venerdì, Marzo 29, 2024
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La tutela giuridica della forma dei prodotti: disegno, modello o design?

Il design è ovunque. Qualsiasi oggetto che ci circonda incorpora ed esternalizza un design: scarpe, vestiti, penne, rossetti, anelli, sedie, giocattoli, autoveicoli, e così via, possiedono tutti dei connotati estetici – più o meno pregevoli o gradevoli – che valorizzano la loro apparenza prima ancora che la loro utilità funzionale. Il design, infatti, è uno dei più importanti strumenti che permettono alle imprese di ottenere successo commerciale. Invero, un prodotto ben disegnato è particolarmente apprezzato dal mondo dei consumatori in quanto dotato di maggiore forza attrattiva sul mercato[1].

Ma qual è la definizione più adatta da attribuire al concetto di design? Per rispondere a questa domanda, ed al fine di sgombrare il campo da anomalie interpretative, è bene partire dall’origine etimologica del termine. Derivato dal latino designare, esso assume il duplice significato di “designare” e di “disegnare”, esprimendo sia il concetto dell’intenzione e dell’attività progettuale di carattere inventivo, sia l’espressione concreta e tangibile nella quale quest’ultima si estrinseca: un disegno, una decorazione, un motivo, un ornamento, uno stile o una composizione visiva. In altre parole, il design è la fusione tra la dimensione artistico-creativa che abita nella mente dell’autore e l’applicazione logico-scientifica di quest’ultima sulla “pelle” del prodotto[2]: è – insieme – arte e scienza[3]. Non a caso l’ICSID (International Council of Societies of Industrial Design) definisce il design come un’attività poliedrica e trasversale che coinvolge prodotti, servizi, disegni e grafica, interni, architettura, esprimendo la forma di un bene in modo intrinsecamente coerente[4].

A questo punto occorre comprendere il significato delle parole “disegno” e “modello” presenti nella nostra legislazione, e, secondariamente, il loro rapporto con il concetto di design, che invece non vi figura mai.

Orbene, “disegno” è sinonimo di realizzazione grafica volta a delineare l’aspetto di un prodotto bidimensionale; “modello”, per contro, esprime il medesimo concetto in relazione a un prodotto tridimensionale[5]. Tale distinzione è fondamentale ai fini della tutela, posto che sulla base di un disegno si può ben realizzare un modello, e viceversa[6].

Ciò posto, è possibile sostenere che il termine design ricomprenda tanto quello di “disegno” quanto quello di “modello” così come poc’anzi definiti, in quanto il design può riferirsi sia ad un prodotto bidimensionale sia ad un prodotto tridimensionale. Di ciò si trova espressa conferma, ad esempio, nella legislazione inglese: la sezione 51 del Copyright, Designs and Patents Act si esprime, infatti, attraverso la locuzione “design document or model”, specificando che, nel contesto de quo, la parola design è sinonimo di forma.

Occorre rilevare che parte della dottrina italiana reputa che il design non possa considerarsi sinonimo di “disegno o modello”, ed anzi sottolinea la necessità di mantenere siffatti concetti ben distinti tra di loro in ragione del diverso meccanismo di tutela che li assiste, di natura autorale il primo, subordinato ad apposita registrazione il secondo[7].

Tuttavia, detto assunto induce a confondere l’ambito definitorio da quello rimediale: il primo, infatti, inquadra correttamente la fattispecie, il secondo, invece, fornisce, al designer in senso lato[8], gli strumenti di protezione giuridica azionabili in caso di violazione della privativa.

In primo luogo, pertanto, se è vero che l’equazione “design = disegno o modello” non è necessitata, è pur vero che un prodotto di design sarà sempre frutto dello sviluppo e della realizzazione materiale di uno specifico disegno o modello creativamente ideato dall’autore. In altre parole, il design, nell’accezione oggi universalmente condivisa, rappresenta un quid pluris rispetto ai “disegni o modelli”: li ricomprende ma non si esaurisce in essi[9]. E il valore aggiunto che esso può (non necessariamente deve) possedere rispetto ai meri “disegni o modelli”, che pure circoscrivono la forma di un prodotto, è racchiuso in caratteristiche estetiche di pregio che arricchiscono l’opera in sé, tramutandola in arte: si parlerà allora di “valore artistico”, di “art appliqués”, di “work of art”, di “obra artística” o “plástica”, di “angewandten Kunst”[10].

In secondo luogo, è ormai pacifico, in quanto normativamente riconosciuto a livello europeo[11], che la privativa accordata ai “disegni o modelli” – la quale è subordinata alla registrazione di specifici elementi esteriori del prodotto – sia pienamente cumulabile con quella offerta dal diritto d’autore alle opere di design, intendendo per tali quelle artisticamente pregevoli, secondo la ricostruzione poc’anzi prospettata[12].

Quanto suesposto, a ben vedere, dimostra che risulta superfluo separare nettamente il concetto di design con quello di “disegno o modello” sulla base delle loro differenti modalità di tutela, e conferma altresì l’importanza di circoscriverne l’ambito definitorio in modo chiaro ma soprattutto compatibile con quello offerto dagli altri Stati europei[13], dal momento che esiste ormai una certa, sia pur ancora non totale, armonizzazione a livello comunitario su questo tema. È notorio, ad esempio, che il legislatore inglese ha adottato normativamente il termine design sia quando abbia inteso associarlo ad una tutela automatica ed immediata (si pensi all’unregistered design right[14])sia quando lo scopo sia stato quello di fornire una tutela subordinata a specifiche formalità costitutive (è l’ipotesi del registered design[15]); di converso, nello specifico ambito della tutela mediante copyright, il medesimo legislatore ha preferito omettere il termine design, avendolo ritenuto, con molta probabilità, integralmente assorbito dal concetto di artisticità (“work of art”) rinvenibile, tra l’altro, nel design di alta gamma.

Alla luce di quanto suesposto, è possibile sostenere che il design sia l’espressione creativa della forma di un prodotto, il cui aspetto esteriore può essere protetto in vari modi. Tra questi vi è anche la tutela offerta dalla registrazione mediante “disegno o modello”, della quale potrà beneficiare pure un design esteticamente carente, non necessariamente bello dal punto di vista artistico[16]. Per dirla con Franzosi, “il design è vicino all’arte figurativa, nel senso che come quella soddisfa il gusto estetico”, ma “non è (necessariamente, n.d.r.) arte, né il designer può essere considerato un artista[17].

La registrazione dei disegni o modelli, infatti, secondo la definizione offerta dal nostro codice della proprietà industriale (che riproduce letteralmente quella contenuta nella Direttiva 98/71 CE sulla protezione giuridica dei disegni e modelli nonché nel successivo Regolamento (CE) 6/02)[18] riguarda semplicemente “l’aspetto dell’intero prodotto o di una sua parte quale risulta, in particolare, dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale ovvero dei materiali del prodotto stesso ovvero del suo ornamento (…)”(art.31, c.1 c.p.i.). Possono, pertanto, assumere la qualifica di “disegni o modelli” registrati i loghi e i simboli grafici, le interfacce grafiche e il web design, i caratteri e i segni tipografici, le rappresentazioni di oggetti e il loro packaging etc.

Occorre rilevare che l’aspetto visibile del prodotto è dato da una serie di elementi difficilmente condensabili in un elenco tassativo. Senza presunzione di esaustività, il legislatore menziona, a titolo di esempio (si veda l’espressione “in particolare”[19]) i concetti auto-evidenti di “linee”, “contorni”, “colori”, “forma”, “struttura superficiale” e “materiali”. E, se l’idea di “forma” evoca una configurazione visiva di ampia portata, ricomprendente in sé gli altri elementi, non altrettanto può dirsi dei “colori”: essi non sono proteggibili autonomamente (con l’eccezione di particolari accostamenti di tonalità, ma si rientrerebbe in questo caso nel motivo decorativo) in quanto limitati nel numero (cd. “color depletion theory[20]) e pertanto appartenenti al patrimonio comune[21]; analogo discorso vale anche per i materiali, i quali si limitano a contribuire all’aspetto figurativo generale[22].

L’elenco degli esempi suesposti rappresenta, in modo esemplificativo[23], solo alcune delle varie configurazioni in cui il “disegno o modello” si concreta ai fini della sua registrazione. La sintesi di tali configurazioni, del tutto eterogenee, è racchiusa nella definizione di “prodotto” adottata dal legislatore, prima comunitario e poi nazionale: prosegue, infatti, il codice della proprietà industriale, statuendo che “per prodotto si intende qualsiasi oggetto industriale o artigianale, compresi tra l’altro i componenti che devono essere assemblati per formare un prodotto complesso, gli imballaggi, le presentazioni, i simboli grafici ed i caratteri tipografici, esclusi i programmi per elaboratore”[24] (articolo 31, comma 2 c.p.i.).

Pertanto, saranno anzitutto esclusi dalla registrazione mediante “disegno o modello”, come prevede la norma, i software (e, a pena di nullità[25], anche gli emblemi di Stato, i segni ufficiali di controllo, gli emblemi di organizzazioni intergovernative e qualunque stemma di particolare interesse pubblico per lo Stato, oltre che i disegni o modelli contrari all’ordine pubblico o al buon costume[26]). Inoltre, debbono ritenersi esclusi dalla registrazione anche le idee, le informazioni, i procedimenti e tutto ciò che non sia applicato o applicabile a specifici oggetti d’uso da destinare al mercato[27].

In questo senso, tale privativa sembra riferirsi principalmente ai prodotti d’industrial design (quelli cioè realizzati su larga scala e destinati ad essere offerti al pubblico dei consumatori[28]); tuttavia, nulla esclude (e l’attuale formulazione della norma ne dà conferma) che essa riguardi anche beni di design artigianale[29], realizzati in pochi esemplari e, eventualmente, anche in subordine ad una specifica richiesta del consumatore.

Requisito imprescindibile ai fini della protezione, invece, sembrerebbe essere quello della tangibilità del bene protetto, il quale deve essere costituito da un’entità materiale, secondo il principio della “sufficiente concretizzazione”[30]. Tuttavia, tale principio soffre di molteplici eccezioni. Da un lato, ad esempio, deve considerarsi escluso dalla nozione di “prodotto”, nonostante la sua materialità, il corpo umano e/o le sue singole parti, di talché il design di un tatuaggio, di un taglio di capelli o di un’acconciatura non risultano registrabili[31]. Dall’altro, invece, appare corretto includere nella protezione le decorazioni ornamentali, i caratteri tipografici, il design d’interni e persino il web design, nonostante siano di per sé stessi privi di materiale concretezza: infatti quest’ultimi possono ben essere inglobati in entità materiali ma godono di tutela di per sé e non in quanto raffigurino l’“aspetto di uno specifico prodotto”: sono cioè essi stessi considerati come “prodotti” ai fini della registrazione, indipendentemente dal fatto che la decorazione sia presente su una data superficie, che quegli specifici caratteri grafici arricchiscano un libro, che l’allestimento di una vetrina risalti al centro di un cartellone pubblicitario, che il layout di un web template sia stampato su un foglio di carta[32]. Tale interpretazione sembra avallata, oltre che dalla prassi delle registrazioni effettuate presso l’EUIPO e l’UIBM[33], dall’esplicita previsione di una classe di prodotti d’industrial design (la n. 32) che la Convenzione di Locarno del ’68 denomina “graphic symbols and logos, surface patterns, ornamentation”[34].

In definitiva, questa breve analisi definitoria del concetto di “disegno o modello”, da interpretarsi in combinato disposto con la nozione di “prodotto”, così come offerta dal nostro legislatore, nazionale e non, rappresenta la logica premessa volta a individuare al meglio quali e quanti strumenti di privativa siano accordabili al cosiddetto “design industriale”.

[1]In tal senso SARTI, La tutela dell’estetica del prodotto industriale, Milano, 1990, p.1; FABBIO, Disegni e modelli, Trento, 2012, p.4, con specifico riferimento alla privativa per disegno o modello. In dottrina v. anche SCORDAMAGLIA, La nozione di disegno e modello nelle proposte di regolamentazione comunitaria, in Riv. Dir. Ind., fasc. 3, parte I, 1995, pp. 113, 123-124; v. anche MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma e diritto d’autore, in Riv. di Dir. Ind., fasc. 1, parte I, 2010, p. 7, la quale rileva che “nella produzione industriale di massa, ogni impresa indirizza buona parte delle risorse a studi di tecnica grafica, ricerche di marketing e campagne pubblicitarie allo scopo di sviluppare prodotti esteticamente attraenti, ben consapevole che da ciò dipenderà in gran parte il suo successo sul mercato”

[2]Per la definizione di “prodotto” v. art. 31, c.2 c.p.i. nonché, a livello europeo, art. 1 lett. b) Dir. 98/71 CE ed art. 3 lett. b) Reg. 6/2002 del Consiglio.

[3]In questi termini si esprime BORJA DE MOZOTA, Design Management- Using Design to build brand value and corporate innovation, New York, 2003, parte I, cap.1. In particolare l’Autrice rimarca che “the question of whether design is science or art is controversial because design is both science and art. The techniques of design combine the logical character of the scientific approach and the intuitive and artistic dimentions of the creative effort. Design forms a bridge between art and science, and designers regard the complementary nature of these two domanins as fundamental. Design is a problem solving activity, a creative activity, a systemic activity, and a coordinating activity (…)”

[4]Si veda icsid.org/about/about/articles31.htm per la definizione del design da parte di questa importante organizzazione internazionale. Di particolare rilievo, tra le finalità che il design deve perseguire, è “the task of giving products, services and systems, those forms that are expressive of (semiology) and coherent with (aesthetics) their proper complexity”.

[5]FLORIDIA, I disegni e modelli, in Diritto industriale- proprietà intellettuale e concorrenza, III ed., Torino, 2009, p. 289. V. anche SCORDAMAGLIA, La nozione di disegno e modello ed i requisiti per la sua tutela nelle proposte di regolamentazione comunitaria, in Riv. Dir. Ind., fasc. 3, parte I, 1995, p. 113 ss. Si veda anche BONASI BENUCCI, in Modello o disegno, Novissimo Digesto Italiano, X, p. 812: secondo l’autore la distinzione non è netta ed è bene distinguere tra forme che esprimono elementi solo visivi (disegni) e rappresentazioni plastiche (modelli).

[6]Così FABIANI e DI NICOLANTONIO, I disegni e modelli industriali o artigianali, in La protezione delle forme nel codice della proprietà industriale, a cura di DE SANCTIS, Milano, 2009, p.126. Gli autori scrivono: “La trasformazione in forma piana di un modello o, viceversa, la realizzazione in forma tridimensionale di un disegno, possono non costituire violazione del diritto ove attraverso la trasposizione si consegua un effetto nuovo e diverso rispetto a quello precedentemente realizzato.

[7]Così SENA, Design, in Riv. Dir. Ind., fasc. 2, parte I, 2011, p. 41 e p. 43. Secondo l’autore, sebbene l’opera di design sia senza dubbio -conformemente all’ipotesi ricostruttiva sopra prospettata- un’“opera dell’ingegno di carattere creativo”, tuttavia i “disegni o modelli” consistono in un “mero progetto di un prodotto industriale”, da tenere distinti dalla prima.

[8]Si consideri che, secondo il nostro codice della proprietà industriale, qualora ildesigner svolga siffatta mansione sulla base di un rapporto di lavoro dipendente, è al datore di lavoro che spetta il diritto alla registrazione, “fermo restando il diritto del dipendente di essere riconosciuto come autore del disegno o modello e di fare inserire il suo nome nell’attestato di registrazione” (art. 38,c. 3 c.p.i.).

[9]In senso contrario depone il fatto che, ad esempio, in Inghilterra la decorazione di una superficie non sia considerata design e pertanto non è proteggibile come tale (v. sec. 51 e 213 UK C.D.P.A. 1988 e s.m.i.); essa rientra invece a pieno titolo nella nostra nzione di “disegno o modello” in quanto “aspetto della struttura superficiale” del prodotto (art. 31 c.p.i.).

[10]Cfr. rispettivamente art.2 n.10) l.633-1941 (Legge italiana sul diritto d’autore), art. L112-2 n. 10) l. n° 92-597 (Codice della Proprietà Intellettuale francese), sec.1,(1)a) C.D.P.A.15.9.88 (Copyright, Designs and Patent Act inglese), art. 5.1 e 10.1e) D.lgs. 1/96 (Legge spagnola sulla proprietà intellettuale), parte 1, sezione 2, §2 n. 4 Urheberrechtsgesetz 1965 (Legge tedesca sul diritto d’autore, che non si esime dall’utilizzare il termine “arte applicata”)  in riferimento alla protezione autorale che viene concessa a questo tipo di design “di alta gamma”.

[11]V. in particolare Dir. 98/71 CE, considerando n. 8 ed art. 17, attuata in Italia con il 95/2001.

[12]In verità il termine design non compare mai nella nostra legge sul diritto d’autore, avendo il nostro legislatore preferito optare per la traduzione “disegno industriale”.

[13]Segnatamente dal Regno Unito, il quale parla di registered designs. Infatti la locuzione disegno o modello è adoperata in molti altri paesi europei: mustern und modellen in Germania, dibujos y modelos in Spagna, dessins ou modèles in Francia, etc. Si veda, su questo tema, le varie traduzioni della dir. 98/71 CE e del Reg. (CE) n.6/02 nelle lingue dei paesi UE.

[14]Cfr. UK C.D.P.A. 1988 e s.m.i.,parte III, capitolo I, sez. 213 (7) e sez. 216 (1) a).

[15]Ovvero l’equivalente della nostra registrazione mediante “disegno o modello”, di cui all’art. 31 ss. c.p.i.

[16]Seguendo questa logica interpretativa, si può ritenere che quella succitata dottrina (SENA) separi nettamente il concetto di design da quello di “disegno o modello” poiché sposa l’idea che nel primo sia necessariamente connaturato il concetto di pregio artistico. Solo così, infatti, egli può legittimamente ritenere che il design debba tipicamente collocarsi nell’alveo della tutela autorale: l’opera del disegno industriale deve, infatti, possedere “valore artistico” (art.2 n.10 l.a.); ed anche qualora- come ritiene l’autore- il design fosse stato tutelabile mediante diritto d’autore prima della riforma del 2001 (la quale ha introdotto la categoria concettuale dell’industrial design), il requisito legittimante la tutela, ovvero l’essere un’ “opera dell’arte del disegno” si sarebbe sempre fondato sul concetto di artisticità, quella propria del design di alta gamma, appunto.

[17]FRANZOSI, Design italiano e diritto italiano del design: una lezione per l’europa? in Riv. Dir. Ind., 2009, fasc. 2, parte I, pp. 71-82. Si noti anche come l’autore sembra contraddirsi quando sostiene che “(il) design brutto non è design”, con ciò intendendo che il design per esser tale deve esser comunque dotato di un’armonia di forme in sé intrinsecamente coerenti.

[18]Cfr., rispettivamente, artt. 1 ed art. 3. Si noti che, in linea con l’interpretazione appena prospettata, è proprio la parola design che compare nella versione inglese della Direttiva 98/71 CE e del Regolamento (CE) 6/02, come traduzione della locuzione “disegno o modello”.

[19]Sull’interpretazione dell’espressione “in particolare” si veda DE SANCTIS, I disegni e modelli ornamentali dopo la direttiva 98/71 CE, in AIDA, 1999, p. 297; SCORDAMAGLIA, La nozione di “disegno e modello” ed i requisiti per la sua tutela nelle proposte di regolamentazione comunitaria in Riv. Dir. Ind., 1995, fasc. 3, parte I, p. 126.

[20]Tipicamente in tema di marchi di colore, BROOKMAN, Trade dress of products and services in Trademark Law: protection, enforcement and licensing, New York, 2012, §6.02[E] p. 6- 13; DENONCOURT, Intellectual Property Law, New York, 2010, p. 221; FREDIANI, Commentario al nuovo codice della proprietà industriale, Camerino (MC), 2006, p. 31.

[21]Molto interessante, sia pur in tema di marchi di colore, è il celebre caso “Louboutin” (Christian Louboutin, S.A. v. Yves Saint Laurent Am. Holding, Inc., 2012 WL 3832285, 2d Cir. Sept. 5, 2012).

[22]Si veda a tal proposito l’opinione di FABIANI e SPADA, in RAVÀ, Diritto industriale- Volume II: invenzioni e modelli industriali, Torino, 1988, p. 241, ove si legge: “l’utilizzazione di un materiale nuovo non è sufficiente requisito di novità se non porta necessariamente alla creazione di una forma originale o ad effetti decorativi nuovi”.

[23]È bene, infatti, ricordare che l’autore, nel realizzare il disegno o modello, beneficia di un certo “margine di libertà” (cfr. art.33 c. 2 c.p.i.).

[24]Cfr. art. 31 c. 2 c.p.i., nonché art. 1 lett. b) Dir. 98/71 CE; art. 3 lett. b) Reg. (CE) 6/02.

[25]Cfr. art. 43 lett. f) : è da tener presente che, differentemente dalle altre ipotesi di nullità, quella consistente nell’utilizzazione di segni od emblemi di Stato et similia (si veda a tal proposito il riferimento alla Convenzione di Unione di Parigi, testo di Stoccolma del 1967 e s.m.i.) può esser fatta valere “unicamente dall’interessato alla utilizzazione”, non anche “dai suoi aventi causa”.

[26]Cfr. art. 33-bis c.p.i., il quale esclude, altresì, che il mero divieto di utilizzo di un “disegno o modello” previsto da una legge o da un provvedimento amministrativo implichi necessariamente la contrarietà all’ordine pubblico o al buon costume e sia, pertanto, non registrabile in quanto illecito.

[27]La considerazione che la privativa mediante “disegno o modello” si riferisca a beni di consumo, (sia pur artigianali), discende, in primo luogo, dalla preoccupazione che, se così non fosse (e cioè se qualunque prodotto non destinato ad essere immesso sul mercato fosse registrabile), si intralcerebbe la libera attività di produzione di beni violando le regole di libera concorrenza; in secondo luogo, essa deriva dal fatto che, per tutte le opere dell’ingegno di carattere creativo (siano o no destinate al mercato di consumo) esiste già la tutela d’autore. Questa impostazione trova conferma nel nostro c.p.i. il quale, nel descrivere i “disegni o modelli” di prodotti complessi, parla di “utilizzazione da parte del consumatore finale” (art. 35), ed è altresì tradizionalmente presupposta da una parte della dottrina (v., ad es., AUTERI, Industrial design, in IRTI, Dizionario del diritto privato, vol. III, Milano, 1981, p. 565, 577 ss., citato da FABBIO, op.cit., p. 5 sub nota 4).

[28]CARLI,Industrial design in ABRUZZESE, GIORDANO, Lessico della comunicazione, Roma, 2004, p. 278 : l’autore definisce l’industrial design come un “progetto estetico destinato alla produzione in serie di oggetti d’uso”.

[29]Il fatto che il bene possa esser anche realizzato artigianalmente trova, infatti, conferma nella definizione di prodotto come “oggetto industriale o artigianale” offerta dall’art. 31 c. 2 c.p.i. Si veda MURELLI, Disegni e modelli nella attuale configurazione legislativa, in Ventiquattrore Avvocato, dicembre 2006, n.12, p. 56 ss.

[30]Così FABBIO, Disegni e modelli, Trento, 2012, pp. 5-7.

[31]FABBIO, op. cit., il quale, pur menzionando l’opinione opposta di parte della dottrina tedesca, esclude l’estetica applicata al corpo umano dalla protezione mediante disegno o modello in quanto la pelle, i capelli etc. “non sono da considerare prodotti commerciabili”.

[32]L’ipotesi del web design, sia pur non controversa, è quella che trova più difficilmente un riscontro normativo, in quanto il legislatore omette di inserire esplicitamente il sito web nella nozione di “prodotto”. Tuttavia, se interpretassimo la nozione di “presentazione” (che, in base alla norma, coincide con quella di “prodotto”) in senso lato, ovvero come presentazione on line di un servizio piuttosto che di packaging materiale di un oggetto, adegueremmo il dettato normativo alla prassi applicativa delle registrazioni del “look and feel” dei siti internet più originali; sulla tutelabilità del sito web per se, sulla base delle norme in tema di proprietà intellettuale, v. SIROTTI GAUDENZI (diretto da), Proprietà intellettuale e diritto della concorrenza, Vol. IV: Comunicazioni elettroniche e concorrenza, Torino, 2010, pp. 380-381.

[33]Rispettivamente:Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale (Agenzia europea competente per la registrazione di marchi, disegni e modelli comunitari, con sede ad Alicante: istituito nel 1994, è operativo dal 1996 per i marchi comunitari e dal 2003 per i disegni e modelli comunitari) ed Ufficio Italiano Brevetti e Marchi ( ufficio istituito presso il Ministero dello Sviluppo economico, competente per la registrazione dei diritti di proprietà industriale nazionali e depositario delle domande di brevetto europeo (che verranno trasmesse all’European Patent Office) e delle domande di brevetto, disegno e modello internazionali (che verranno trasmesse all’Ufficio Internazionale per la protezione della proprietà intellettuale, presso la Wipo/Ompi) (fonti: europa.eu , uibm.gov.it, artt.147 ss. c.p.i.)

[34]International Classification for industrial designs (Locarno Classification), 9th edition, WIPO, Ginevra, 2008. (La convenzione, risalente all’8.10.68, è stata modificata il 28.9.79; le versioni successive consistono in una sostanziale riscrittura della stessa). La convenzione è stata ratificata dall’Italia con la l. n. 348 del 1974 ed ha lo scopo di facilitare la registrazione internazionale del design; pur non essendo giuridicamente vincolante per gli stati aderenti, essa ha una grande rilevanza in quanto è stata recepita dalla legislazione di molti Paesi ed è stata, a livello comunitario, inserita all’interno dell’art. 40 del Reg. (Ce) n. 6/02, che stabilisce: “Ai fini del presente regolamento si applica l’allegato all’accordo che istituisce la classificazione internazionale dei disegni e modelli industriali, firmato a Locarno l’8 ottobre 1968”.

Andrea Bramante

Notaio in attesa di nomina, collaboratore area diritto civile Contatti: andrea.bramante@iusinitinere.it

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