione del PIL, fino a giungere alla crisi del debito sovrano dove qualunque sforzo di risanamento diventa ancora più complesso.
Con la recessione, il debito pubblico viaggerà al di sopra del 120% fino ad arrivare oltre il 130%. Dunque, questi cenni storici, per sottolineare come questo sia un problema che ha circa 50 anni e che si lega in maniera strutturale al rapporto fra l’Italia, l’Europa e il Sistema Economico Internazionale ma è legato inoltre e, in modo più marcato, ad un problema di efficienza del sistema politico che rappresenta il punto cruciale e centrale di tutta la vicenda.
Ci troviamo difronte un sistema politico che non ha la forza di imporre un determinato percorso di risanamento e, anzi, è debole a sufficienza da dover accettare e dover promuovere dei meccanismi di spesa pubblica senza dei quali non è in grado di rafforzare una legittimazione che, già dagli anni 70, comincia ad essere vacillante e vacilla ancor di più negli anni 80 e poi non viene ricostruita dopo la frattura degli anni 1992-1993 con la cosiddetta Seconda Repubblica.
Dunque, in chiave storica, è evidente che vi è un nodo cruciale che questo Paese da decenni tenta di affrontare e da decenni purtroppo non riesce a superare. Un altro aspetto da non trascurare e di cui si parla poco è rappresentato dagli interessi e dalle competenze trasversali di giuristi, aziendalisti che non abbracciano le varie discipline e competenze e dove è frequente sottolineare come questi mondi non si incontrino mai, ciò costituisce un serio problema proprio per la trasversalità delle vicende.
Il tema della spesa pubblica è complesso e articolato e quando facciamo riferimento al governo della spesa pubblica, l’intento dovrebbe essere quello di indicare la policy della gestione della spesa pubblica. Dunque non solo la gestione e l’amministrazione ma le scelte politiche sottese alle opzioni relative alla componente di spesa del bilancio pubblico. La costruzione delle regole fiscali europee che si è articolata negli anni, dal Trattato di Maastricht fino al Fiscal Compact, è tutta orientata a garantire una sorveglianza e un controllo sui soldi di finanza pubblica.
La domanda da porci è quanto sia compatibile questa disciplina con le esigenze di sviluppo. Le regole del Trattato di Maastricht e nello specifico la regola del rapporto del 60% nella relazione debito-PIL a dispetto del 3% nel rapporto tra disavanzo e PIL con le declinazioni regolamentari contenute successivamente nel Fiscal Compact e negli altri trattati, sono tutti orientati ad ottenere la realizzazione dell’obiettivo del pareggio di bilancio o dell’avanzo di bilancio, accantonando talvolta le reali esigenze di sviluppo.
Il principio del Fiscal Compact è stato declinato nella nostra Costituzione con la riforma del 2012[3], la quale ha costituzionalizzato il principio dell’equilibrio di bilancio che è diverso dal pareggio di bilancio nel senso che non implica una regola rigida contabile nel rapporto fra entrate e spese, ma indica un parametro di sostenibilità finanziaria che tiene conto anche del ciclo congiunturale e di eventi eccezionali, ma che comunque pone l’enfasi della regolazione europea sui soldi di finanza pubblica e non sulle esigenze di crescita e di sviluppo che sono prese in considerazione solo al fine del rispetto dei parametri fiscali.
E’ vero che ci sono anche delle deroghe che consentono scostamenti limitati temporanei ai parametri fiscali, come gli scostamenti consentiti per riforme strutturali a eventi inconsueti ed eccezionali che non sono riferibili agli Stati membri.
Nonostante tutte queste regole che ammettono deviazioni temporanee e limitate delle regole fiscali, la costruzione della disciplina fiscale europea resta ancorata ad un obiettivo cogente e vincolante sul rispetto dei parametri di finanza pubblica, intermedi, a regime, che tengono conto della congiuntura economica ma che si fondono sulla valutazione contabile dei bilanci degli Stati membri[4].
A questa rigidità si aggiunge una complicazione che è riferibile alla stratificazione nel tempo di atti normativi europei che si sono succeduti negli anni e che hanno creato un assetto normativo confuso e non sempre chiaro.
A dimostrazione di ciò è stato creato un manuale di istruzioni per il rispetto delle regole fiscali a causa della complessità della materia e, a tal proposito, la Commissione sta valutando, da tempo, la possibilità di attivare procedure di semplificazione relative alla sorveglianza del bilancio degli Stati membri ma anche al rispetto delle regole. In questo quadro, il rispetto dei vincoli europei ma anche statali, per quanto concerne la norma costituzionale sull’equilibrio di bilancio, impongono scelte vincolate al rispetto contabile degli obiettivi dei saldi di finanza pubblica.
In una situazione di bassa crescita o addirittura di recessione come quella che stiamo vivendo, è necessario sfruttare gli spazi di spesa consentiti dalla disciplina fiscale europea selezionando gli interventi che assicurino un moltiplicatore più elevato e che garantiscano una crescita sostenuta.
Tra la spesa corrente e la spesa degli investimenti andrebbe preferita quest’ultima, in quanto, mediamente produce un moltiplicatore più alto ma soprattutto produce un effetto di crescita della capacità produttiva e di ricchezza dello Stato, nonché di aumento della domanda aggregata maggiormente produttiva rispetto alla spesa corrente per come, mediamente, viene gestita dalle politiche nazionali.
Altro aspetto significativo sono le difficoltà giuridico-burocratiche nell’amministrazione della spesa per investimenti e nello specifico è opportuno fare riferimento alla farraginosità e complicazione della normativa, all’ineficcienza burocratica, alla moltiplicazione dei controlli e delle fattispecie di responsabilità che spesso sono confuse e bloccano l’assunzione di responsabilità da parte della dirigenza, la quale deve assumere gli impegni di spesa per gli investimenti così come il sistema organizzativo istituzionale della multi- level-governance nella misura in cui divide, fra più livelli di governo, le responsabilità nella gestione degli investimenti e, inevitabilmente, produce una complicazione nella finalizzazione per gli stanziamenti.
Non meno importante e incisivo è il cosiddetto fenomeno NIMNBY per cui, le grandi infrastrutture incontrano un forte ostacolo nelle comunità locali che resistono all’impianto di infrastrutture nel loro territorio. Tutti questi fattori andrebbero rivisti per riqualificare la spesa degli investimenti sia nella fase deliberativa, ma anche nella fase di amministrazione e di gestione.
[1]Per un approfondimento: http://www.studiolegalemarcomori.it/storia-cessione-sovranita-nazionale-riflessioni-leventuale-profilo-penale/
[2] ”Inflazione – Informazioni aggiornate sull’inflazione”: https://it.inflation.eu
[3] Nel corso della seconda parte della XVI legislatura, in concomitanza con l’acuirsi delle tensioni sui debiti sovrani dell’area dell’Euro, è emersa a livello comunitario l’esigenza di prevedere negli ordinamenti nazionali ulteriori e più stringenti regole per il consolidamento fiscale e, in particolare, di introdurre, preferibilmente con norme di rango costituzionale, la “regola aurea” del pareggio di bilancio. Con legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 è stato pertanto introdotto nella Costituzione, in coerenza anche con quanto disposto da accordi internazionali quali il c.d. Fiscal compact, il principio dell’equilibrio strutturale delle entrate e delle spese del bilancio.
[4] Atti del Convegno “Il Governo della spesa pubblica” 20 gennaio 2019.
Fonte immagine: http://www.libertaeguale.it/spesa-pubblica-non-conta-quanto-ma-come/
Si occupa di politiche pubbliche presso la Luiss Guido Carli.