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La tutela della salute dei migranti a rischio di espulsione: l’approccio della CEDU

All’interno della disciplina medica è data particolare rilevanza alla c.d. “medicina delle migrazioni”, un settore necessariamente multidisciplinare, in cui medicina, diritto e antropologia condividono il medesimo obiettivo, ossia quello di garantire la più estesa assistenza medica possibile e le cure più efficaci, anche alla luce delle esigenze degli individui, della propria cultura e del proprio modo di intendere il concetto di “salute”.

Simili valutazioni ed obiettivi sono condivisi anche dal diritto internazionale e, in particolare, dall’attività di diverse organizzazioni, tra cui OMS e UNHCR, che hanno evidenziato come sia necessario che le autorità promuovano, attraverso provvedimenti effettivi, la più estesa tutela possibile per migranti e rifugiati. Ciò richiede, in particolare, una visione d’insieme del fenomeno, che tenga conto anche delle asperità e delle difficoltà che i migranti e i rifugiati devono affrontare nel loro viaggio in ricerca di sicurezza, protezione e prospettive[1]. In questo senso, nel diritto internazionale, non vi sono ragioni per garantire un trattamento differenziato in base al titolo con cui un individuo viene accolto in un paese, posto che le esigenze e i bisogni dei migranti sono i medesimi, così come sarebbero medesime le conseguenze pregiudizievoli sulla salute degli individui[2].

Nonostante l’attenzione che comunità internazionale e società civile rivolgono alla questione migratoria, l’approccio della Corte europea dei diritti dell’uomo è molto conservativo ed è frutto di una giurisprudenza che ha visto spesso invocato il diritto alla salute come “scudo” per difendere i migranti da espulsioni e respingimenti. Come sottolinea il giudice Pinto de Albuquerque nella sua opinione alla recente sentenza Lopes de Sousa Fernandes c. Portogallo[3], infatti, la Corte è molto reticente su questo tema: aumentare in maniera esponenziale la tutela nei confronti dei migranti e degli stranieri malati sarebbe il primo passo verso la creazione di un’area sicura dal punto di vista medico, favorendo, anche se in maniera indiretta, la c.d. immigrazione medica[4]. Proprio in questo senso, i giudici di Strasburgo hanno applicato uno standard di tutela molto basso – e molto criticato, riconoscendo come l’espulsione di persone malate non causi per se una violazione di diritti convenzionalmente garantiti (quali, ad esempio, l’articolo 3 e l’articolo 8 CEDU), persino nel caso in cui vi sia la possibilità che la procedura di espulsione possa causare un deterioramento delle condizioni fisiche del paziente dovute alla scarsa assistenza medico-sanitaria che l’individuo riceverebbe nel paese di origine.

Non sempre però la Corte ha avuto un approccio così stringente e conservatore. In una delle prime pronunce sul tema, la sentenza sul caso D. c. Regno Unito[5], i giudici di Strasburgo rilevavano come il ricorrente, detenuto e malato di AIDS in stato avanzato, avrebbe subito una grave lesione dei suoi diritti fondamentali se fosse stato trasferito in un carcere nel paese natale, l’isola di St. Kitts e Nevis, non potendo più accedere alle cure, ai trattamenti e ai servizi che riceveva e avrebbe continuato a ricevere nel Regno Unito[6].

Tale approccio venne però smentito da successive pronunce e, in particolare, nella celebre e contestata sentenza N. c. Regno Unito[7]. In quest’occasione, i giudici, nel valutare la condizione di salute dell’individuo – malato di AIDS in stadio avanzato – presero in considerazione sia l’attuale stato di salute sia il probabile decorso della malattia e i possibili effetti che l’espulsione avrebbe avuto sulla sua condizione[8]. La Corte concluse che il mero fatto che un paese che non sia preparato a gestire un paziente affetto da una determinata malattia o a garantire adeguate cure mediche debba essere valutato principalmente da un punto di vista teorico, sicché la mancanza di risorse del sistema sanitario del paese di destinazione – e di origine – non è di per sé sufficiente per affermare che l’espulsione possa in concreto pregiudicare la salute dell’individuo[9]. In particolare, la Corte rilevò che il ricorrente, benché malato, fosse sufficientemente in salute da poter sopportare il viaggio di ritorno, non sussistendo quelle circostanze eccezionali “where human rights are compelling[10]. Il ricorrente, espulso e rimandato in Uganda, morì poco tempo dopo.

Al netto della tragica conclusione del caso appena visto, la pronuncia merita però un’analisi più approfondita anche alla luce delle veementi critiche ricevute – nonostante poi il collegio giudicante abbia riconosciuto, con una maggioranza bulgara di quattordici voti a tre, una non violazione dell’articolo 3 CEDU.

Nella loro opinione dissenziente[11], i tre giudici contrari – Tulkens, Bonello e Spielmann – evidenziano come, alla luce dei fatti di causa e della precedente giurisprudenza della Corte, la pronuncia, nel caso di specie, fosse viziata ab origine. In primo luogo, non vi era dubbio che l’allontanamento, avendo effetti pregiudizievoli sulla vita e la salute del ricorrente, integrasse una violazione dell’articolo 3 CEDU. Infatti, in ossequio a quanto affermato nella sentenza Pretty c. Regno Unito[12], il termine “trattamenti degradanti” richiede un minimo livello di gravità, relativa tanto a dolore fisico quanto mentale o psicologico[13] che sussisteva nel caso di specie. In particolare, la Corte specifica che l’aggettivo “degradante” riguarda qualsiasi trattamento che “… umilia o avvilisce un individuo, denotando una mancanza di rispetto della sua dignità umana o degradandola, o suscita nell’interessato dei sentimenti di paura, di angoscia o di inferiorità tali da fiaccare la sua resistenza morale e fisica[14]. Conseguentemente, le autorità possono essere ritenute responsabili anche qualora misure o provvedimenti dell’autorità nazionale, come detenzioni o espulsioni, possano aggravare preesistenti precarie condizioni di salute. La stessa Corte ha ravvisato simile rapporto di consequenzialità, in particolare nella celebre sentenza Bensaid c. Regno Unito[15], sicché, ad oggi, la giurisprudenza della Corte appare ancora incerta: sebbene trincerata dietro una – apparente – graniticità, che la rende immune a qualsiasi critica, non mancano casi in cui i giudici hanno deciso di riconoscere tutela ai migranti malati e a rischio di espulsione.

Ultima evoluzione di questa criticatissima giurisprudenza è la recente pronuncia della Corte sul caso S.J. c. Belgio[16], i cui fatti di causa sono molto simili a quelli già analizzati nella sentenza N. c. Regno Unito, con la ricorrente malata di HIV ma nello stadio della c.d. latenza clinica, in cui la malattia non presentava sintomi visibili e i pazienti sembrano sani.

Al netto di ciò, la sentenza, per molti, rappresenta un’ulteriore occasione persa da parte dei giudici per discostarsi da un approccio metodologico fallace e viziato da una scarsissima attenzione ai diritti fondamentali dei migranti. Prima di approdare in Grande Camera, la doglianza della ricorrente venne rigettata in quarta sezione, con i giudici che avevano affermato come non vi fosse alcuna violazione delle norme convenzionali dal momento che le condizioni di salute della ricorrente non fossero così gravi da impedirle di viaggiare e, dunque, di affrontare il ritorno in patria[17]. Portato poi di fronte alla Grande Camera, il ricorso è stato cancellato dal ruolo ai sensi dell’articolo 37 §1 CEDU in virtù di un accordo amichevole intervenuto tra le parti. Secondo diversi autori e commentatori, i giudici, con questa decisione, hanno scelto, ancora una volta, di non affrontare la questione, rimandando “a data da destinarsi” la risoluzione della questione[18]. In particolare, la Corte reitera quella scorretta valutazione che porta ad ammettere la legittimazione di una espulsione di fronte ad un soggetto sì malato ma che, al momento, si trova in condizioni tali da non poter parlare di un concreto pericolo di vita[19].

Le critiche a questo approccio sono dovute dunque al fatto che tali decisioni danno sostanzialmente il via libera perché il ricorrente si incammini verso il suo letto di morte, violando, seppur non in maniera diretta, la assolutezza del divieto di trattamenti inumani e degradanti ribadita in numerose sentenze tra cui Chahal c. Regno Unito (“essendo assoluta la protezione contro i trattamenti proibiti dall’articolo 3, tale disposizione impone di non estradare o espellere una persona quando questa corre il rischio reale di essere sottoposta a tali trattamenti nel Paese di destinazione. Come affermato a più riprese dalla Corte, non esiste nessuna eccezione a questa norma (…) non si può mettere sul piatto della bilancia il rischio di maltrattamenti e i motivi invocati per l’espulsione.[20])

Questi principi, validi per casi di semplice rischio di persecuzioni o di trattamenti contrari alla dignità umana ed integrità fisica[21], dovrebbero dunque certamente valere anche nel caso in cui lo straniero venga estradato in un paese in cui le proprie patologie non possono essere adeguatamente trattate dalle autorità sanitarie locali.

Un altro caso particolare che merita di essere menzionato – che si ricollega a quanto visto prima in tema di tutela dei detenuti, è la pronuncia sul caso Aswat c. Regno Unito[22], in cui la Corte ha affermato come l’estradizione negli Stati Uniti e il regime carcerario a cui il ricorrente, malato di schizofrenia, sarebbe stato sottoposto non sarebbero stati compatibili con il suo stato di salute e con le sue esigenze di cure ed assistenza. Sentenze come questa fanno emergere l’aspetto paradossale della giurisprudenza della Corte, con i ricorrenti che, nei già visti casi S.J. e N., avrebbero avuto maggiori garanzie e tutele se fossero stati criminali sottoposti ad una procedura di estradizione[23].

Le scelte della Corte in quest’ambito, benché criticate, sembrano essere motivate dal timore di estendere fin troppo la tutela in quest’ambito, caricando le autorità di un “excessive burden[24] nella tutela di questa categoria di individui particolarmente vulnerabili. Tale posizione non è accettabile ai sensi della CEDU, in quanto contraria alla natura stessa della tutela dei diritti convenzionali e senza sufficienti riscontri pratici tali da poter parlare di un vero e proprio “rischio” in capo agli Stati. In particolare, su questo punto, i giudici evidenziavano come i ridotti numeri di richieste ricevute ed accolte dal Regno Unito non possa certamente far parlare di un peso eccessivo per le autorità nazionali[25].

Lo stato dell’arte attuale è dunque gravemente pregiudizievole per i diritti dei migranti e sarebbe dunque preferibile tornare ad una “human and reasonable understanding” interpretazione di quelle circostanze eccezionali in cui la Corte garantisce invece tutela agli individui[26].

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[1] OMS, Report del Segretario, A69727, 8 aprile 2016; in particolare, al §3, si evidenzia come schiavitù, violenze, torture e prostituzione forzata causino danni tanto al corpo quanto alla mente e alla psiche dei migranti, i quali necessitano di una tutela specifica per superare momenti così drammatici. Si vedano anche le conclusioni di Human Rights Watch, che evidenzia come, nello specifico caso delle migrazioni nel Mediterraneo, i migranti venissero accolti in strutture inadeguate, sovraffollate e “che avrebbero comportato (…) un ulteriore peggioramento delle condizioni sanitarie, all’origine di un accresciuto bisogno di assistenza di base ai fini della sopravvivenza stessa delle persone”, in Corte EDU, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, ricorso n. 27765/09, sentenza 23 febbraio 2012, §108.

Tali aspetti emergono anche dal testo del Migration Compact, firmato lo scorso dicembre a Marrakech, si veda Tumminello F., Global Compact for Migration: cosa prevede?, in Ius in itinere, 3 dicembre 2018 (https://www.iusinitinere.it/global-compact-for-migration-cosa-prevede-15924)

[2] Corte EDU, Hirsi Jamaa c. Italia, cit., opinione concordante del giudice Pinto de Albuquerque. Si deve inoltre rilevare come questa sostanziale uguaglianza prescinda dalla fonte normativa che regola l’allontanamento, posto che, mentre l’espulsione e i respingimenti sono regolati dalla disciplina interna, le procedure di estradizione per stranieri irregolari che hanno commesso reati nel paese di origine sono invece regolati da specifici accordi bilaterali ed internazionali.

[3] Corte EDU, Lopes de Sousa Fernandes c. Portogallo, ricorso n. 56080/13, sentenza 19 dicembre 2017.

[4] Ibid., opinione parzialmente concorrente e parzialmente dissenziente del giudice Pinto de Albuquerque, §42.

[5] Corte EDU, D. c. Regno Unito, ricorso n. 30240/96, sentenza 2 maggio 1997.

[6] Ibid., §§51 – 54.

[7] Corte EDU, N c. Regno Unito, ricorso n. 26565/05, sentenza 27 maggio 2008.

[8] Ibid., §§36 – 41.

[9] Ibid., §§48 – 51.

[10] Ibid., §52.

[11] Opinione dissenziente dei giudici Tulkens, Bonello e Spielmann in Corte EDU, N c. Regno Unito, cit., §§1 – 3.

[12] Corte EDU, Pretty c. Regno Unito, cit., §52.

[13] Corte EDU, Irlanda c. Regno Unito, ricorso n., sentenza, §167; Corte EDU, V c. Regno Unito, ricorso n. 24888/94, sentenza §71.

[14] Corte EDU, Price c. Regno Unito, ricorso n. 33394/96, sentenza, §§24 – 30; Corte EDU, Valašinas c. Lituania, ricorso n. 44558/98, sentenza 24 luglio 2001, §117 (per la traduzione si veda Corte EDU, Muršić c. Croazia, ricorso n. 7334/13, sentenza, §98).

[15] Corte EDU, Bensaid c. Regno Unito, cit., ma anche in Corte EDU, D. c. Regno Unito, ricorso n. 30240/96, sentenza 2 maggio 1997.

[16] Corte EDU, S.J. c. Belgio, ricorso n. 70055/10, sentenze 27 febbraio 2014 (quarta sezione) e 19 marzo 2015 (Grande Camera).

[17] Ibid., §125.

[18] Si veda, ex multis, Slama S., Parrot K., Étrangers malades : l’attitude de Ponce Pilate de la Cour européenne des droits de l’Homme, Plein droit, n.° 101, 2014/2, pp. 1 – 8;

[19] Vedi supra.

[20] Corte EDU, Chahal c. Regno Unito, ricorso n. 22414/93, sentenza 15 novembre 1996, §80 (per la traduzione si veda Corte EDU, Saadi c. Italia, ricorso n. 37201/06, 28 febbraio 2008, §138).

[21] È il caso non solo della già vista sentenza Corte EDU, Chahal c. Regno Unito, cit., ma anche di diverse pronunce concernenti casi di migranti a rischio espulsione in paesi pericolosi quali Corte EDU, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, cit.; Corte EDU, Jabari c. Turchia, ricorso n. 40035/98, sentenza 11 luglio 2000; Corte EDU, A. A. c. Francia, ricorso n. 18039/11, sentenza 15 gennaio 2015; Corte EDU, M.S.S. c. Belgio e Grecia, ricorso n. 30696/09, sentenza 21 gennaio 2011. Impossibile non citare, in questo contesto, anche la celeberrima sentenza Corte EDU, Soering c. Regno Unito, cit., in cui i giudici hanno sancito il divieto assoluto di estradizione in paesi in cui il ricorrente avrebbe potuto essere sottoposto a pena di morte.

[22] Corte EDU, Aswat c. Regno Unito, ricorso n. 17299/12, sentenza 16 aprile 2013.

[23] Ganty S., S.J. v. Belgium: missed opportunity to fairly protect seriously ill migrants facing expulsion, Strasbourg Observer, 30 aprile 2015.

[24] Corte EDU, N. c. Regno Unito, cit., §44.

[25] Ibid., opinione dissenziente dei giudici Tulkens, Bonello e Spielmann, §8.

[26] Ganty S., op. cit.

Fabio Tumminello

30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all'esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017. Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell'Unione Europea. Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos - Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo Paulo Pinto de Albuquerque ("I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 - 2020").

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