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L’accertamento del nesso di causalità nella responsabilità medica: Cassazione Sezione III, ordinanza 6 luglio 2020, n. 13872

     

La Suprema Corte con l’ordinanza numero 13872/2020 ha ribadito che nei giudizi di responsabilità medica il nesso eziologico tra condotta sanitaria ed evento dannoso viene a costituire onere della prova a carico del paziente danneggiato, mentre è onere della struttura sanitaria provare che l’evento dannoso sia stato determinato da cause imprevedibili e impreviste. La Corte, inoltre, attraverso un complesso ed articolato percorso delibativo, chiarisce che in tema di accertamento del nesso di causalità si applica la regola “del più probabile che non”.

Il fatto

L’ordinanza in commento trae origine dal ricorso presentato dagli eredi di una donna volto all’accertamento della responsabilità medica degli operatori sanitari di un’azienda sanitaria.

In particolare, la donna veniva ricoverata presso un’azienda ospedaliera per l’esecuzione di un intervento chirurgico al cuore, nello specifico di sostituzione di valvola mitrale, ma lo stesso non fu mai eseguito.

Durante il periodo di ricovero la donna veniva sottoposta ad intervento di toracotomia resosi necessario dall’insorgenza di un emotorace massivo a destra (ossia la presenza di un versamento di sangue all’interno dello spazio pleurico) e, al seguito dello stesso la paziente decedeva a causa di un violento shock emorragico.

Gli allora attori assumevano che la morte della paziente fosse diretta conseguenza della condotta colposa dei sanitari, i quali, a seguito della manovra di toracocentesi, avevano omesso di effettuare gli opportuni controlli che avrebbero permesso di diagnosticare tempestivamente l’emotorace massivo che condusse alla morte della donna.

La decisione del Tribunale di Firenze

Il Giudice di prime cure accoglieva la domanda risarcitoria avanzata dagli eredi sebbene la CTU medico legale avesse escluso la certezza della presenza di un nesso eziologico tra la toracentesi espletata dai sanitari e la presenza dell’emotorace massivo specificando che non vi era alcuna certezza scientifica che un eventuale esame radiologico avrebbe evidenziato elementi tali da far supporre un’emorragia.

Il giudizio della Corte di Appello di Firenze.

Il Giudice d’Appello, su gravame dell’azienda sanitaria, riformava “in toto”  la sentenza di primo grado in quanto riteneva insussistente  la prova del nesso di causalità tra la condotta dei sanitari e il decesso della donna, nonché il carattere illecito della condotta omissiva dei medici.

Ripartizione dell’onore delle prova

I ricorrenti come prima doglianza censuravano la distribuzione dell’onere della prova operata dal Giudice di Appello, il quale ha ritenuto insufficiente la mera allegazione dell’inadempimento della struttura sanitaria.

L’ordinanza in commento, seguendo l’orientamento consolidatosi in sede di legittimità, ribadisce che nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica ex art. 1218 c.c. si ha un “duplice ciclo causale”, uno relativo all’evento dannoso che deve essere provato dal danneggiato e l’altro relativo all’impossibilità di adempiere che deve essere provato dal debitore/azienda ospedaliera. L’attore deve, dunque, provare il nesso eziologico sia sotto il profilo della causalità materiale che della causalità giuridica, mentre, il convenuto, sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, ha l’onere di fornire la prova dell’avvenuto adempimento, dell’imprevedibilità ovvero dell’impossibilità della causa.

Il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista efficacia solo dopo che risulta dimostrato il nesso eziologico fra evento dannoso e condotta del debitore/struttura sanitaria.

Orbene, solo dopo che la parte danneggiata abbia provato che l’aggravamento, l’insorgenza di una nuova patologia ovvero la morte del paziente è causalmente riconducibile alla condotta oppure all’omissione dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’evento dannoso sia stato determinato da una causa non imputabile ossia imprevedibile[1].

Pertanto, sugli eredi della donna gravava l’onere di provare che la morte di quest’ultima fosse diretta conseguenza della condotta omissiva dei sanitari.  

L’accertamento della causalità materiale.

Gli eredi come seconda doglianza censuravano la violazione delle norme e dei principi che regolavano l’accertamento della causalità materiale. In particolare, i ricorrenti addebitavano alla Corte territoriale di non aver applicato il criterio del “più probabile che non” ai fini della ricostruzione della causalità materiale, anzi, di aver adottato una regola probatoria che esige un “inedito” grado di certezza della causazione dell’evento lesivo. Difatti, la sentenza impugnata esclude l’esistenza del nesso eziologico a causa dell’assenza di elementi “che permettono di stabilire con certezza un rapporto di causa-effetto tra la toracentesi e la comparsa dell’emotorace”.

Il nesso causale, quale elemento costitutivo della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, rileva sotto un duplice profilo, il primo è quello della causalità materiale, intesa come il collegamento naturalistico tra la condotta attiva od omissiva del soggetto danneggiante e la causazione dell’evento dannoso. Il secondo profilo, invece, attiene alla causalità giuridica intesa come il collegamento giuridico tra il fatto e l’evento, la quale consente la determinazione dell’obbligazione risarcitoria (art. 1223 c.c., art. 1225 c.c. e art. 1227 comma 2 c.c.).

La valutazione del nesso causale in sede civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agli artt. 40 e 41 c.p. in base ai quali un evento è da considerarsi causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, presenta notevoli differenze in relazione al regime probatorio applicabile, stante la diversità dei valori in gioco tra responsabilità civile e responsabilità penale[2].  Difatti, nell’accertamento del nesso causale in materia penale vige la regola del “oltre ogni ragionevole dubbio”[3], mentre in sede civile vige il criterio del “più probabile che non” definito anche della “preponderanza dell’evidenza”[4].

Chiarite, pertanto, le ragioni dell’operatività della regola probatoria del “più probabile che non” occorre, in tale sede, illustrare le modalità di applicazione della stessa nei giudizi di responsabilità medica. La Suprema Corte con l’ordinanza in commento ricorda che il predetto criterio costituisce la combinazione di due regole ossia la regola del “più probabile che non” e quella della prevalenza relativa della probabilità.

La regola del “più probabile che non” prevede che per uno stesso fatto non possono essere presenti un’ipotesi negativa ed una positiva. In tal caso, quindi, il Giudice deve scegliere quella che, sulla base delle prove a disposizione, è dotata di un grado di conferma logica più alta rispetto all’altra. Mentre, la regola della prevalenza relativa si applica quando sullo stesso fatto sono presenti diverse ipotesi e alcune di queste abbiano avuto conferma dalle prove allegate. In tal senso, il Giudice deve scegliere l’ipotesi che ha ricevuto il grado relativamente maggiore di conferme sulla base delle prove disponibili.

Orbene, ai fini della ricostruzione della causalità materiale occorre che l’ipotesi formulata deve essere verificata sulla scorta di tutti gli elementi di prova disponibili nel caso concreto.

Considerazioni conclusive

All’esito di un ampio ed approfondito iter argomentativo, la Suprema Corte ritiene fondata la censura avanzata dai ricorrenti in ordine all’errata applicazione della regola iuris sull’accertamento della causalità materiale.

In particolare, il Giudice di primo grado si è basato sulle risultanze della consulenza tecnica, la quale evidenzia che l’emotorace (causa del decesso della paziente) rappresenta un’evenienza rara a seguito dell’intervento chirurgico di toracentesi e, per tale ragione, non è possibile stabilire con certezza un rapporto di causa effetto tra l’intervento ed il decesso. Pertanto, il Giudice di prime cure basandosi sulle risultanze della consulenza tecnica ha affidato il riscontro del nesso causale ad un criterio più rigoroso di quello utilizzato in sede penale.

In conclusione, la sentenza impugnata non ha rispettato la regola iuris che impone di accertare la causalità materiale secondo il criterio del “più probabile che non”. In particolare, secondo la Suprema Corte la sentenza impugnata “avrebbe dovuto verificare, sulla scorta delle evidenze probatorie acquisite (anche a mezzo della disposta di consulenza tecnica d’ufficio), innanzitutto, se l’ipotesi sulla verità dell’enunciato relativo all’idoneità della toracentesi a cagionare l’emotorace presentasse un grado di conferma logica maggiore rispetto a quella della sua falsità (criterio del “più probabile che non”). Di seguito, essa avrebbe dovuto stabilire – in applicazione, questa volta, del criterio della “prevalenza relativa della probabilità” se tale ipotesi avesse ricevuto, sempre su un piano logico, ovvero nuovamente sulla base delle prove disponibili, un grado relativamente maggiore di conferma rispetto ad altrettante, differenti, ipotesi sulla eziologia tanto dell’emotorace, quanto del decesso della paziente (facendo la sentenza riferimento a non meglio precisate sue “critiche condizioni di salute” che avrebbero influito sul cd. “exitus”), ipotesi anch’esse, però, da riscontrare preliminarmente, nella loro verità, nello stesso modo, ovvero in applicazione del principio del “più probabile che non”.

[1] Cass. 26 luglio 2017,n. 18392: “ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è onere del danneggiato provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre è onere della parte debitrice provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione; l’onere per la struttura sanitaria di provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile sorge solo ove il danneggiato abbia provato il nesso di causalità fra la patologia e la condotta dei sanitari”

[2] Enrico Al Mureden, I fatti illeciti. Casi e materiali, Giappichelli, pag.50;

[3] Cass. S. U. , 11 settembre 2009, n. 30328: Sentenza Franzese;

[4] Cass. S.U. , 11 gennaio 2008, n. 581.

                                                      

Donatella Maino

La Dott.ssa Donatella Maino nasce a Canosa di Puglia nel 1994. Sin da adolescente ha sognato di intraprendere la carriera forense e si è impegnata e si impegna tutt'oggi con costanza e perseveranza per coronare il suo sogno. Nel Novembre 2018 ha conseguito la Laurea in Giurisprudenza magistrale ciclo unico con tesi in diritto civile dal titolo "Le disposizioni anticipate di trattamento". Praticante Avvocato iscritta all'albo del Foro di Trani.

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