giovedì, Marzo 28, 2024
Di Robusta Costituzione

La tutela dei difensori dei diritti umani nella crisi dello stato di diritto

La tutela dei difensori dei diritti umani nella crisi dello stato di diritto

a cura di Francesca Turilli, vincitrice della Local Essay Competition organizzata da ELSA Bologna ed ELSA Ravenna

Introduzione

L’ ultimo decennio è stato il periodo di incubazione di una severa crisi di quello stato di diritto che i trattati internazionali post-bellici e le neo-costituzioni liberali avrebbero dovuto realizzare.

Il pilastro fondamentale di un nuovo, migliore ordine delle cose era stato senza dubbio ritrovato nel riconoscimento, citando Hannah Arendt, del “diritto ad avere diritti”, vale a dire di un’inalienabile dignità che l’uomo e la donna possiedono naturalmente, in quanto appartenenti ad un’umanità unica e solidale, prescindendo dall’appartenenza etnica, sociale e civile.

Tuttavia, mentre le organizzazioni internazionali rafforzavano il loro ruolo filattico, a livello nazionale i conflitti identitari hanno destabilizzato le fondamenta democratiche a garanzia dell’effettività dei diritti. L’insorgere di governi di fatto autocratici, camuffati da un linguaggio costituzionalista, è un dato di fatto che in alcuni paesi ha prodotto le sue estreme conseguenze, oramai evidenti. Tra di esse, la più grave e significativa consiste nella vessazione di quei soggetti che danno forma all’opposizione democratica, sia nell’ambito delle istituzioni statali che della vita civile, e che possono essere riconosciuti come ‘difensori dei diritti umani’.

Punto di partenza di questo saggio è la constatazione per la quale l’eliminazione dell’opposizione politica, cioè della resistenza democratica agli abusi del potere, viene perseguita per mezzo della distruzione di quei presupposti di civiltà giuridica che compongono lo stato di diritto, quali la certezza della legge, la vigenza dei principi di eguaglianza e discriminazione, la separazione dei poteri e l’indipendenza della magistratura.

Questo rilievo permette di apportare concretezza semantica all’affermazione per la quale “diritti umani, stato di diritto e democrazia sono interconnessi e si alimentano a vicenda”, contenuta nella dichiarazione Onu del 24 settembre 2012.

Di questi tre pilastri del costituzionalismo liberale, però, lo stato di diritto è il meno solido, in quanto privo di una definizione positiva e consensuale che consenta di affidarlo ad una tutela giuridica strutturata. Senza l’impiego di parametri certi sulla validità liberale degli istituti giuridico-statali, non si potranno fronteggiare le subdole trasformazioni operate dagli autocrati di oggi alle strutture essenziali e portanti di una comunità      genuinamente democratica.

Scopo del presente saggio sarà fornire un’esemplificazione di questo assunto, riflettendo sulla connessione tra costituzionalismo illiberale e violazione dei diritti umani, di cui proprio i ‘rights defenders’ sono la chiave.

‘Rule of Law’: una definizione binomica

‘Rule of law’ è un’espressione comunemente rintracciabile in quei trattati internazionali che mirano a far convergere l’impegno degli stati sulla tutela dei diritti umani.

La si ritrova nel Preambolo della Convenzione europea dei diritti umani, che invoca lo Stato di diritto come componente di una comune eredità politica e culturale europea; appare nel preambolo della Dichiarazione Universale dei diritti umani indicando un fattore essenziale rispetto alla tutela dei diritti fondamentali; nell’art 2 del TUE viene annoverata tra i valori condivisi dalla comunità europea, rafforzati, peraltro, dalle forme di enforcement indicate all’art. 7 TUE.

Da queste sole fonti, però, non è possibile dedurre una definizione autonoma e compiuta di stato di diritto, ma soltanto che, infrangendo determinati principi fondamentali, si perde un favorevole riconoscimento internazionale. Lo stato di diritto, in effetti, se scevro di concretezza terminologica, non può risultare né più né meno che uno status identitario, che qualifica certi stati come compiacenti le norme internazionali e altri come avversi ad esse.

Prescindendo da un’autonoma definizione del concetto, niente di più potremmo ricavare dalla pur significativa affermazione dell’art 1 della Dichiarazione dell’assemblea generale Onu, per la quale lo stato di diritto è il fondamento dei principi della carta delle Nazioni unite. Quanto all’affermazione contenuta nella medesima dichiarazione, per cui “I diritti umani, lo stato di diritto e la democrazia sono interconnessi e si alimentano a vicenda”, si rischia invece di lasciare tale connessione sul piano trascendentale, privandola di effettività, se non si perseguono più esaurienti definizioni.

È possibile operare una parziale ricostruzione del significato di ‘Rule of law’ dei vari trattati facendo riferimento alle fonti, sia vincolanti che non, adottate dagli organi istituiti dagli stessi. A questo scopo, è particolarmente d’aiuto il Report on the rule of law adottato dalla Commissione di Venezia nel 2011, da cui ricaviamo che tali fonti ulteriori formano un pattern in cui non è data alcuna definizione sostanziale e generale del concetto. Esso, infatti, viene posto in rilevanza solo in casi circoscritti, in connessione con alcuni aspetti formalistici quali il divieto di arbitrarietà, il principio di legalità, non discriminazione, eguaglianza, separazione dei poteri.

La mancanza di una definizione generale e onnicomprensiva, ha fatto sì che le organizzazioni internazionali, pur fondandosi sull’assioma di una indissolubile correlazione tra stato di diritto e diritti umani, abbiano dato di fatto una maggiore rilevanza alla tutela dei secondi, ponendo il primo in posizione subordinata. Questa dinamica è evidente soprattutto nell’ambito della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, dove la Corte di Strasburgo ha giurisdizione rispetto alla tutela dei singoli diritti umani ma non sul rispetto dei principi dello stato di diritto, mancando nella Convenzione un’apposita clausola protettiva.

La problematica è stata posta in luce, in particolare, dal Report on the rule of law del 2011, con il quale la Commissione di Venezia ha inteso una definizione consensuale del “meno visibile tra i pilastri del Consiglio d’Europa”.

Proprio il Report, pertanto, può fungere da punto di partenza per definire l’essenza autonoma dello stato di diritto. La stessa Commissione trova una definizione agevole e soddisfacente nell’elaborazione proposta da Tom Bingham, per la quale: “Tutte le persone e le autorità dello Stato, siano esse pubbliche o private, dovrebbero essere vincolate e autorizzate da leggi pubbliche, che abbiano effetto per il futuro e siano amministrate pubblicamente nei tribunali”.

In altre parole, Rule of Law significa governo della legge, dove la legge non è lo strumento di controllo del potere politico nei confronti del cittadino, tutt’altro: essa è l’ultimo orizzonte della discrezionalità degli organi statali, così come è in grado di delimitare la libertà dei singoli. Per altro verso, la Rule of law impone che le normative adottate dal potere esecutivo o legislativo, anche nell’interpretazione che ne è data, si confrontino con la resistenza di una parte inviolabile della legge preesistente.

A titolo esemplificativo, possiamo considerare i principi fondamentali della Costituzione come la sostanza dello Stato di diritto nel nostro ordinamento, cui deve conformarsi il potere legislativo, anche quello di modifica costituzionale, pena l’illegittimità della legge positiva.

D’altra parte, quest’esempio non rappresenta che una delle concezioni storiche dello stato diritto, vale a dire quella adottata dal neo-costituzionalismo della seconda metà del Novecento e non ha pertanto una pretesa di esaustività universale. Del resto, la stessa definizione accolta dalla commissione di Venezia ha valore esplicativo solo perché “consensuale”, vale a dire perché corrispondente ad un minimo comune denominatore tra le varie nozioni possibili, rappresentato da un nugolo di prerequisiti essenziali di civiltà giuridica: il principio di legalità, di certezza del diritto, il divieto di arbitrarietà, l’accesso ad una giustizia gestita da una magistratura terza ed imparziale, il rispetto dei diritti umani, il principio di non discriminazione e di eguaglianza dinanzi alla legge.

Dal complesso del report, inoltre, emerge come il concetto di rule of law che traspare dai trattati internazionali non coincida con quello di ‘Rachstaat’ presente nella Grundnorm tedesca né con il Rule of law riconosciuto dalle corti inglesi o con le varie nominazioni che si ritrovano nelle costituzioni di altri paesi europei.

In linea generale, si può notare una differenza fondamentale tra le positivizzazioni internazionali e quelle nazionali: mentre le prime, mettendo in connessione lo Stato di diritto con i diritti umani e la democrazia, si appoggiano ad una concezione sostanzialistica, tipica del Novecento, le seconde accolgono il retaggio ottocentesco delle prime dottrine sul tema e del loro approccio formalistico. Da un lato, quindi, “Stato di diritto” può evocare semplicemente una fonte positiva suprema cui l’arbitrio politico deve attenersi, che sia il diritto delle corti teorizzato da Dicey o la Norma suprema di Robert Von Mohl; dall’altro, quello stesso diritto inviolabile si ritrova in principi fondamentali esterni alla legge positiva e consustanziali alla dignità umana, ma da essa accolti e riconosciuti.

Lo Stato di diritto, per lo meno lo stato liberale, ha due anime, di cui una attiene alla forma delle istituzioni statali e del sofisticato equilibrio di poteri su cui queste si reggono, mentre l’altra alla sostanza di quei valori di libertà e dignità universale in cui la stessa legge trova il suo scopo ultimo. Esse sono interdipendenti, nel senso che la prima funge da garanzia formale della seconda, mentre solo la seconda informa la prima nella composizione di una democrazia sostanziale.

Il costituzionalismo illiberale e i suoi nemici 

Distinguere le due anime dello stato di diritto consente di riconoscere le storture e le involuzioni che si esprimono nel paradosso del ‘costituzionalismo illiberale’.

Tale fenomeno consiste nell’innestarsi di autocrazie di fatto all’interno di strutture che ricostruiscono virtualmente la tipicità dello stato di diritto. È il caso di uno stato che presenta tutti gli organi tipici della democrazia, un Governo, un Parlamento, un Consiglio superiore della magistratura, una Corte costituzionale, ma dove il primo riesce di fatto a prevalere sugli altri violando l’imperio delle leggi fondamentali. Non si verifica nessuna rivoluzione evidente, nessuna delle istituzioni preesistenti viene eliminata, ma ciascuna perde la propria autonomia e diventa uno strumento nelle mani dell’esecutivo.

Questa definizione può chiarirsi in modo efficace facendo riferimento alla pratica del court-packaging, che è una cifra di queste “autarchie liberali”, accumunando le riforme giudiziarie di Russia, Turchia, Egitto, Venezuela, Polonia e Ungheria.

Essa consiste nel cambiare la compagine dei giudici delle Corti in modo da introdurre fedeli all’esecutivo, elevando o diminuendo il numero dei componenti o sostituendo quelli in carica.

La riforma giudiziaria operata da Erdogan nel 2017 ne è un esempio magistrale. Nell’ambito delle manovre legislative conseguenti il tentato golpe del 2016, il numero dei giudici della Corte Costituzionale è stato portato da 17 a 15, di cui già 10 sono stati scelti da Erdogan stesso o, di fatto, dalla maggioranza parlamentare che lo supporta. Di conseguenza, anche in caso di rimpasto parlamentare al termine della presente legislatura, l’opposizione dovrà fare i conti con una Corte Costituzionale che sarà il braccio istituzionale di Erdogan.

Un’altra riconoscibile strategia di ‘packaging’ consiste nell’abbassamento dell’età pensionabile dei magistrati. Dietro un’innocua riforma pensionistica, cui possono trovarsi disparate giustificazioni di facciata, si nasconde l’obiettivo di realizzare un agevole ricambio della magistratura favorevole all’esecutivo. Non a caso, questo tipo di manomissioni legislative si inseriscono in riforme organiche che innovano anche i criteri di nomina.

Un esempio rilevante è dato dalle leggi che in Polonia hanno abbassato l’età pensionistica dei magistrati e sono intervenute sulle misure disciplinari del corpo della magistratura, provocando un severo conflitto con la Commissione europea, nelle forme del procedimento ai sensi dell’art 7 TUE.

Tale contrasto stenta a trovare una risoluzione, non solo per l’inerzia del Consiglio, ma anche perché, nonostante il procedimento di infrazione in atto, nel 2020 si è praticato un ultimo, gravissimo affronto per l’indipendenza della magistratura. È stata introdotta una legge che, prevedendo importanti sanzioni disciplinari, di fatto impedisce ai giudici polacchi di fare ricorso alla Corte di giustizia europea rispetto ai criteri di nomina dei giudici, privandoli della possibilità di intervenire per far fronte a pratiche contrarie alle regole e ai principi dell’Unione.

I giudici, inoltre, non sono attaccati soltanto per mezzo di leggi incompatibili con il principio di indipendenza della magistratura, ma anche attraverso un costante accanimento mediatico, spia di una crisi che non si riduce all’aspetto istituzionale, ma che ha anche ripercussioni culturali.

Negli stessi paesi dove i magistrati sono impossibilitati a svolgere quella funzione consustanziale alla resa di   un genuino stato di diritto, i difensori dei diritti umani sono sottoposti a ripercussioni per il loro impegno civile. Anche rispetto a queste figure i mezzi di intimidazione e repressione sono molteplici, comprendendo la stigmatizzazione mediatica, la criminalizzazione, la pratica di arresti arbitrari. A titolo di esempio, è opportuno fare riferimento alle leggi ‘Anti Soros’ di Orban, che impongono alle ONG significativi impedimenti alla possibilità di finanziarsi con fondi esteri, e i processi giudiziari che in Turchia sono diventati il pretesto legalistico per combattere l’opposizione politica.

Il danno che queste misure infliggono alla tenuta dei diritti e delle libertà della comunità sono evidenti, se si considera che “il diritto ad avere di diritti” non basta a sé stesso se non supportato dalla ‘libertà di avere diritti’. La tutela dei diritti umani, infatti, non può intendersi soltanto nei termini dei doveri negativi che lo Stato, nell’esercizio della sua potestà, deve rispettare a favore della persona, ma deve permeare anche il modo in cui i soggetti sono in grado di agire nella vita civile, tutelandone le scelte, le attività ed ogni esternazione di rilevanza sociale.

Oltre ai diritti fondamentali, l’accanimento contro i difensori dei diritti umani danneggia lo stato di diritto anche in relazione al principio di legalità e al principio democratico.

Rispetto al principio di legalità, bisogna considerare l’esigenza, propria di ogni autocrazia, di eliminare ogni opposizione interna agli organi statali. Sono soprattutto i giudici a farne le spese. Se è vero, come disse Calamandrei, che i magistrati sono garanti dello stato democratico perché tenuti ad applicare il diritto “come tale e non come era prima di divenirlo, quando era ancora politica”, i moderni i tiranni li attaccano perché non ammettono legge applicata che sfugga alla loro volontà politica.

La causa del deperimento democratico, invece, risiede essenzialmente nella comune connotazione populistica dei movimenti politici fautori del costituzionalismo abusivo.

Il passaggio dalla retorica populistica allo smantellamento delle strutture giudiziarie potrebbe non sembrare immediato, eppure le strutture istituzionali non sono altro che l’effetto estremo di quello specifico linguaggio politico.

Nel 2004 Case Mudden ha definito il fenomeno populista come una “ideologia leggera” che “considera la società drasticamente separata tra due gruppi omogenei e antagonisti, il popolo puro contro l’élite corrotta, e che afferma che la politica dovrebbe essere un’espressione della volonté générale del popolo. Il populismo, così definito, si compone di due opposti: l’elitismo e il pluralismo”.

Il populista si arroga legittimità sul presupposto di parlare per il popolo, rappresentando la sovranità democratica e non un interesse economico settoriale.

Tuttavia, quando un leader populista pretende di rappresentare il popolo, fa riferimento ad una idea precisa di cosa appartiene e cosa non appartiene al popolo. “Popolo” non è l’umanità globale, non è il destinatario collettivo di diritti inalienabili ed universali, ma è la componente maggioritaria della comunità che si identifica per lo più nel concetto di natività, ma anche rispetto a categorie raziali, etniche, religiose, di genere e di orientamento sessuale. Il linguaggio populista ha dunque      la caratterista di circoscrivere il perimetro della titolarità di diritti e doveri ad una identità esclusiva, presumendo che il popolo così inteso abbia il diritto di governare come desidera.

Detto questo, è facile capire in che modo i populismi abbiano una forte potenzialità antidemocratica, dal momento che propugnano la vigorosità della maggioranza a dispetto del rischio di opprimere le minoranze.

Il rispetto delle minoranze e il pluralismo, d’altro canto, compongono l’anima che dovrebbe informare le istituzioni tipiche dello stato di diritto. Il parlamento è solo virtualmente l’organo principale di una democrazia, se l’opposizione non è assicurata nelle sue minime prerogative e se al di fuori di esso la cittadinanza non  è libera di attivarsi politicamente in senso contromaggioritario.

In tale contesto, è possibile apprezzare il valore della Dichiarazione delle responsabilità individuali adottata dall’Assemblea generale delle nazioni unite il 9 Dicembre 1998. All’articolo 9 della stessa, si legge:

“In the exercise of human rights and fundamental freedoms, including the promotion and protection of human rights as referred to in the present Declaration, everyone has the right, individually and in association with others, to benefit from an effective remedy and to be protected in the event of the violation of those rights”.

D’altra parte, la mera dichiarazione della tutela giuridica di un diritto, presenta dei limiti, in quanto la sua     effettività in termini di sorveglianza internazionale non può prescindere dal riconoscimento di particolari prerogative ai soggetti impegnati nella tutela dei diritti umani, vale a dire di uno specifico status di difensore dei diritti umani. Quali soggetti debbano rientrare in tale status, è un nodo tuttora problematico. Comunemente, si fa riferimento agli attivisti appartenenti a ONG senza scopo di lucro che conducono operazioni non violente per promuovere e tutelare i diritti umani. Tuttavia, lo stesso scopo può essere raggiunto in molteplici modalità, a prescindere dall’appartenenza ad una struttura organizzata e indipendente dagli organi statali e anche dalla sistematicità dell’attività.

Difensore dei diritti umani può essere considerato, per l’appunto, anche un giudice nell’esercizio delle sue funzioni, essendo investito di un ruolo imprescindibile per il loro esercizio e per la loro tutela. A tale proposito, è singolarmente rilevante la giurisprudenza della Corte interamericana dei diritti dell’uomo che, pronunciandosi su peculiari contesti di sistematica intimidazione e violenza a danno dei magistrati, ha individuato in capo allo Stato obblighi positivi inerenti all’investigazione, dunque all’attivazione di difese giudiziarie, su eventi criminosi ai danni della sicurezza personale dei giudici.

Interessante, inoltre, è il punto di chi sostiene che la tutela dei difensori dei diritti umani debba basarsi, più che su una disagevole definizione comprensiva, sul discernimento delle misure governative volte a contrastare un’attività sostanzialmente protettiva dei diritti e delle libertà fondamentali. Personalità eminenti e pubblicamente schiarate, giudici, avvocati e attivisti farebbero dunque parte della categoria nel momento in cui formano un fronte di opposizione politica, osteggiata e  stigmatizzata come corrotta o sovversiva.

Tutela dei diritto umani e lotta al costituzionalismo abusivo

Esiste, quindi, una correlazione non trascurabile tra l’affermazione di una autocrazia che si finge democratica e la violazione delle libertà dei difensori dei diritti umani.

Ciò fa pensare che la tutela di coloro che contribuiscono all’esercizio effettivo dei diritti non possa prescindere da una lotta efficace al costituzionalismo abusivo.

Stando alle attuali fonti internazionali e alla pratica costante dei loro organi, ad oggi l’unica strategia applicabile sarebbe imperniata alla tutela di singole posizioni soggettive. Se ancora non esiste uno status in cui riconoscere i difensori dei diritti umani, le loro prerogative sono scomponibili nei diritti positivizzati nei trattati internazionali, quali ad esempio la libertà di espressione, di riunione e associazione, la libertà personale, il diritto ad un giusto processo. Solo inquadrando un fatto lesivo come violazione di un diritto soggettivo, infatti, è possibile ricorre alla corte di Strasburgo.

Quest’approccio ha però dei limiti strutturali se l’obiettivo da porsi è debilitare a monte la repressione delle opposizioni istituzionali e civili da parte dei governi illiberali. Non bisogna dimenticare, del resto, che gli eventi repressivi raramente sono episodici, ma più spesso sono riconducibili a pratiche sistematiche o risultano da operazioni che hanno una portata generalistica, come l’adozione di specifiche misure legislativa. Di conseguenza, il tipico approccio casistico e soggettivistico potrebbe risultare non efficace.

La risoluzione della Corte di Strasburgo sul caso Baka vs Hungary porta alla luce significativi profili critici.

Le stesse premesse di fatto sono esemplari rispetto alla definizione di costituzionalismo abusivo. Il giudice Andràs Baka, presidente della Corte Suprema ungherese, aveva esternato un’opinione contraria alle riforme costituzionali volute da Orbàn nel 2011, che di fatto realizzavo un “court packaging”. Alla fine del 2011, con un emendamento si introdussero nuovi criteri per la nomina della Corte suprema, che era già stata significativamente riformata, e allo stesso tempo venne imposta la decadenza dalla carica del presidente. Si trattava evidentemente di una legge ad personam, in quanto il soggetto destinatario era un    singolo riconoscibile e per di più i nuovi criteri risultavano incompatibili con il profilo di Baka.

Clamorosa, quindi, era la violazione del principio di generalità della legge.

Al vaglio della Corte di Strasburgo, però, tale vizio è stato adombrato dalle questioni relative alla libertà di espressione e al principio di inamovibilità dei giudici e di indipendenza della magistratura. La scelta di inquadrare il fatto negli ultimi due profili presenta essenzialmente due profili di criticità, consistenti nella mancanza di persuasività della decisione e nella sua scarsa efficacia preventiva. La mancanza di persuasione sarebbe data dalla possibilità di eccepire da un lato che la libertà di espressione di un giudice non è affatto un principio consensuale a livello europeo e dall’altro che Baka non è stato estromesso dalla funzione di giudice, ma dalla carica di presidente, che ha connotazioni più amministrative che giudiziarie. L’inefficacia preventiva, invece, si realizza nella mancata occasione di ridefinire il concetto di stato di diritto, attraverso l’elaborazione di parametri con cui qualificare certe disfunzionalità strutturali. Nel caso di specie, un intervento davvero efficace si sarebbe dovuto incentrare su due profili significativi: da un lato il ruolo originario del presidente della corte suprema ungherese, che, retaggio del costituzionalismo sovietico, è eccessivamente rilevante, tanto da creare uno sbilanciamento nella divisione dei potere che sarebbe in ogni caso indigesto per l’esecutivo; dall’altro, come si è già detto, la pratica governativa di creare una legge ad personam, lesiva del principio di legalità.

La Corte di Strasburgo, però, non avrebbe avuto il potere di pronunciarsi su tali aspetti, perché con ciò avrebbe svolto un ruolo di revisione legislativa che non compete alla sua giurisdizione, fintanto che nell’ambito del Consiglio d’Europa non si stabiliscono definizioni puntali e parametri di giudizio sugli elementi costitutivi dello Stato di diritto.

Il risultato, rispetto al caso in esame, è che la singola decisione sul caso Baka resta inefficace per prevenire ulteriori violazioni, in quanto influirà come un fievole e poco convincente precedente sulla libertà di espressione, mancando il punto verace della questione.

Le stesse criticità possono afferire anche alle altre giurisdizioni internazionali, in quanto in nessun ambito è stata finora elaborata una tutela istituzionale né specificatamente per i giudici né in generale per i difensori dei diritti umani. In merito, poi, all’ambito circoscritto dell’Unione europea, sarebbe opportuno rimandare nel tempo ogni rilevazione, in quanto l’adozione della procedura di cui all’art. 7 contro la Polonia non ha prodotto finora alcuna risoluzione effettiva; il ritardo del Parlamento nel dare esito all’impulso del consiglio, del resto, è già di per sé indicativo e lo stesso concetto di stato dell’art 2, di diritto di cui l’art 7 costituisce l’enforcement, resta di per sé vago, dunque inefficace rispetto ad una tempestiva individuazione dell’inadempimento. Ad esempio, l’abbassamento dell’età pensionabile dei giudici, quando messo in atto da Orban, aveva dato luogo ad un caso di discriminazione di genere; solo quando la stessa pratica è stata reiterata dalla Polonia è stata osteggiata per quel che era.

Le stesse problematicità che si riscontrano in merito alla tutela dell’indipendenza dei giudici, inoltre, sono riferibili ad altri abusi e oltraggi subiti da altre tipologie di difensori dei diritti umani. Come manca una tutela istituzionalizzata per i giudici, a maggior ragione manca per i difensori dei diritti umani, mentre la mancanza di strumenti di intervento sulla condizione dello stato di diritto ha le stesse conseguenze per tutte le categorie.

Si pensi, ad esempio, alla reiterazione di arresti arbitrari e processi politici che in Turchia affligge gli oppositori politici, di cui i casi di Taner Killik e di Osman Kavala sono i più emblematici. Gli interventi dell’organo internazionale più prossimo, che è la Corte europea per i diritti dell’uomo, si limiterebbero all’accertamento casistico di singole violazioni della libertà di espressione, di riunione o del divieto di arresto arbitrario. In questo modo, tuttavia, non si risolverebbe l’aspetto più grave delle vicende, che consiste proprio nella sistematicità e nella tendenza recidiva di certe pratiche. A tale proposito si può fare riferimento il caso di Osman Kaval, che dopo l’apparente soddisfacimento delle statuizioni della corte di Strasburgo circa la sua prima detenzione ha poi subito un secondo arresto.

È evidente che la Corte non abbia tra le mani gli strumenti adatti a recidere questi fenomeni alla radice.  Senza l’elaborazione di principi che consentano di informare l’azione penale al principio di legalità,  quali quelli di generalità e irretroattività della legge, offensività e causalità del fatto penale, difficilmente la Corte potrà conseguire una soluzione strutturale all’abuso della legislazione penalistica, che, piegata all’arbitrio politico, trasforma l’opposizione civile in terrorismo e confonde un fatto irrelato con  prova risolutiva, come nel caso di Taner KIllik  il possesso di un’applicazione per la navigazione in incognito è stato considerato una prova schiacciante di colpevolezza.

Conclusioni 

Gli esempi proposti denunciano essenzialmente l’insufficienza degli strumenti del diritto internazionale e comunitario rispetto alla tutela dei rights defenders. Si riscontrano mancanze sia a livello teorico che a livello operativo: non esiste uno status normativo di difensore dei diritti umani né sono disponibili specifiche protezioni giurisdizionali. Queste lacune non sono neanche colmate da un apparato giuridico normativo in grado di preservare la validità e la genuinità dello stato di diritto.

D’altro canto, si è visto che l’idea di Stato di diritto, seppure non compiutamente definibile, è riconoscibile rispetto ai valori che le sono conseguenziali, dal momento che senza il concetto di legalità non si potrebbe neppure abbozzare un’idea di democrazia. Che poi, sul piano pratico, la legalità sia presupposto imprescindibile di democrazia, è dato di fatto dimostrato proprio dalle operazioni del costituzionalismo illiberale. Si rileva, pertanto, il paradosso per cui il concetto di stato di diritto è in sé idealmente riconoscibile, ma le sue concrete storture restano difficili da individuare e correggere in modo tempestivo.

Alla luce di questo stato delle cose, non si può che auspicare lo sviluppo di una legislazione e di una casistica giurisprudenziale mirate al riconoscimento e alla neutralizzazione degli illiberismi, perché un nemico non riconoscibile si percepisce come un mulino a vento e sembra velleitario o folle chi lo combatte senza esserne tutelato.

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