La tendenza alla crimmigration e la detenzione “amministrativa” dello straniero come elusione delle garanzie penali del soggetto in vinculis
La legislazione interna degli Stati europei ha visto, negli ultimi anni, la crescente adozione di un approccio securitario e repressivo alla materia dell’immigrazione, che non di rado ha riscontrato il favore di linee politiche di segno diverso[1].
Tale fenomeno, ormai radicato nell’area europea, ha però incontrato una prima categorizzazione nella dottrina statunitense[2], che l’ha definito come “tendenza alla crimmigration” (o ‘crimmigrazione’). Secondo una nozione ripresa da autorevole dottrina penalistica italiana, la crimmigration indicherebbe “la tendenza alla sovrapposizione o intersezione tra il diritto penale e il diritto dell’immigrazione in funzione di almeno tre convergenti strategie politico-criminali: a) la previsione di conseguenze penalistiche (pene detentive e/o pecuniarie) per violazioni del diritto dell’immigrazione; b) la previsione di conseguenze amministrativistiche connesse a condanne penali (mancata ammissione nello Stato ed espulsione); c) il ricorso a misure privative o limitative della libertà personale di tipo penalistico (arresto e detenzione funzionale all’espulsione) nell’ambito del diritto dell’immigrazione” [3].
L’intersezione tra la potestà punitiva, baluardo della sovranità statale, e le misure de libertate, salvaguardate da una molteplicità di fonti nazionali e sovranazionali, rende ovvia la complessità del bilanciamento – che pervade capillarmente la materia del diritto dell’immigrazione – tra l’interesse statale alla regolamentazione e gestione degli ingressi sul proprio territorio, specie a fronte di minacce alla sicurezza interna o all’ordine pubblico, e il rispetto dei diritti fondamentali degli individui sottoposti a restrizioni alla libertà personale.
Gli Stati, nell’esercitare lo ius puniendi, non possono invero agire a detrimento degli obblighi sovranazionali di matrice internazionale e umanitaria su di essi incombenti: “[…] when exercising their sovereign right to enact and implement migratory and border security measures, States have the duty to comply with their obligations under international law, including international human rights law, in order to ensure full respect for the human rights of migrants.”[4].
Siffatta esigenza si fa ancor più pressante in ragione dei rimedi incidenti sull’habeas corpus dei cittadini di Paesi terzi[5], i quali ammontano spesso a misure, seppur formalmente “amministrative”, di natura e modi in realtà “penali”. Il caso che interessa l’esame del presente contributo si riferisce specificamente al punto sub c) della definizione di crimmigration sovramenzionata e, in particolare, alla prassi della c.d. detenzione “amministrativa”, frequentemente adottata in ambito europeo[6].
La detenzione amministrativa dello straniero, definita come “[…] l’arresto e il trattenimento di un individuo da parte delle autorità statali [che si colloca, ndt] al di fuori dell’ordinamento penale, ad esempio per ragioni di sicurezza […], come forma di detenzione preventiva, o finalizzato a trattenere migranti irregolari”[7], costituisce, in realtà, un sistema ibrido tra diritto amministrativo e penale, che prende in prestito dal diritto penale tecniche e strumenti di tutela degli interessi pubblici in gioco ma, al tempo stesso, “dimentica intenzionalmente di importare le garanzie del sistema della giustizia penale, sacrificate sull’altare della maggiore efficacia e speditezza dell’azione di contrasto all’immigrazione irregolare e alla connessa criminalità”[8]. Ad occultare la natura penale della detenzione amministrativa si pone poi quella tendenza, sovente adottata dai Governi nazionali, di indirizzarsi ad essa con il termine, dal contenuto meno afflittivo, di “trattenimento”.
Purtuttavia, le misure de qua ammontano sempre ad un arresto o detenzione di migranti irregolari, richiedenti asilo e rifugiati, prassi che è espressamente scoraggiata e riprovata da numerose fonti di diritto internazionale, prima fra tutte la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, che all’art. 31, par. 1, vieta “la criminalizzazione, la punizione e la detenzione dei richiedenti asilo per il solo fatto di essere entrati nel territorio nazionale senza documenti, senza autorizzazione o entrambi”[9].
È qui che si pone un nodo difficilmente districabile del diritto dell’immigrazione, che oscilla tra una costante vittimizzazione e una criminalizzazione del migrante.
Da un lato, il diritto internazionale e, in particolare, europeo latu sensu inteso, categorizza il richiedente asilo (e, a fortiori, il rifugiato) come “categoria vulnerabile” e meritevole di particolare tutela; ciò in ragione di più condizioni, quali l’aver affrontato una tratta, la fuga da persecuzioni, l’assoggettamento a traffico di esseri umani o l’indebito sfruttamento lavorativo o sessuale[10].
Da un altro lato, non solo consente, ma legittima[11] il trattenimento del cittadino di Paese terzo, sia irregolarmente soggiornante, che richiedente asilo (seppur i due status siano assoggettati a regimi normativi e di trattenimento differenti). Le direttive europee adottate nell’ambito del Sistema europeo comune di asilo (c.d. “SECA”), così come la c.d. “direttiva rimpatri” (Dir. 2008/115/CE, che non è invece formalmente parte del SECA), legittimano il “trattenimento ai fini dell’allontanamento” (che può essere protratto fino ad un massimo di ben 18 mesi) e i “centri di permanenza temporanea” dei migranti irregolari[12], le cui condizioni hanno più volte sollevato questioni di incompatibilità con il rispetto dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (in seguito, “CEDU”) relativo al divieto di trattamenti inumani e degradanti.
È tuttavia bene tenere presente che, pur se integrati i motivi di trattenimento (di cui, in particolare, all’art. 5, par. 1, lett. f, CEDU, all’art. 8, par. 3, Direttiva 2013/33/UE[13], e all’art. 15 della Direttiva 2008/115/CE[14]), la detenzione amministrativa deve essere disposta in quanto extrema ratio, ovverosia in esito ad una valutazione in concreto dell’opportunità, necessità e proporzionalità di applicazione di tale misura, rispetto ad altri rimedi non incidenti (o meno incidenti) sulla libertà personale del soggetto in questione (inter alia, l’obbligo di presentazione periodica alle autorità, l’obbligo di dimora in un luogo assegnato, la costituzione di una cauzione o garanzia finanziaria).
Tale argomentazione non è stata tuttavia corroborata dalla Corte di Strasburgo, la quale con due pronunce paradigmatiche in materia, relative ai casi Saadi[15] e Chahal[16], ha preso una posizione netta relativamente all’assenza, nell’art. 5, par. 1, lett. f CEDU, del concetto di “necessità”, istituendo così un “different level of protection”[17] e rendendo la tutela improntata dalla giurisprudenza della Corte più affievolita rispetto ad altri standard più garantisti (quale quello pertinente al SECA), che prevedono espressamente l’applicazione della detenzione quale misura di “last resort”. A detta della Grande Camera in Saadi, invero, uno Stato può “incarcerare un richiedente asilo per evitare un ingresso non autorizzato e per velocizzare le richieste di asilo”: così disponendo, si integrerebbero gli estremi di una violazione dell’art. 5, par. 1, lett. f CEDU solo qualora il provvedimento de libertate sia unicamente “non arbitrario”, senza una verifica della sua necessarietà e proporzionalità. Si trasformerebbe così “l’innegabile diritto degli Stati sovrani di controllare i loro confini territoriali in un potere sostanzialmente illimitato di incarcerare gli stranieri quando e per quanto preferiscono”[18].
L’infelice approccio Saadi trova, tuttavia, dei correttivi nella stessa giurisprudenza della Corte EDU (in particolare nelle pronunce Rahimi c. Grecia[19] e Mikolenko c. Estonia[20]) che, prendendo in considerazione i casi di trattenimento di persone vulnerabili, quali i minori, impone la prova dell’insufficienza di misure meno coercitive.
Nuove incriminazioni e natura penale della detenzione amministrativa: il caso italiano
Le politiche di crimmigration incontrano terreno fertile non solo tra più Stati e più livelli normativi, ma anche tra correnti politiche di segno diverso, se non opposto. Paradigmatico in tal senso è il caso italiano, che ha visto, nell’ultimo ventennio, una sostanziale continuità nella criminalizzazione dell’immigrazione (principalmente, mediante arricchimento del novero delle fattispecie penali), dalla legge “Bossi-Fini”[21] (2002), ai “Pacchetti sicurezza”[22] emanati sotto il Governo Berlusconi IV (2008 e 2009), ai Decreti Minniti[23] emanati durante il Governo Gentiloni (2017) e, infine, ai “Decreti sicurezza”[24] emanati durante il Governo Conte I (2018-2019)[25].
È bene anzitutto premettere come la maggior parte della legislazione securitaria in materia di immigrazione sia adottata prevalentemente tramite lo strumento del decreto-legge. Ciò risponde a (almeno) due diverse esigenze di matrice politica, elaborate dalla dottrina[26]: a) evitare le lungaggini del vaglio della procedura parlamentare ordinaria, fornendo al contempo un’immagine decisionista quanto mai preziosa in termini di consenso (e dimostrando così di “saper reagire” prontamente a problematiche di immigrazione e pubblica sicurezza); b) “personalizzare” il provvedimento, tramite indicazione del nome del Ministro emanante (decreto “Minniti”, decreto “Salvini”), in modo da godere del riflesso di riforme (solitamente rigoriste) che ricevono ormai larga approvazione da parte della pubblica opinione.
Lo strumento del decreto-legge, tuttavia, si rivela spesso il meno adeguato a disciplinare la materia dell’immigrazione. Ciò in quanto, sovente, manca il requisito di urgenza[27] richiesto dall’art. 77 della Costituzione per poter disciplinare la questione e, inoltre, in quanto tali provvedimenti (“pacchetti” di norme) si risolvono spesso in una massa eterogenea di disposizioni che difetta di quell’uniformità richiesta, invece, dalla decretazione[28].
1. Le nuove incriminazioni
La prima fattispecie di reato che ha aperto la strada alla crimmigration “made in Italy” è segnata dall’introduzione nel Testo unico sull’immigrazione[29] (in seguito, “T.U.I.”) del delitto (anteriormente, contravvenzione) di inottemperanza all’ordine di allontanamento[30]. A ciò è seguita l’introduzione, con il Decreto “Maroni” del 2008, della circostanza aggravante comune (art. 61, comma 11-bis c.p.) applicabile allo straniero irregolare, poi dichiarata incostituzionale nel 2010[31]. Ben più rilevante è stata l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno irregolare nel T.U.I. (art. 10-bis), ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale[32], ma passato al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione europea (in seguito, “CGUE”), che, nella celebre pronuncia El Dridi[33], ha sancito l’illegittimità del ricorso alla pena detentiva da parte degli Stati membri per sanzionare lo stato di migrante irregolare, ritenendola incompatibile con le finalità perseguite dalla direttiva rimpatri (dir. 2008/115/CE). A seguito della sentenza El Dridi, il legislatore italiano ha mantenuto la penalizzazione, cambiando la species del reato da detentiva a pecuniaria[34].
2. La criminalizzazione della giustizia “amministrativa”
Mentre è manifesta la tendenza italiana alla crimmigration con riferimento all’uso (crescente) della sanzione penale nei confronti del migrante irregolare, di minore evidenza è la crimmigration che pervade la detenzione amministrativa. Nonostante essa sia intesa dai Governi come di natura “preventiva” e non già “repressiva”, la detenzione amministrativa ha assunto, nel corso delle legislature, connotati sempre più penalistici.
Si richiama, a tal proposito, l’istituto del c.d. “respingimento differito”, che fa riferimento alla particolare ipotesi in cui “un soggetto privo dei requisiti per l’ingresso in Italia non venga respinto dalla polizia di frontiera ai valichi di ingresso (cd. respingimento immediato, disciplinato all’art. 10 co. 1 T.U.I.), ma risulti destinatario di un provvedimento di respingimento con accompagnamento alla frontiera, applicabile nei confronti degli stranieri che a) entrando nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera, sono fermati all’ingresso o subito dopo; b) nelle circostanze di cui al co. 1, sono stati temporaneamente ammessi nel territorio per necessità di pubblico soccorso (art. 10 co. 2 T.U.I.).”[35].
Orbene, in tali circostanze, il cittadino di Paese terzo che non chiedeva l’accesso a qualche forma di protezione e non risultava rientrare in alcuna delle categorie di soggetti vulnerabili di cui all’art. 19 co. 1 T.U.I., era soggetto a un provvedimento di rimpatrio da parte del questore, provvedimento che non necessitava di alcuna convalida giurisdizionale. La durata del trattenimento, inoltre, era prorogata a pressoché esclusiva discrezionalità delle autorità di polizia, secondo le contingenti esigenze organizzative. Si comprende in tal modo l’irrazionale disparità di trattamento cui era sottoposto il “rimpatriando differito”, rispetto al soggetto destinatario di provvedimento di espulsione immediato. Il rimpatrio differito, invero, ammontava ad una restrizione dell’habeas corpus: come tale, ricadeva ad ogni effetto nell’ambito dell’art. 13 della Costituzione ed era meritevole, pertanto, di godere della garanzia di controllo giurisdizionale. A queste conclusioni è giunta la Corte costituzionale nel 2017[36], censurando l’istituto, che ad oggi, risulta novellato e prevede la convalida giurisdizionale anche per il rimpatrio differito.
La natura repressiva del trattenimento è venuta poi in rilievo in seguito al c.d. approccio Hotspot adottato dall’Italia a seguito dell’Agenda europea per le migrazioni del 2015[37], che ha istituito “punti di crisi” destinati ad essere “luoghi di accoglienza”, ma che ben presto sono stati identificati come luoghi chiusi di trattenimento per richiedenti protezione internazionale. Sul tema della detenzione de facto dei migranti, si è pronunciata inoltre la Corte di Strasburgo nel 2016 con la nota sentenza Khlaifia[38], allorché ha riconosciuto una violazione in capo alle autorità italiane dell’art. 5, par. 1, lett. f CEDU, in merito al trattenimento di tre cittadini tunisini nel centro di Lampedusa, a tutti gli effetti equiparato a un centro chiuso di “privazione della libertà personale” (essendo proibito agli stranieri di lasciare la struttura).
I migranti in condizioni di ingresso o soggiorno irregolare, invece, sono stati destinati al trattenimento in Centri di permanenza per il rimpatrio (in seguito, “C.P.R.”), centri chiusi le cui condizioni disumane di detenzione sono state denunciate da numerose realtà associative[39] e report internazionali[40], e che sono stati oggetto di prevalente interesse della dottrina – non a caso – penalistica.
In sintesi, dunque, gli hotspot avrebbero dovuto essere destinati all’ “accoglienza” dei richiedenti protezione internazionale, mentre i migranti “economici”, che quindi non presentavano domanda di protezione internazionale, avrebbero potuto unicamente risiedere nei C.P.R.. Tuttavia, ancora una volta, le lacune normative[41] hanno lasciato spazio ad irragionevoli disparità di trattamento, in quanto non di rado i migranti non richiedenti permanevano negli hotspot, con la (paradossale) conseguenza che, per essi, il centro era da considerarsi “aperto” (almeno in linea teorica), contrariamente a quanto previsto, invece, per i richiedenti asilo.
È poi opportuno porre in luce un fenomeno che, da ultimo, non manca di assegnare alla detenzione amministrativa italiana connotati di stampo repressivo, più che preventivo. Le politiche migratorie interne degli ultimi anni hanno visto il susseguirsi incessante di modifiche alla durata massima del trattenimento del cittadino di Paese terzo, modifiche che non rispondevano a reali esigenze di gestione dei rimpatri, bensì alla “volontà politica di trasmettere un messaggio di rigore nel contrasto al fenomeno dell’immigrazione irregolare”[42], in tal modo inesorabilmente contrassegnando la detenzione amministrativa dello straniero con una finalità punitiva che non le è – o non dovrebbe esserle – propria. Emblematica a tal proposito è la riflessione di L. Masera (op. cit.), secondo cui: “L’aumento della durata massima della detenzione amministrativa diventa […] un termometro del rigore in tema di immigrazione di un certo intervento di riforma, con una traslazione di significato che da strumento cautelare per l’esecuzione dei rimpatri, trasforma il trattenimento amministrativo degli stranieri irregolari in succedaneo della pena detentiva cui è stato precluso il ricorso dai giudici europei”[43].
Da ultimo, in considerazione dell’emergenza sanitaria da Covid-19 che ha notevolmente interessato il nostro Paese, sorge spontaneo chiedersi quale sia la ragione, la necessità e proporzionalità, nonché la (il)legittimità, nel trattenere un soggetto straniero a fini della preparazione della procedura di rimpatrio quando, a causa delle chiusure dei confini e delle restrizioni di movimento emergenziali, tale rimpatrio diviene impraticabile. Si ricorda, infatti, come ai sensi dell’art. 15, par. 4 T.U.I., il trattenimento non sia più giustificato e la persona interessata deve essere immediatamente rilasciata quando risulti che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento. Ad adiuvandum si riportano le conclusioni del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale: “[…] l’applicazione o il mantenimento della misura restrittiva in questo caso è priva di un suo necessario presupposto di legittimità, cioè la realizzabilità del rimpatrio, unico scopo cui è preordinata. Per tale motivo può configurarsi un’ipotesi di ‘illecito trattenimento’, ai sensi della stessa direttiva rimpatri (direttiva 2008/115/CE)”[44].
In conclusione, sostenere che il trattenimento amministrativo non debba godere delle medesime garanzie del trattenimento penitenziario (disciplinate, invece, con acribia), è “errato e paradossale: errato, perché […] la norma costituzionale [l’art. 13, ndr] si riferisce a qualsiasi forma di restrizione della libertà personale; paradossale, perché si finirebbe con il trattare la forma meno grave di restrizione in modo deteriore rispetto ai detenuti in stabilimenti penitenziari (i quali avrebbero regole certe, ad esempio, in materia di colloqui con i familiari; di accensione della luce artificiale, e via dicendo).”[45].
Conclusioni
La materia dell’immigrazione, assai complessa e delicata per gli interessi di cui è portatrice, presta tuttavia il fianco a suffragio di battaglie politiche più o meno rigoriste. Proprio in ragione di ciò, essa è regolamentata in maniera sommaria e lacunosa, spesso da fonti secondarie o delegate a forze di governo che, al fine rinsaldare le proprie tesi, usufruiscono dello strumento che, più di tutti, impatta sulla pubblica opinione: quello penale.
A subirne i riflessi sono, tuttavia, i diritti degli stranieri, che sono imparimente ed irragionevolmente derogati, beffando il principio costituzionale di reciprocità ed eguaglianza, che richiede un trattamento non migliore, ma quantomeno pari a quello garantito ai cittadini. Ciò a riprova del fatto che, alle volte, “le libertà degli altri sono libertà diverse”[46].
[1] Ci si riferisce, a titolo esemplificativo, al caso delle politiche italiane dall’adozione dei “Pacchetti sicurezza” fino ai “Decreti sicurezza”, come si avrà modo di approfondire in seguito.
[2] Cfr. J. Stumpf, The crimmigration crisis: immigrants, crime and sovereign power, in American University Law Review 2006, p. 367 ss.
[3] Cfr. G. L. Gatta, La pena nell’era della “crimmigration”: tra Europa e Stati Uniti, in La pena, ancora: tra attualità e tradizione – Scritti in onore di Emilio Dolcini, Milano, 2018, p. 987 ss.
[4] Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottata il 18 dicembre 2007, A/RES/62/156, punto 8.
[5] N.B. nel presente contributo ci si riferisce, per motivi di semplificazione, alla condizione di “cittadino (o soggetto) di Paese terzo” includendovi la condizione del soggetto “apolide”.
[6] L’ordinamento francese, che è stato il primo ad introdurla, parla di rétention administrative. Cfr. Pugiotto A., La galera amministrativa degli stranieri e le sue incostituzionali metamorfosi, in Quaderni Costituzionali, 2014, p. 573 ss.
[7] Cfr. Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria, Report of the Working Group on Arbitrary Detention: Thematic Considerations: Administrative Detention and Habeas Corpus, A/HRC/13/30, gennaio 18, 2010, par. 77.
[8] Cfr. L. Foffani, “Crimmigration”: dalla giurisprudenza CEDU ai “decreti sicurezza”, in A. Saccucci (a cura di), Paulo Pinto de Albuquerque, I diritti umani in una prospettiva europea, Opinioni dissenzienti e concorrenti (2016-2020), Editoriale scientifica, Napoli, 2021, p. 375.
[9] Cfr. Convenzione relativa allo status dei rifugiati, conclusa a Ginevra il 28 luglio 1951. Si veda, inoltre, il Protocollo relativo allo status dei rifugiati del 31 gennaio 1967 (c.d. Protocollo di New York).
[10] Si noti come nella nota pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo Khlaifia, ci si riferisce allo status di richiedente asilo come qualità avente una vulnerabilità “specifica”. Cfr. Corte EDU, sentenza del 15 dicembre 2016, Khlaifia e a. c. Italia, ricorso n. 16483/12.
[11] Si pensi alle politiche europee, quali la cooperazione rafforzata Schengen, che mirano a realizzare un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne e impongono agli Stati parte di adottare misure adeguate per prevenire le minacce all’ordine pubblico, alla sicurezza e salute pubblica degli Stati e per contrastare l’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani.
[12] Cfr. artt. 15 e 16 della Direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008, c.d. “direttiva rimpatri”, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.
[13] Direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante Norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (rifusione), (c.d. direttiva accoglienza).
[14] Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante Norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (c.d. direttiva rimpatri).
[15] Corte EDU [GC], sentenza del 29 gennaio 2008, Saadi c. Regno Unito, ricorso n. 13229/03.
[16] Corte EDU [GC], sentenza del 15 novembre 1996, Chahal c. Regno Unito, ricorso n. 22414/93.
[17] Corte EDU, Chahal, cit., par. 112.
[18] Cfr. L. Foffani, op. cit., p. 377.
[19] Corte EDU, sentenza del 5 aprile 2011, Rahimi c. Grecia, ricorso n. 8687/08.
[20] Corte EDU, sentenza dell’8 gennaio 2010, Mikolenko c. Estonia, ricorso n. 10664/05.
[21] Cfr. l. 30 luglio 2002, n. 189.
[22] Cfr. d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. in l. 24 luglio 2008, n. 125, e l. 15 luglio 2009, n. 94.
[23] Cfr. d.l. 17 febbraio 2017, n. 13, conv. in l. 13 aprile 2017, n. 46, e d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, conv. in l. 21 aprile 2017, n. 48.
[24] Cfr. d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, conv. in l. 1° dicembre 2018, n. 132 (c.d. “decreto sicurezza”) e d.l. 14 giugno 2019, n. 53, conv. in l. 8 agosto 2019, n. 77 (c.d. “decreto sicurezza-bis”).
[25] Si noti come, già dal nome dei provvedimenti, al diritto dell’immigrazione ci si rivolga in chiave securitaria, come un problema, anzitutto e quasi esclusivamente, di sicurezza interna.
[26] Si fa ivi riferimento al prezioso contributo in materia di L. Masera, La crimmigration nel decreto Salvini, in Legislazione penale, 2019, p. 1 ss.
[27] L. Masera (op. cit.) pone particolare attenzione al “decreto sicurezza”: quando esso venne emanato, nel mese di ottobre 2018, non vi era nessuna situazione di particolare pericolo per la sicurezza pubblica, né in relazione alle questioni migratorie (i flussi di migranti provenienti dalla Libia erano da settimane in deciso calo rispetto agli anni precedenti, e comunque non avevano certo dimensioni numeriche tali da configurare una crisi del sistema di accoglienza), né rispetto all’altro ambito di intervento del decreto, relativo alla sicurezza urbana (nessuna eccezionale emergenza al riguardo era emersa nel periodo antecedente il decreto).
[28] Cfr. S. Casu, Il decreto sicurezza bis e la violazione del diritto internazionale, in Ius in itinere, 11 agosto 2019, https://www.iusinitinere.it/il-decreto-sicurezza-bis-e-la-violazione-del-diritto-internazionale-22978 .
[29] D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
[30] Tale delitto “ha rappresentato uno dei titoli di reato più ricorrenti davanti ai nostri giudici penali, al punto da interessare in molti distretti di Corte d’appello quasi la metà di tutti i processi che venivano celebrati con il rito direttissimo, e da comportare per moltissimi stranieri (specie nei casi di irregolarità “recidiva”) l’effettivo ingresso nel circuito carcerario”. Cfr. L. Masera, op. cit., p. 7.
[31] Corte cost. n. 249 del 5 luglio 2010.
[32] Corte cost. n. 250 del 5 luglio 2010.
[33] CGUE, sentenza del 28 aprile 2011, Hassen El Dridi, causa C‑61/11 PPU.
[34] N.B. La pena detentiva è stata comunque mantenuta per le ipotesi di illecito reingresso a seguito di provvedimento prefettizio di espulsione di cui all’art. 13, commi 13 e 13-bis, T.U.I. e per il nuovo delitto di illecito reingresso a seguito di respingimento differito ex art. 10, comma 2-ter, T.U.I., introdotto con il decreto Salvini del 2018.
[35] L. Masera, op. cit., p. 9 ss.
[36] Corte cost., n. 275 del 20 dicembre 2017.
[37] Cfr. Ministero dell’interno, circolare 6 ottobre 2015 n. 14106.
[38] Corte EDU, sentenza del 15 dicembre 2016, Khlaifia e a. c. Italia, ricorso n. 16483/12.
[39] ASGI, Fuggire dalla miseria, cercare rifugio in Italia, essere distrutti dallo Stato: quando l’Europa nega l’umano. Libro nero sul Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) di Torino, agosto 2021.
[40] Statewatch, Italy: The Black Book on the Pre-Removal Detention Centre (CPR) of migrants in Turin, 12 ottobre 2021.
[41] Si fa riferimento alle modifiche in materia di hotspot del decreto Salvini.
[42] L. Masera, op. cit., p. 30.
[43] L. Masera, op. cit., p. 30.
[44] Cfr. Bollettino n. 20, 7 aprile 2020. Si veda, per un approfondimento, G. Mentasti, Migranti e detenzione amministrativa in tempo di Covid-19: i bollettini del garante dei detenuti pubblicati durante l’epidemia, in Sistema Penale, 23 giugno 2020, disponibile in https://www.sistemapenale.it/it/scheda/bollettini-garante-migranti-detenzione-amministrativa-covid-19.
[45] A. Di Martino, La disciplina dei CIE è incostituzionale, in DPC, 11.5.2012, e Id., Centri, campi, Costituzione.
[46] M. Savino, Le libertà degli altri – La regolamentazione amministrativa dei flussi migratori, Milano 2012.
Silvia Casu, nata a Varese nel 1995, ha conseguito il diploma di maturità in lingue straniere nel 2014, che le ha permesso di avere buona padronanza della lingua inglese, francese e spagnola.
Iscritta al quinto anno preso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano Statale, ha sviluppato un vivo interesse per la materia internazionale pubblicistica e privatistica, nonché per la cooperazione legale comunitaria, interessi che l’hanno portata nel 2017 ad aprirsi al mondo della collaborazione nella redazione di articoli di divulgazione giuridica per l’area di diritto internazionale di Ius in Itinere.
Attiva da anni nel volontariato e nell’associazionismo, è stata dal 2014 al 2018 segretaria e co-fondatrice di un’associazione O.N.L.U.S. in provincia di Varese; è inoltre socio ordinario dell’ Associazione Europea di Studenti di Legge “ELSA” , nella sezione locale – Milano.