L’allegazione dell’Attestato di Prestazione Energetica: disciplina comunitaria e sanzioni
Nel 2002 il Legislatore comunitario è intervenuto con l’intento di armonizzare la materia energetica. In attuazione della Direttiva CE 91/2002 relativa al rendimento energetico nell’edilizia, il legislatore nazionale ha dato vita ad un’articolata disciplina sulla prestazione energetica. Il principale risultato conseguito riguarda il c.d. Attestato di Prestazione Energetica (APE).
Tale attestato è un documento che descrive le caratteristiche energetiche di un edificio, di un appartamento o di una abitazione descrivendone il livello di efficienza energetica (in una scala che convenzionalmente va da A a G), e ad opera del d.lgs. 63/2013, è divenuto obbligatorio allegarlo agli atti di acquisto o locazione di un immobile, anche se una prima disciplina unitaria la si rinviene già nel 2005, con il Decreto Legislativo 19 agosto 2005 n. 192, in recepimento della direttiva UE di cui sopra.
L’ultimo intervento legislativo vi è stato nel 2014[1]: esso rappresenta l’intervento definitivo, ovvero l’attuale formulazione.
Il merito del legislatore fu principlmente quello di sancire un discrimine forte fra gli immobili che dovevano essere dotati di tale attestato e quelle che invece ne potevano essere sprovvisti.
Si pensò che il meccanismo più congeniale a raggiungere i risultati prefissati fosse non tanto con riferimento al tipo di immobile, bensì con riferimento all’atto di trasferimento che aveva ad oggetto l’immobile. In altre parole: il legislatore distingueva fra “atti nei quali fosse obbligatoria l’allegazione dell’Attestato di Prestazione Energetica” e gli “atti in cui era esclusa”[2].
Dal punto di vista pratico, tale attestato, il quale è il frutto di un lavoro tecnico specifico, pone una classificazione, mediante la quale, da un lato le amministrazioni e dall’altro la parte interessata (es. acquirente, locatore ecc..), sono informati sui consumi. La ratio era sostanzialmente quella di ritenere che andassero “penalizzati” fiscalmente gli immobili con un più alto consumo e “premiati” quelli con un consumo migliore: tutto ciò perché il consumo di energia incide sulla collettività, ragion per cui i legislatori (comunitario e nazionale) vogliono spingere i privati a sostenere, nonchè sviluppare sistemi di consumo minore. Il legislatore sta addirittura apprestando delle agevolazioni fiscali per gli immobili con APE “A”.
Ma ciò che realmente interessa in questa sede sono le conseguenze alla mancata allegazione. In un primo momento si prevedeva persino la nullità dell’atto. Poi, da quando le modalità di allegazione sono state disciplinate dalle Leggi Regionali, non si commina più la nullità come sanzione, (nonostante l’allegazione, come già ampiamente detto, resta obbligatoria), ma vi è una vera e propria sanzione amministrativa pecuniaria. I problemi che nascono da tale previsione sono molteplici: non solo dal dato normativo[3] non è chiaro a chi spetti il pagamento dell’eventuale sanzione, ma pone non pochi dubbi sull’eventuale validità dell’atto.
Il comportamento del legislatore resta ambiguo, ma al contempo emblematico: questo tipo di previsione normativa conferma a chi ne aveva già il sentore che tale tipo di normativa fosse in realtà una mera “scusa” per rimpinguare le casse dello Stato.
Ciò spinge l’operatore del diritto ad entrare nel merito del dettato normativo. La norma nella sua completezza, infatti, se analizzata dalla giusta prospettiva, richiede non solo che la clausola dell’atto relativa alla prestazione energetica sia completa, ma pone l’importante obbligo di “informazione” come tutela della parte debole.
In sostanza, l’APE deve essere obbligatoriamente allegato:
- a) agli atti traslativi a titolo oneroso (compravendita, permuta, locazione, assegnazione, transazione, cessione d’azienda, ecc.), ma comunque non c’è un elenco tassativo;
- b) ai contratti a titolo gratuito, o più precisamente: atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito (donazione, patto di famiglia, ecc.);
- c) ai diritti oggetto di trasferimento (sia in piena proprietà, sia in quota, sia in nuda proprietà, sia in usufrutto).
Si arriva a tale elencazione solo grazie ad una lettura a contrario della norma, la quale, invero, si limita ad indicarne tassativamente solo i casi di esclusione.
Ultimo aspetto da non sottovalutare è quello che riguarda il rinvio alla legge regionale. Tale rinvio ha confuso non poco l’operatore che doveva e deve fare riferimento ad una legge diversa a seconda della regione ove si trova l’immobile oggetto dell’atto. C’è da considerare che molto spesso questo tipo di atteggiamento porta chi di dovere a compiere numerosi errori.
E questo porta al dubbio di cui infra: l’interesse del legislatore è quello di regolamentare e ridurre il consumo energetivo o quello di sfuttare le defaillance degli operatori per ottenere una remunerazione maggiore?
Probabilmente nel corso degli anni si è perso un po’ di vista l’obiettivo comunitario che era palesemente spinto da ragioni di politica ambientale e si è giunti alla solita e sterile politica economica.
[1] Legge 21 febbraio 2014, n. 9.
[2] Articolo 3, comma 3 del D.Lgs. 192/05 (comma così sostituito dall’art. 3, comma 1, legge n. 90 del 2013).
“Sono escluse dall’applicazione del presente decreto le seguenti categorie di edifici:
- a) gli edifici ricadenti nell’ambito della disciplina della parte seconda e dell’articolo 136, comma 1, lettere b) e c), del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il codice dei beni culturali e del paesaggio, fatto salvo quanto disposto al comma 3-bis;
- b) gli edifici industriali e artigianali quando gli ambienti sono riscaldati per esigenze del processo produttivo o utilizzando reflui energetici del processo produttivo non altrimenti utilizzabili;
- c) edifici rurali non residenziali sprovvisti di impianti di climatizzazione;
- d) i fabbricati isolati con una superficie utile totale inferiore a 50 metri quadrati;
- e) gli edifici che risultano non compresi nelle categorie di edifici classificati sulla base della destinazione d’uso di cui all’articolo 3 del d.P.R. 26 agosto 1993, n. 412, il cui utilizzo standard non prevede l’installazione e l’impiego di sistemi tecnici di climatizzazione, quali box, cantine, autorimesse, parcheggi multipiano, depositi, strutture stagionali a protezione degli impianti sportivi, fatto salvo quanto disposto dal comma 3-ter;
- f) gli edifici adibiti a luoghi di culto e allo svolgimento di attività religiose.”
[3] Articolo 6, comma 3 del D.Lgs. 192/05 (comma così sostituito dall’art. 1, comma 7, legge n. 9 del 2014).
” Nei contratti di compravendita immobiliare, negli atti di trasferimento di immobili a titolo oneroso e nei nuovi contratti di locazione di edifici o di singole unità immobiliari soggetti a registrazione è inserita apposita clausola con la quale l’acquirente o il conduttore dichiarano di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell’attestato, in ordine alla attestazione della prestazione energetica degli edifici; copia dell’attestato di prestazione energetica deve essere altresì allegata al contratto, tranne che nei casi di locazione di singole unità immobiliari. In caso di omessa dichiarazione o allegazione, se dovuta, le parti sono soggette al pagamento, in solido e in parti uguali, della sanzione amministrativa pecuniaria da euro 3.000 a euro 18.000; la sanzione è da euro 1.000 a euro 4.000 per i contratti di locazione di singole unità immobiliari e, se la durata della locazione non eccede i tre anni, essa è ridotta alla metà. Il pagamento della sanzione amministrativa non esenta comunque dall’obbligo di presentare la dichiarazione o la copia dell’attestato di prestazione energetica entro quarantacinque giorni. L’accertamento e la contestazione della violazione sono svolti dalla Guardia di Finanza o, all’atto della registrazione di uno dei contratti previsti dal presente comma, dall’Agenzia delle Entrate, ai fini dell’ulteriore corso del procedimento sanzionatorio ai sensi dell’articolo 17 della legge 24 novembre 1981, n. 689.”