martedì, Marzo 19, 2024
Uncategorized

La tutela del diritto d’autore ed il mondo digitale: Authors Guild of America vs Google

Nel trattare l’argomento del rapporto tra la tutela del diritto d’autore e la digitalizzazione delle opere, punto di interesse è sicuramente l’articolata vicenda che vide come protagonisti principali Google e l’Authors Guild of America ebbe inizio verso la fine del 2004, quando Google lanciò il servizio Book Search (“Ricerca Libri” nella versione italiana).

Questo servizio si proponeva, tramite una serie di accordi presi con un considerevole numero di biblioteche, di effettuare la digitalizzazione dei libri cartacei presenti nelle collezioni delle stesse, nelle quali erano inclusi, però, anche titoli protetti dalle leggi statunitensi sul copyright. In ragione di questa circostanza, con il Book Search le opere letterarie non tutelate da copyright avrebbero potuto essere scaricate e visualizzate nella loro completezza, mentre delle opere protette sarebbero stati disponibili alla consultazione solo degli stralci, di lunghezza variabile in relazione alla presenza o meno dell’assenso dell’autore.

Come conseguenza a ciò, nel 2005 l’Authors Guild of America [1], sotto forma di class action [2][3], citò in giudizio Google, sostenendo, da una parte, che, essendo l’attività di digitalizzazione svolta senza previa autorizzazione da parte dei titolari dei diritti sulle opere in oggetto, costituiva una violazione del fair use consentito dalla legge sul copyright, e chiedendo, dall’altra, quale risarcimento, il versamento di un importo di $ 1.500 circa  a libro (a detta di molte testate giornalistiche, tra cui il Guardian), di cui circa $ 750 per la copia più altri 750 di danni (nel caso in cui fosse stato “sconfitto”, Google avrebbe dovuto risarcire circa tre miliardi di dollari). Nei fatti, quello che Google stava facendo, a detta dell’accusa, altro non era che un’iniziativa di carattere commerciale volta a creare una banca dati di opere letterarie senza, però, alcun tipo di remunerazione per i titolari dei diritti d’autore sulle stesse.

La difesa di Google, invece, sosteneva che l’attività di digitalizzazione dei testi e la visibilità di frammenti o brevi paragrafi degli stessi non implicavano una violazione del copyright, essendo autorizzata dal principio (previsto proprio dalla legge statunitense sul copyright) del fair use. Inizialmente le parti, su iniziativa di Google, optarono per la stipula di un accordo transattivo per poter “chiudere” la class action.

L’intesa raggiunta si occupava di regolare, sostanzialmente, tre situazioni:

  1.  il destino dei volumi digitalizzati fino a quel momento;
  2.  in quali casi Google sarebbe stato autorizzato a digitalizzare senza previa autorizzazione da parte degli aventi diritto nuovi volumi e quali utilizzi ne avrebbe potuto fare;
  3.  i termini economici delle successive digitalizzazioni in accordo con gli aventi diritto.

L’accordo, tuttavia, regolava le condizioni per gli utilizzi di tali opere non solo da un punto di vista commerciale, ma anche di diversa natura, quali la consultazione delle copie digitali all’interno delle biblioteche proprietarie delle collezioni, o anche la possibilità, per alcuni ricercatori, di utilizzare la banca dati per analisi necessarie per le loro ricerche. In base ad esso, in pratica, Google Books otteneva una sorta di “licenza generale” per le opere letterarie, cosa che, a meno che gli aventi diritto non reclamassero quanto loro dovuto, implicava la massima libertà d’azione, senza contare, poi, che il costo della ricerca del contenuto da rimuovere non avrebbe più gravato “sulle spalle” di Google ma sarebbe stato a carico degli aventi diritto.

Pur se stipulato negli Stati Uniti d’America un simile accordo ebbe forti ripercussioni anche nell’area europea. Molti furono, infatti, le voci che si levarono contro di esso, come, ad esempio, il presidente della Biblioteca Nazionale di Francia, Jean-Noël Jeanneney [4], che rifiutò di concedere i propri libri a Google accusando gli USA di “imperialismo culturale”, mentre altri sostenevano che, in realtà, scopo di Google fosse costruire un monopolio su libri ancora protetti da copyright ma non più oggetto di stampa (quindi, non rivendicati dagli aventi diritto, le c.d. “opere orfane”), di cui sarebbe diventato, di fatto, l’unico distributore. Il fatto, poi, che l’accordo fosse vago nell’indicare la distinzione tra libro in commercio o fuori commercio, suscitava forti perplessità, specie considerando il fatto che, negli USA, perché un libro possa essere considerato come not commercially available (non disponibile in commercio) non deve essere reperibile in un “canale commerciale abituale” per gli Stati Uniti, e la definizione statunitense di “canale commerciale abituale” è diversa rispetto a quella europea.

In conseguenza di ciò, verso la fine del 2009 venne presentata una nuova versione dell’accordo, il cui ambito di applicazione non avrebbe più riguardato indefinitamente tutti i libri stranieri, ma solamente quelli pubblicati in Canada, Australia, Stati Uniti d’America e Regno Unito (in ogni caso comprendendo tutti i libri registrati presso il Copyright Office di Washington), in qualunque tempo e luogo fossero stati pubblicati.

Anche in questo caso le critiche non si fecero mancare (specie da parte dei paesi dell’area europea) e furono tante e tali da richiedere l’apertura di un’inchiesta da parte della Commissione europea. Alla fine, oltre alle opposizioni formali mosse dagli editori di Italia, Germania, Francia, Austria, Norvegia e Svezia innanzi alla Corte di New York, vertenti, in particolare, proprio sull’inclusione dei libri registrati presso il Copyright Office di Washington, dato l’ingente numero degli stessi (tale registrazione era indispensabile, negli anni ottanta, per tutelare le opere straniere negli USA), anche la Federazione Europea degli Editori (FEP), che riunisce gli editori di 26 paesi, si oppose al progetto. Punto centrale della sua opposizione era il fatto che l’accordo (o Settlement) per “chiudere” la suddetta class action (che andava a coinvolgere anche qualsiasi opera libraria europea disponibile sul mercato Usa), non poteva costituire una soluzione per l’Europa, in quanto il suo ambito di applicazione non poteva in alcun modo essere esteso al di fuori degli Stati Uniti d’America.

In ultimo, tale proposta di accordo non ottenne l’approvazione del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ), la quale temeva che Google avrebbe guadagnato così il monopolio sui libri digitalizzati.

Per diventare efficace, l’accordo avrebbe dovuto essere approvato dal Tribunale di New York, tuttavia, data la quantità di opposizioni presentate da più voci diverse, nel marzo 2011 la corte lo respinse, concordando sul fatto che “la creazione di una biblioteca digitale universale andrebbe a beneficio di molti, ma che concederebbe anche a Google un ‘monopolio di fatto’“.

Tutto ciò segnò la fine delle trattative tra accusa e difesa, con la conseguenza che la vicenda giudiziale poté proseguire con l’udienza del 7 ottobre 2009 innanzi al Tribunale di New York.

Questa prima fase della controversia ebbe fine con la pubblicazione della sentenza di primo grado del detto Tribunale nel 2013, con la quale fu stabilito che il servizio Google Books non costituiva, nel suo operare, una violazione della legge americana sul diritto d’autore ma, anzi, rappresentava, come scritto nelle motivazioni dal presidente della corte Denny Chin [5], un “beneficio pubblico”, in quanto andava a creare un motore di ricerca per opere letterarie pressoché introvabili. Oltre al “dare nuova vita” a libri irreperibili perché, ormai, fuori commercio, altri fattori, sosteneva la corte, facevano sì che l’attività di digitalizzazione posta in essere da Google rientrasse nei confini del fair use (o giusto utilizzo), come, ad esempio, il vantaggio procurato alle biblioteche situate in aree periferiche o dotate di fondi limitati, cui il servizio dava nuove possibilità di accesso ai testi, o anche il fatto che, grazie proprio a tale attività, Google costituiva uno strumento indispensabile per l’attività di ricerca bibliografica.

L’Authors Guild of America, in completo disaccordo con la detta sentenza, decise di rivolgersi al “secondo circuito” del sistema giudiziario americano. L’esito, tuttavia, non fu diverso da quello del primo grado. Con sentenza del 16 ottobre 2015, infatti, la seconda Corte d’Appello di New York, presieduta dal giudice Denis J. Butler, ha stabilito che gli editori non subiscono alcun tipo di danno economico dalla digitalizzazione, in quanto il progetto Google Books “rispetta le norme sulla proprietà intellettuale delle opere giacché i libri protetti da diritti di privativa non sono visionabili integralmente e, allo stesso tempo, quelli protetti sono visionabili solo con il consenso dell’autore e dell’editore e, in ogni caso, in misura ridotta”[6][7].

Come ultimo tentativo, i legali dell’Authors Guild presentarono ricorso innanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti, senza riuscire a fare sì (di nuovo), che Google ne uscisse sconfitto.

Per meglio dire, il 18 aprile 2016 la Corte Suprema statunitense ha rifiutato di riaprire la causa intentata a Google, dichiarando inammissibile il ricorso e mettendo, così, fine alla lunga battaglia legale che vedeva coinvolti l’Authors Guild e Google da oltre dieci anni.

Per i sostenitori dell’open access, ovviamente, la conclusione della vicenda risultò estremamente positiva, per quanto non mancassero gli aspetti controversi, come fatto notare, ad esempio, dall’ex presidente di Wikimedia Italia e responsabile del progetto open Mlol (primo network italiano di biblioteche digitali pubbliche), Andrea Zanni. Pur essendo anch’egli un acceso sostenitore del tema, infatti, Zanni commentò la decisione della Corte rilevando che “Da una parte, l’istituzione americana rafforza il principio per cui tutti, studiosi e non solo, abbiamo il diritto alla conoscenza. E Google fa di più: non si limita a scansionare, fa anche text mining, cioè indicizza i testi e analizza i dati. Allo stesso tempo, però, delegare la digitalizzazione del sapere a una multinazionale rappresenta un rischio. E se Google a un certo punto “chiudesse” quel sapere? Se utilizzasse quei dati a proprio vantaggio competitivo? Ad esempio, Big G può mettere a frutto tutti quei testi per darli in pasto ai propri sistemi di intelligenza artificiale, in modo da collaudarli, “allenarli” ed essere più competitiva di altri. La questione va al di là del copyright: il 70% delle opere di biblioteca è “orfano”, lasciare questo patrimonio in mano a una multinazionale significa anche darle una sorta di delega alla cultura”[8].

Ciò posto, appare chiaro che tutta la vicenda ruota intorno ad un unico perno, ovvero il concetto del fair use. È giusto, quindi, analizzare cosa sia tale istituto.

Prima di tutto, con il termine fair use si intende quella disposizione legislativa, contenuta nel titolo 17 dello United States Code del 2010 [10] (come tutta la disciplina USA sul copyright), che disciplina la facoltà di utilizzare materiale protetto da copyright per scopi d’informazione, critica o insegnamento, senza che sia necessario chiedere l’autorizzazione scritta degli aventi diritto. Affinché tale disposizione possa trovare applicazione è necessario che ricorrano quattro precisi fattori, ovvero:

  1. la natura dell’opera coperta da copyright, che deve presentare un livello minimo di creatività;
  2. lo scopo ed il carattere dell’uso;
  3. quantità e la consistenza della parte utilizzata in relazione all’opera protetta da copyright nel suo complesso;
  4. l’impatto che la riproduzione dell’opera avrà sia sul mercato esistente che sul mercato potenziale.

In particolare, nell’esaminare il quarto fattore, (considerato, nel mondo giudiziario americano, come il fattore più importante) un tribunale cercherà di vedere quanto il valore di mercato dell’opera protetta da copyright è influenzato dall’uso in questione e, sebbene il titolare del copyright non abbia necessariamente stabilito un mercato per il lavoro in anticipo, deve dimostrare che il mercato è “tradizionale, ragionevole o suscettibile di essere sviluppato”[9].

In ogni caso, la valutazione dell’impatto sul valore di mercato di un lavoro protetto da copyright andrà spesso a sovrapporsi al terzo dei fattori detti, per la semplice ragione che la quantità e l’importanza della porzione utilizzata spesso determinano quanto valore perde l’originale (es: se si pubblicano solo cinque righe di un’opera che conta 200 pagine non si danneggerà il mercato dell’originale così come potrebbe fare la pubblicazione dell’intera opera).

[1] Fondata nel 1912, è la più antica e la più grande organizzazione professionale americana per scrittori. Si occupa di offrire supporto in questioni di libera espressione e protezione del copyright

[2] Class action è l’azione collettiva di una categoria nei confronti di una sola controparte

[3] svolgimento della controversia disponibile qui: https://dockets.justia.com/docket/new-york/nysdce/1:2005cv08136/273913

[4] critiche di Jean-Noël Jeanneney a Google Books disponibili qui: http://www.dlib.org/dlib/december06/bearman/12bearman.html

[5] Opinion del giudice Denny Chin, disponibile qui: https://docs.justia.com/cases/federal/district-courts/new-york/nysdce/1:2005cv08136/273913/1088

[6]  F. Pizzabiocca, “Google books e la diffusione del “sapere letterario”, disponibile qui: https://iusletter.com/archivio/google-books-e-la-diffusione-del-sapere-letterario/

[7] Case 13-4829, Document 230-1, 10/16/2015, 1620658, disponibile qui:

[8] F. Benedetti, “Usa, Corte Suprema dà torto agli autori: Google Books libera di scansionare milioni di libri”, 19 aprile 2016, quotidiano Repubblica, disponibile qui: https://www.repubblica.it/tecnologia/2016/04/19/news/copyright_google_books_corte_suprema_usa-137949980/

[9] Ringgold v. Black Entm’tTelevision, Inc., 126 F.3d 70 (2d Cir. 1997), disponibile qui: https://law.justia.com/cases/federal/appellate-courts/F3/126/70/497885/

[10] Art. 17 U.S. Code Title 17—COPYRIGHT, disponibile qui: https://www.law.cornell.edu/uscode/text/17

Valentina Ertola

Dott.ssa Valentina Ertola, laureata presso la Facoltà di Giurisprudenza di Roma 3 con tesi in diritto ecclesiastico ("L'Inquisizione spagnola e le nuove persecuzione agli albori della modernità"). Ha frequentato il Corso di specializzazione in diritto e gestione della proprietà intellettuale presso l'università LUISS Guido Carli e conseguito il diploma della Scuola di specializzazione per le professioni legali presso l'Università degli Studi di Roma3. Nel 2021 ha superato l'esame di abilitazione alla professione forense. Collaboratrice per l'area "IP & IT".

Lascia un commento