venerdì, Aprile 26, 2024
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L’appropriazione culturale nell’industria della moda: tra antropologia e diritti culturali

L’appropriazione culturale nell’industria della moda: tra antropologia e diritti culturali

a cura di Dott.ssa Rebecca Ricifari

Negli ultimi anni sempre più influencers, attori e cantanti, nonché grandi stilisti sono stati accusati dai media, dall’opinione pubblica e dai diretti interessati di c.d. appropriazione culturale.

I casi che possono menzionarsi sono molteplici, si pensi, ad esempio, ai numerosissimi tweet di sdegno con cui ha dovuto interfacciarsi Beyoncé negli ultimi mesi del 2018, a seguito della pubblicazione del video del singolo Hymn for the Weekend, in collaborazione con i Coldplay.[1] Nel video la cantate pop ballava e cantava indossando i tradizionali gioielli indiani “Desi” ed esibendo i tatuaggi ad henné sulle braccia, le gambe ed il viso che, da secoli, vengono utilizzati da diverse tradizioni indiane dalle donne in procinto di sposarsi o in altre occasioni sacre, il tutto durante l’ “Holi” di Mumbai, una ricorrenza sacra festeggiata tutti gli anni in primavera tra le strade della metropoli indiana.

Ancora, si pensi al caso, arrivato anche davanti al giudice francese, in cui è stata coinvolta Isabel Marant. La stilista, tra i pezzi della collezione primavera-estate “Étoile” del 2015, aveva incluso una camicia rossa e bianca tremendamente simile ai design “huipil” che sono prodotti ed utilizzati da diverse popolazioni indigene centro e sud-americane da tempo immemore.[2] Pochi mesi dopo la sfilata in passerella del prodotto, il popolo Mixe residente a Santa Maria Tlahuitoltepec, nello stato messicano di Oxaca, grazie anche all’aiuto dei propri rappresentanti politici e di alcune associazioni no-profit, presentarono le proprie doglianze, sostenute oltretutto da diversi giorni di manifestazioni davanti agli stores newyorkesi del noto marchio,[3] attraverso diversi comunicati rivolti alla Marant in si sottolineava come la blusa  appartenesse al patrimonio culturale del popolo messicano da oltre 600 anni.[4] In particolare, il popolo Mixe chiese alla stilista di riconoscere non solo che la sua camicia fosse essenzialmente una copia dalla tradizionale “huipil”, ma anche che venisse ritirata dal mercato e che venisse riconosciuto al popolo una forma di compensazione per la spiacevole vicenda. Sorprendentemente, la storia proseguì con risvolti peculiari; infatti, la Marant, mentre da un lato, si difendeva dalle accuse rivoltele dal popolo di Santa Maria Tlahuitoltepec e dai suoi sostenitori, affermando di essersi solo ispirata ai design ed alle fantasie messicane, contestualmente, dall’altro, veniva citata in giudizio per plagio da un altro artista, lo stilista Antik Batik, producendo a difesa le accuse lei sollevate dal popolo messicano e ammettendo come fosse questo il vero ideatore della fantasia.[5] Il giudice francese, nel dicembre 2015, chiuse il giudizio statuendo che né la Marant, né Batik potevano essere considerati i titolari di un diritto d’autore sul prodotto poiché la “huipil” era un prodotto culturale del popolo Mixe.[6]

Davanti a questi episodi, e le citazioni potrebbero continuare a lungo, tutti noi profani, ci chiediamo cosa possa essere biasimato di simili condotte. Detto altrimenti, ci si chiede cosa significhi appropriazione culturale ed in quali termini il tema assume una rilevanza sociale e, ancor più, giuridica.

  1. L’appropriazione culturale.

Il termine “appropriazione culturale” è un termine che solo di recente ha trovato accesso nel vocabolario corrente. Difatti, solo nel 2017, l’Oxford English Dictionary ha definito la voce “cultural appropriation” come “the unacknowledged or inappropriate adoption of the customs, practices, ideas, etc. of one people or society by members of another and typically more dominant people or society[7]. Ciononostante, forme di appropriazione culturale sono ricorrenti da tempo immemore. In particolare, afferma Shand: “It is a dull fact that the initial phase of modern cultural heritage appropriation was underscored by the twinned ages of Enlightenment and Empire, during which all the world was made over to fit the intellectual, economic, and cultural requirements of first Europe, then the United States. All manner of tangible cultural heritage of indigenous peoples (from design patterns to artifacts to body parts, even the people themselves) were looted, stolen, traded, bought, and exchanged by colonials of every status (from Governors General to itinerant sealers). These were studied, admired, looked at, and forgotten; created manias of taste and connoisseurship or never saw the light of day again, whether in the private houses, the palaces, or the museums of Empire.”[8] Ciò che è mutato, pertanto, sono le forme (e la scala, oggi globale) attraverso cui è perpetrata l’appropriazione culturale e, tra esse, il settore della moda ed suo sempre maggiore interesse per lo stile Boho e Bohimién, pertanto, altro non fanno che riproporre schemi e logiche sorte -ed ormai radicate- in un lontano passato.

Oggetto di appropriazione culturale sono le manifestazioni culturali, i simboli della cultura, ossia gli abiti, le danze, le musiche, gli oggetti che veicolano una cultura e all’interno della quella la stessa viene incardinata, tanto da venir meno la distinzione tra significato e significante.[9] In ambito tanto antropologico, quanto giuridico questi simboli sono stati definiti prima come Folklore e, più di recente, come espressioni culturali tradizionali (TCEs, in seguito) o espressioni di folklore (EoF, in seguito). Il mutamento terminologico è da attribuirsi a diversi fattori, il più rilevante dei quali è la connotazione denigratoria che il termine Folklore ha assunto tra il XVII ed il XX secolo nel mondo occidentale e che solo di recente è venuta meno.[10] In particolare, il termine folklore per lungo tempo è stato associato ad una sottocategoria del fenomeno, più vasto, della cultura, facente capo a società considerate come rurali, analfabete ed incivili.[11] L’episodio che, paradigmaticamente, ha determinato l’accoglimento dei nuovi e più neutri termini, risale al 1997 quando, in occasione del Forum di Phuket organizzato congiuntamente dalla WIPO e dall’UNESCO al fine di individuare uno strumento di tutela giuridica capace di proteggere adeguatamente le manifestazioni culturali, i rappresentanti di diversi paesi in via di Sviluppo lamentarono come il termine folklore , nel mondo occidentale, facesse spesso riferimento a “materia da collezione” con la conseguente “mercificazione” e lo svilimento del significato culturale ed identitario originario dei beni folklorici.[12]

L’antropologia giuridica, nonostante la presenza di autori che ancora rinnegano l’esistenza e le indesiderabili ricadute del fenomeno in questione,[13] ha individuato alcuni caratteri affinché si possa parlare di appropriazione culturale. Prima facie, l’appropriazione culturale è definita dalla dottrina come l’utilizzo in qualche modo improprio od offensivo da parte di un soggetto occidentale di un elemento culturale a lui estraneo, facente capo, invece, ad una cultura considerata “minore”.[14] Un simile utilizzo determina la collocazione di tale elemento in un contesto nuovo e lontano da quello originario, senza che la comunità detentrice ne venga messa a conoscenza o venga lei chiesto il consenso.[15]

Pertanto, il primo elemento considerato identificativo di un episodio di appropriazione culturale è la citata occasione di “scontro” e “sottrazione” di elementi identificativi di una cultura che, richiamandosi alla terminologia di Cirese e di Gramsci,[16] è definibile come subalterna, ad opera invece di una qualificabile come egemonica. Per tale motivo, il fenomeno è stato considerato da molteplici autori, non solo come una riproposizione delle logiche, ma addirittura come un pesante lascito del periodo coloniale.[17] Lo stesso ha, in specie, fornito una legittimazione logica e storica alle moderne versioni del fenomeno che si concentrano soprattutto nel settore della moda e dello spettacolo. Infatti, il parallelismo si giustifica, non soltanto in ragione del fatto per cui l’epoca in questione fu proprio caratterizzata dalla dominazione occidentale sui popoli di Africa, Asia e Sud America, perpetrata grazie anche all’assorbimento e l’appiattimento della cultura dominata -posta in essere talvolta grazie al furto del materiale artistico, storico e culturale di tali popoli- ma anche dall’analogia della fattispecie dell’appropriazione culturale con la dottrina della terra nullius:[18] le TCEs, come le terre dei popoli dominati durante il periodo coloniale, vengono percepite come “patrimonio comune dell’umanità” e di conseguenza come liberamente utilizzabili da chiunque interessato.[19]

Contestuale e conseguente alla sottrazione appena descritta dell’elemento culturale, è la sua dislocazione dal contesto geografico, sociale e culturale originario[20] tale per cui la funzione simbolica e veicolante della TCEs stessa viene meno. La manifestazione culturale, infatti, ove dislocata e così privata della sua portata simbolica, cessa di essere manifestazione e si riduce a mero oggetto, merce o vezzo. Una simile perdita conduce, inevitabilmente, ad utilizzi impropri e spesso offensivi dell’oggetto, del bene culturale. Per meglio chiarire la dinamica è possibile procedere ad un esempio: nel 2013 il noto brand sportivo Nike, mise in commercio abbigliamento sportivo femminile utilizzando le fantasie dei tatuaggi Pe’a degli aborigeni delle isole di Samoa[21]. Il Pe’a è il tatuaggio cui vengono sottoposti i ragazzi in occasione della cerimonia conclusiva dei riti di passaggio dall’ infanzia all’età adulta ed è volto a consacrare l’acquisita capacità del ragazzo di proteggere e mantenere la propria famiglia[22], di conseguenza l’utilizzo di quelle fantasie per il vestiario sportivo femminile risultò essere offensivo per il popolo samoano, che richiese -e ottenne- il ritiro dal mercato dei prodotti con le scuse del marchio americano.[23]

Il terzo elemento che diversi autori hanno posto a fondamento dell’appropriazione culturale è rappresentato dal mancato coinvolgimento dei detentori originari della TCEs nel processo produttivo, di commercializzazione o d’impiego della stessa che può variamente assumere la forma di dell’assenza di una loro preventiva autorizzazione, nell’assenza di una loro menzione come originali autori e/o, infine, nel mancato riconoscimento di una qualche forma tanto di contributo patrimoniale per il “prestito”, quanto di risarcimento in caso di lesione dei loro interessi morali a fronte di un uso inopportuno o denigratorio. Se, dal punto di vista giuridico, analoghe manchevolezze, salvo sia presente apposita norma che preveda in tal senso,[24] è raro che assurgano ad illecito, dal punto di vista sociale ed antropologico rimangono comunque fortemente lesive. Per tale ragione, la dottrina maggioritaria ha preferito parlare di “Missappropriation”, piuttosto che di “Illicit exploitation”. A riguardo, la questione è ben chiarita da Susan Scafidi che, evidenziando la -sottile- distinzione tra Cultural Appropriation e Cultural Appreciation , ha elaborato il concetto di “permissive appropriation[25], con cui si fa riferimento proprio a tutta una serie di ipotesi che non possono qualificarsi come illecite in quanto o non era previsto alcun tipo di obbligo di coinvolgimento degli originali detentori, o tale obbligo pur presente, è stato rispettato sia nella presentazione della richiesta all’utilizzo della TCEs che nei limiti entro cui i detentori lo hanno concesso. La Scafidi, nel suo noto saggio, sostiene che affinché si possa parlare di apprezzamento culturale e non di appropriazione è necessario che stilisti ed altri soggetti per lo più occidentali coinvolti, coinvolgano, a prescindere dalla presenza di una norma che lo imponga, gli originali detentori nei processi di sfruttamento e di commercializzazione della loro cultura.[26]

Tuttavia, ciò che davvero preoccupa dell’appropriazione culturale sono gli effetti che questa determina sul piano sociale, politico, economico e culturale.

  1. Le conseguenze dell’appropriazione culturale.

Per quanto attiene alle più manifeste conseguenze di tipo culturale ed economico l’appropriazione culturale da un lato, come già sottolineato, è spesso offensiva per gli originali detentori, dall’altro, il libero utilizzo e la collocazione sul mercato delle TCEs da parte di soggetti terzi alle comunità ordinarie, impedisce loro di lucrare sullo stesso bene. Tale effetto è aggravato dal fatto che di frequente gli originali detentori non riescono a stare al passo con i tempi, i luoghi e i costi della globalizzazione e dell’industria occidentale, infatti, le tecniche e le tecnologie occidentali possono superare in qualità, bellezza, precisione o resistenza le opere originali e, di conseguenza, far propendere il consumatore per l’opzione occidentale determinando un totale esclusione degli autori originali dal mercato del prodotto.

Dal punto di vista sociale, la mercificazione, la stereotipizzazione e l’imitazione delle TCEs perpetrata dagli operatori dei mercati occidentali può, con il tempo, portare al venir meno dell’associazione tra l’espressione e la cultura presso cui ha avuto origine e, da ultimo, determinarne la definitiva scomparsa: “the day that a culture’s TCEs are no longer associated with that culture might be the day that that culture has ceased to exist”.[27] In tale ottica, quindi, il tema diviene fondamentale nella prospettiva politica e sociale poiché si pone come una questione di sopravvivenza e autodeterminazione delle comunità d’origine. Le pratiche di “cancellazione”, “appiattimento” culturale, nonché gli effetti razzisti e discriminatori connessi al fenomeno oggetto d’analisi, sono paragonabili alla cancellazione e all’appiattimento che hanno contraddistinto il periodo coloniale e post-coloniale.[28]

Alla luce delle conseguenze appena esposte non v’è chi non possa non biasimare la “leggerezza” con cui gli stilisti continuino ad utilizzare design e fantasie tradizionali di popoli di tutto il mondo.

Davanti a queste circostanze, politici ed attivisti indigeni, ma anche la dottrina internazionalistica più sensibile, hanno cercato d’individuare una base legale che legittimasse ed interventi legislativi capaci di garantire una tutela tanto pubblicistica, quanto privatistica agli autori delle TCEs. Detto altrimenti, si è tentato di comprendere se l’appropriazione culturale possa, in qualche mondo, sempre definirsi come illecita e giuridicamente rilevante.

Lo sguardo si è immediatamente rivolto alla normativa attinente ai diritti umani e, in particolare, ai diritti culturali poiché, si è detto, le TCEs risultano essere simbolo e/o veicolo di cultura. È da segnalare come il principale problema che gli studiosi si sono trovati a dover fronteggiare fu – ed è -rappresentato dalla concezione e dall’affermazione prettamente individualistica del diritto tipicamente occidentale che si scontra con un fenomeno, quello delle TCEs e dell’appropriazione culturale, che invece sono collettivi. Detto altrimenti, una cultura, intesa come eredità storica, antropologica e sociale di un dato insieme umano e, di conseguenza, le TCEs, non possono far capo ad un singolo soggetto poiché l’una, la cultura, è per definizione un insieme di pratiche ed eredità di vario tipo riferibili ad una pluralità di soggetti; per le altre, le TCEs, poiché si qualificano come manifestazioni culturali ed identitarie passate di generazione in generazione fino ai giorni nostri,[29] è praticamente impossibile individuare un preciso autore in quanto si costituiscono come una “stratificazione” dei vari apporti intellettuali “sequenziali, cumulativi, spontanei”.[30] Il problema quindi, è quello d’individuare il soggetto, singolo o comunità, cui imputare il diritto culturale incardinato nelle TCEs.

  1. La tutela della appropriazione culturale a livello internazionale.

Dal punto di vista internazionale, intervengono diversi strumenti normativi a tutela dei diritti culturali, il primo tra questi, anche a livello cronologico, è rappresentato dall’articolo 27 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948[31] che afferma:

1. Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici.

2. Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore.[32]

La Dichiarazione, tuttavia, a dimostrazione di quanto già sottolineato, si limita all’affermazione dell’esistenza di diritti individuali, senza prendere in considerazione i diritti e gli interessi di un’intera comunità nei confronti della propria cultura. Inoltre, l’articolo non pare in alcun modo fare riferimento alle TCEs o ad obblighi degli Stati di intervenire a tutela delle stesse. Pertanto, la Dichiarazione non è idonea a fondare la base giuridica sulla scorta della quale ritenere illecito un episodio di appropriazione culturale.

Nel 1966, altri due strumenti internazionali hanno riconosciuto il ruolo irrinunciabile che i diritti culturali assumono nel più vasto ambito dei diritti umani.[33] In particolare, si fa riferimento, innanzitutto, all’art. 27 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR, in seguito) che impone:

“[a] quegli Stati, nei quali esistono minoranze etniche, religiose, o linguistiche, gli individui appartenenti a tali minoranze non possono essere privati del diritto di avere una vita culturale propria, di professare e praticare la propria religione, o di usare la propria lingua, in comune con gli altri membri del proprio gruppo.[34]A differenza della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, in questo strumento, il riferimento è rivolto alle “minoranze”. Viene quindi riconosciuto il valore della cultura per la pluralità dei soggetti cui essa appartiene, ma, tuttavia, l’affermazione del diritto avviene in maniera particolare: il diritto alla cultura sembra ancora essere, almeno a livello letterale, un diritto individuale, semplicemente viene riconosciuto in concerto con il diritto alla cultura di ciascun membro della comunità di minoranza[35]. I vari diritti individuali alla cultura, insomma, si sommano tra loro. Ciononostante, l’articolo è la base su cui lo Human Right Commettee (IRC, in seguito)[36], ha fondato la tutela della c.d. identità culturale degli individui in quanto membri di una comunità indigena[37].

Dall’altro lato, la seconda disposizione rilevante è l’art. 15 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR, in seguito) a norma del quale:

“1. Gli Stati Parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo:

a) a partecipare alla vita culturale;

b) a godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni;

c) a godere della tutela degli interessi morali e materiali scaturenti da qualunque produzione scientifica, letteraria o artistica di cui egli sia l’autore.

Le misure che gli Stati Parti del presente Patto dovranno prendere per conseguire la piena attuazione di questo diritto comprenderanno quelle necessarie per il mantenimento, lo sviluppo e la diffusione della scienza e della cultura.[38]

Questo secondo articolo pare più incisivo rispetto al summenzionato articolo 27 infatti, non solo viene riconosciuto un diritto di disporre della cultura e di partecipare alla vita culturale, ma si riconosce altresì la connessione tra la cultura e il progresso scientifico e quindi, da ultimo, il diritto di godere dei benefici di tale progresso anche attraverso la tutela dei diritti materiali e morali alla base di qualsiasi produzione scientifica, artistica o letteraria. Pertanto, grazie ad un simile riconoscimento, ove le TCEs rientrassero nelle “produzioni scientifiche, culturali o artistiche” oggetto dell’articolo, sembrerebbe legittimo affermare che le pratiche di appropriazione culturale che, come già evidenziato, determinano una sottrazione dei benefici economici e non derivanti dall’impiego delle TCEs, siano da qualificarsi come lesive di un diritto culturale. Ciononostante, affinché si possa parlare di illiceità strictu sensu è necessario un intervento dei legislatori statali che, attraverso l’introduzione di normative a ciò dedicate, fondino la fattispecie.

A risoluzione di tale ultimo profilo menzionato, l’art. 15.2., impone agli Stati di prendere le misure necessarie per mantenere, sviluppare e diffondere la cultura.

Così letto, tuttavia, il significato della disposizione rimane ancora in qualche modo oscuro e poco utile rispetto alla questione oggetto d’analisi poiché, innanzitutto -visto l’impiego al singolare dei concetti di “individuo” ed “autore”- l’articolo sembra ribadire solo l’esistenza di un diritto individuale alla cultura e di un diritto di beneficiare degli effetti derivanti dal suo progresso, compreso il beneficio derivante dagli interessi morali e materiali alla base di una produzione culturale (scientifica, artistica o letteraria); in secondo luogo, non parla espressamente di TCEs ed è quindi dubbio se queste possano rientrare nella categoria delle produzioni culturali cui fa riferimento l’articolo.

Circa tali problemi, attraverso General Comment No. 17[39]si è espresso nel 2005 l’organo istituito a garanzia della ICESCR: lo United Nations Committee on Economic Social and Cultural Rights.[40]

 Nel parere, in primo luogo, il Comitato chiarisce che il termine “autore” sia riferibile non solo ad un singolo individuo, ma anche ad un gruppo.[41] Sulla scorta di questa impostazione quindi, popoli indigeni e comunità locali, collettivamente, possono essere considerati gli autori di una produzione scientifica, artistica o letteraria. Secondariamente, a chiarire cosa debba intendersi compreso in tale ultimo insieme a norma dell’art. 15.1 lettera c), intervengono i paragrafi 9 e 32. All’interno di tale macro-categoria, ha affermato il Comitato, è possibile distinguere tra le produzioni scientifiche e le produzioni artistiche e letterarie.[42] Nella prima, rientrano tutte le creazioni della mente umana tra cui le conoscenze, le innovazioni e le pratiche di popoli indigeni e comunità locali.[43] Nella seconda invece, rientrano tra gli altri: “poems, novels, paintings, sculptures, textile designs, potteries, ceramics, musical compositions, theatrical and cinematographic works, performances and oral traditions”.[44] Seguendo questa interpretazione, quindi, l’art. 15.1 lettera c) riconosce il valore delle TCEs come produzioni artistiche, i.e. forme di proprietà intellettuale.

Infine, al paragrafo 32[45], il Comitato rimarca che proprio con riferimento alle TCEs delle comunità indigene, gli Stati parte della Convenzione sono tenuti all’adozione di misure volte a proteggere gli interessi dei detentori. Tali misure, che dovrebbero essere studiate attraverso il coinvolgimento diretto di comunità indigene e locali, potrebbero comprendere “the adoption of measures to recognize, register and protect the individual or collective authorship of indigenous peoples under national intellectual property rights regimes and should prevent the unauthorized use of scientific, literary and artistic productions of indigenous peoples by third parties[46]. In conclusione, il Comitato suggerisce che gli Stati, nell’implementare la Convenzione, dovrebbero rispettare il principio del consenso libero, preventivo e informato degli autori indigeni, nonché tenere in considerazione le consuetudini degli stessi ed in particolare, quindi, le forme di trasmissione delle conoscenze e l’amministrazione collettiva dei benefici derivanti da TK e TCEs.[47]

Alla luce di questi interventi sembra potersi affermare che l’art. 15.1 lettera c) non solo riconosce contemporaneamente un diritto individuale e uno collettivo sulle produzioni culturali -da considerarsi un diritto umano-ma impone anche agli Stati di intervenire per tutelare tali produzioni.

In quest’ottica, secondo la teoria e la pratica internazionale in ambito di diritti umani,[48] il loro riconoscimento impone agli Stati obbligazioni su tre livelli: “the obligations to respect, to protect and to fulfil.”.[49]

Il primo livello determina “an obligation of the State not to interfere with the freedom at issue. This obligation is mirrored by an entitlement of the human rights holder to object to any State intervention infringing the rights afforded.”[50] Si pone quindi come un obbligo negativo di “non fare”. Sarà allora da valutare se l’intervento normativo dei legislatori nazionali, in taluni casi, e in quali, possa violare questo obbligo, mettendo in pericolo il diritto alla cultura inglobato nelle TCEs di comunità indigene e locali. La seconda obbligazione -positiva- è quella di proteggere, questa comporta invece per gli Stati l’obbligo di implementare normative capaci di garantire l’affermazione dei diritti culturali nelle TCEs rispetto a potenziali lesioni degli stessi. Infine, l’obbligazione di garantire, si compone di ulteriori due obbligazioni: quella di facilitare e quella di provvedere[51]. Al presente dovere, gli Stati devono adempiere attraverso “all necessary steps within their available resources”.[52] Tra queste, come sottolinea ancora il paragrafo 34, rientrano tutti i rimedi “administrative, judicial or other appropriate remedies in order to enable authors to claim the moral and material interests resulting from their scientific, literary or artistic productions and to seek and obtain effective redress in cases of violation of these interests”.[53]

Sulla base delle fonti e degli insegnamenti sopra richiamati, diversi autori hanno affermato come sussistente un vero e proprio obbligo in capo agli Stati di provvedere al riconoscimento di un diritto proprietario collettivo sulle TCEs.[54]

Inoltre, diritti culturali di natura collettiva, vengono riconosciuti e affermati all’interno di strumenti specificamente riferiti ai popoli indigeni. Primo tra questi è la già citata ILO Convention 169 in cui agli articoli 7.1[55] e 13.1[56] si prende atto della concezione collettiva dei diritti nell’ottica indigena e viene perciò riconosciuta l’importanza non solo del loro coinvolgimento nelle politiche che li riguardano, ma anche, indirettamente, del ruolo svolto dal loro diritto consuetudinario in simili questioni. In secondo luogo, nel 2007 è stata adottata la Dichiarazione delle Nazione Unite sui diritti dei popoli indigeni[57], nel cui art. 31 si afferma, facendo espresso riferimento alle TCEs, che:

“1. I popoli indigeni hanno diritto a mantenere, controllare, proteggere e sviluppare il proprio patrimonio culturale, il loro sapere tradizionale e le loro espressioni culturali tradizionali, così come le manifestazioni delle loro scienze, tecnologie e culture, ivi comprese le risorse umane e genetiche, i semi, le medicine, le conoscenze delle proprietà della flora e della fauna, le tradizioni orali, le letterature, i disegni e i modelli, gli sport e i giochi tradizionali e le arti visive e dello spettacolo. Hanno anche diritto a mantenere, controllare, proteggere e sviluppare la loro proprietà intellettuale su tale patrimonio culturale, sul sapere tradizionale e sulle espressioni culturali tradizionali.

  1. Di concerto con i popoli indigeni, gli Stati devono adottare misure atte a riconoscere e a proteggere l’esercizio di questi diritti.”[58]

Dal testo dell’articolo, è chiaro il riferimento ai popoli indigeni per ciò che attiene l’elemento soggettivo delle TCEs e quindi alla titolarità collettiva delle stesse.[59] L’articolo non si limita a questo, riconoscendo infatti anche il diritto a esercitare forme di proprietà intellettuale sul patrimonio culturale dei soggetti coinvolti. Il paradigma seguito quindi sembra essere quello dell’autodeterminazione di tali popoli anche con riferimento alle TCEs. Come nota Zagato, tra l’altro, in tale articolo l’identità culturale dei popoli indigeni assume e si riassume in due diverse sfaccettature: identità come espressione di patrimonio culturale intangibile da salvaguardare e identità come presupposto dell’esercizio di diritti proprietari sulle TCEs[60].

All’affermazione dei menzionati diritti si accompagna anche la previsione secondo cui gli Stati, nel riconoscerli e nel proteggerli, sono tenuti ad agire di concerto con i popoli indigeni.

È necessario ricordare tuttavia che si tratta di un atto di soft law. Ciò significa, che pur rappresentando un’importante base per i successivi sviluppi sulla questione, nonché una fonte d’ispirazione per la giurisprudenza internazionale[61], questa non crea alcun vincolo di implementazione in capo agli Stati.

Quindi, se non può dirsi esistente un dovere per gli Stati di introdurre ex novo nel loro ordinamento forme proprietarie collettive per le TCEs volte a prevenire, vietare e punire episodi di appropriazione culturale, dall’altro lato, è invece certo che questi siano tenuti a garantire il pieno esercizio del diritto alla cultura, la possibilità per gli autori -concetto da interpretarsi come chiarito nel General Comment No. 17- di beneficiare delle proprie opere, nonché la salvaguardia del patrimonio culturale che si manifesta attraverso le TCEs.

In conclusione, se le condotte di appropriazione perpetrate da parte delle grandi case di moda non sempre sono qualificabili, ad oggi, come illecite, certo è che i brands dovrebbero da un lato, prendere atto degli effetti che, su diversi piani, come rilevato dall’antropologia, conseguono all’appropriazione culturale e dall’altro, prendere atto che, sotto il profilo giuridico, le loro condotte risultano lesive di uno dei diritti umani solennemente riconosciuto dalla normativa pattizia internazionale.

 

[1] Cfr. L. Beck, “Coldplay and Beyoncé’s New Video Is Accused of Cultural Appropriation”, Cosmopolitan, 30 gennaio 2016, in cui per la prima volta si affronta la tematica dell’appropriazione culturale.

[2] Cfr. K. Varagur, “Mexico Prevents Indigenous Designs From Being Culturally Appropriated — Again”, The Huffington Post, 17 marzo 2016.

[3] Ibidem.

[4] Cfr. N. Larsson, “Inspiration or plagiarism? Mexicans seek reparations for French designer’s look-alike blouse”, The Guardian, 17 giugno 2015.

[5] Cfr. J. Escobedo Shepherd, “Court Rules High-End French Label Doesn’t Own Rights to Indigenous Oaxacan Design”, The Muse, 12 luglio 2015.

[6] Ibidem.

[7] Cfr. The Oxford English Dictionary, sub “Cultural Appropriation”.

[8] Op. Cit., P. Shand, “Scenes from the Colonial Catwalk: Cultural Appropriation, Intellectual Property Rights, and Fashion”, in Cultural Analysis, Vol. 3, 2002, pp. 47- 52.

[9] Op. Cit., U. Eco,Il segno, Milano, A. Mondadori, 1980.

[10] Tant’è che ad oggi la stessa WIPO utilizza indifferentemente i termini “Traditional Cultural Expression” e “Expression of Folklore”. Cfr. Wipo The Protection of TCEs: Draft Gap Analysis, 2008.

[11] Per ulteriori approfondimenti circa quest’aspetto, si veda: P. Karuk, “Protecting Folklore under Modern Intellectual Property Regime: A Reappraisal of the Tensions between Individual and Communal Rights in Africa and the United States”, in American University Law Review, vol.48, fasc.4., 1999, pp. 769 ss.

[12] Cfr. “WIPO-UNESCO World Forum on the Protection of Folklore, Phuket Thailand”, WIPO Publication Number 758 (E/F/S), 1998.

[13] Per alcuni esempi di tali dottrine si veda quanto citato in: R. J. Coombe, “The Properties of Culture and the Possession of Identity: Postcolonial Struggle and the Legal Imagination” in B. Ziff & P. V. Rao (a cura di), Borrowed Power: Essays on Cultural Appropriation, , Rutgers University Press, New Brunswick, 1997 pp. 74-76.

[14] Cfr. B. Vèzina, “Curbing Cultural Appropriation in the Fashion Industry”, CIGI Papers No. 19, 2019, pp. 1-16.

[15]Cfr. S. Sharoni, “The Mark of a Culture: The Efficacy and Propriety of Using Trademark Law to Deter Cultural Appropriation”, in The Federal Circuit Bar Journal, vol. 26, fasc. 3, 2017, pp. 408-410.

[16] Cfr. A. Gramsci, “Osservazioni sul Folklore”, in “Quaderni dal carcere”, Einaudi, 1948; A.M. Cirese, “Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale”, Palumbo, 1971.

[17] Cfr.L. Behrendt, “In your Dreams: Cultural Appropriation, Popular Culture and Colonialism”, in Law Text Culture, vol. 4, 1998, pp. 256-279;   R.J. Coombe, “The Properties of Culture and the Politics of Possessing Identity: Native Claims in the Cultural Appropriation Controversy”, in Canadian Journal of Law and Jurisprudence, vol. 6, fasc. 2, 1993, pp. 249-285;M. S. Engle, “Law, Culture and Cultural Appropriation”, in Yale Journal of Law & the Humanities, vol. 10, fasc. 2, 1998, pp. 575-604; R. Tsosie, “Reclaiming Native Stories: An Essay on Cultural Appropriation and Cultural Rights”, in Arizona State Law Journal,vol. 34, 2002, pp. 299-358;

[18] Cfr. N. RohtArriaza, “Of Seeds and Shamans: The Appropriation of the Scientific and Technical Knowledge of Indigenous and Local Communities” in B. Ziff & P. V. Rao (a cura di), Borrowed Power: Essays on Cultural Appropriation, cit., pp.255 e ss.

[19] Ibidem.

[20] Op. cit. S. Sharoni, “The Mark of a Culture: The Efficacy and Propriety of Using Trademark Law to Deter Cultural Appropriation”, in Federal Circui Bar Journal, vol. 26, 2017, pp. 407-408, 418- 420.

[21] Cfr.“Nike Tattoo Leggings Pulled After Deemed Exploitative of Samoan Culture”, The Huffington Post, 2013.

[22]Per maggiori informazioni circa il Pe’a si veda il seguente link: https://tatuaggio-tattoo.it/tatuaggi-maori/tatuaggio-polinesiano-samoa

[23] “We apologise to anyone who views this design as insensitive to any specific culture. No offence was intended.” Cfr. B. London,“Nike forced to pull ‘culturally exploitative’ leggings after garment sparks outrage among Polynesians”, Daily Mail, 19 Agosto 2013.

[24] Diversi paesi dell’Africa, dell’Asia e del Centro e del Sud- America, hanno introdotto normative che prevedono in tal senso.

[25]Op.cit, S. Scafidi, “Who Owns Culture? Appropriation and Authenticity in American Law”, Rutgers University Press, New Brunswick, 2005., p. 115.

[26] Ibidem, pp. 116 ss.

[27]Op. cit., B. Vézina, “Curbin Cultural Appropriation in the Fashion Industry”, cit., p. 10.

[28]Op.cit, B. Ziff & P. V. Rao, “Introduction to Cultural Appropriation: A Framework for Analysis”, in B. Ziff & P. V Rao (a cura di), Borrowed Power: Essays on Cultural Appropriation, cit., pp.1-8;

[29] “SECTION 2 Model Provision for National Law on the Protection of Expression of Folklore against Illecit Exploitation and other Prejudicial Actions: Protected Expressions of Folklore

For the purposes of this [law], “expressions of folklore” means productions consisting of characteristic elements of the traditional artistic heritage developed and maintained by a community of [name of the country] or by individuals reflecting the traditional artistic expectations of such a community, in particular:

(i)il verbal expressions, such as folk tales, folk poetry and riddles;

(ii)musical expressions, such as folk songs and instrumental music;

(iii)expressions by action, such as folk dances, plays and artistic forms or rituals;

(iv) whether or not reduced to a material form; and

(iv) tangible expressions, such as:

(a) productions of folk art, in particular, drawings, paintings, carvings, sculptures, pottery, terracotta, mosaic, woodwork, metalware, jewellery, basket weaving, needlework, textiles, carpets, costumes;

(b) musical instruments;

(c) architectural forms.

[30]Op.cit, C.Zuddas, “Strumenti e modelli per la tutela giuridica delle espressioni culturali tradizionali”, Edizioni scientifiche italiane, 2015,p. 155.

[31]Adottata a Parigi il 10 dicembre del 1948 con la risoluzione 219077°, la Dichiarazione rappresentò la consacrazione di quei valori considerati comuni a tutti gli Stati al termine del secondo conflitto mondiale. Questa è composta da 30 articoli in cui vengono affermati i diritti individuali, civili, politici, economici, sociali, culturali di ogni persona. Nonostante si tratti di una dichiarazione, e quindi in teoria di un atto non vincolante, visto il continuo richiamo dalle costituzioni, dalla giurisprudenza e dai legislatori della maggior parte degli Stati membri delle Nazioni Unite, questa di fatto è entrata a far parte del diritto consuetudinario internazionale e di conseguenza risulta essere vincolante. Op.cit., H. Hannum, “The UDHR in national and international law”, in Health and Human Rights, vol.3, fasc. 2, 1998, pp. 144-158.

[32]Art. 27 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

[33]Logicamente antecedente ai diritti affermati negli articoli 27 dell’ICCPR e 15 dell’ICESCR, è l’art.1 di entrambi i patti, avente contenuto identico. All’interno di questo viene espressamente sancito il diritto all’autodeterminazione dei popoli. In particolare, l’articolo nei suoi tre paragrafi prevede tre diverse intensità del diritto in questione. Al primo paragrafo si determina il contenuto di tale diritto affermando i popoli “[…] decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”. Nel secondo paragrafo invece se ne articola un particolare profilo, affermando che questo comprende il diritto di “[..]disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali senza pregiudizio degli obblighi derivanti dalla cooperazione economica internazionale, fondata sul principio del mutuo interesse, e dal diritto internazionale in nessun caso un popolo può essere privato dei propri mezzi di sussistenza” Da ultimo, al par. 3, viene sancito l’obbligo per gli Stati parte, compresi quelli responsabili dell’amministrazione di territori non autonomi e di territori in amministrazione fiduciaria, di “promuovere l’attuazione del diritto di autodeterminazione dei popoli e rispettare tale diritto, in conformità alle disposizioni dello Statuto delle Nazioni Unite.” Questo, come risaputo, si articola in una dimensione esterna e una interna. La prima consistite nella liberazione dei popoli dal dominio coloniale e quindi comporta il venir meno dell’assoggettamento straniero. Questa, legittima una scelta di organizzazione politica, economica e sociale “esterna” alla sovranità dello Stato a cui il popolo che la esercita è stato fino ad allora sottoposto. la seconda, si raggiunge invece quando in uno Stato un governo rappresenta l’intero popolo senza distinzione di razza, di credo religioso o colore.si manifesta quindi nell’ esercizio di diritti derivanti dal principio di autodeterminazione all’interno dei confini dello Stato e nell’obbligo per gli Stati di garantire l’esercizio di tali diritti. Con riferimento a tale aspetto interno dell’autoderminazione questo ha assunto peculiari connotati per ciò che attiene i popoli indigeni da un lato per ragioni storiche dovute alla predilezione della dimensione esterna in seguito alla storia coloniale cui questi sono stati sottoposti (op.cit, L.Zagato , “La protezione dell’identità culturale dei popoli indigeni oggetto di una norma di diritto internazionale generale?” in Thule. Rivista italiana di studi americanistici, vol. 26/27 e 28/29, 2010 e 2011, p. 166); dall’altro, a causa della forma attraverso cui si è concretizzata tale dimensione interna: non tanto l’assicurazione della democraticità e della rappresentatività degli Stati, ma più come “concessione di una forma di autonomia in campi fondamentali per assicurare la conservazione dell’identità del gruppo” (R.Cammarata,“I diritti dei popoli indigeni. Lotte per il riconoscimento e principio di autodeterminazione” in “Working Papers” 6/2004, p. 26).

[34]Art. 27 Patto internazionale diritti civili e politici.

[35]Cfr. J.Gibson,”The UDHR and the Group: Individual and Community Rights to Culture”, in Hamline Journal of Public Law & Policy, vol. 30, fasc. 1, 2008, p. 295. “Although this provision appears to acknowledge the cultural rights of a group; however, this is articulated through an individual right.”

[36]Comitato di 18 esperti creato sulla base della stessa convenzione avente il compito di verificare e garantire l’implementazione della stessa tra gli Stati parte.

[37] Per una panoramica sulla questione alla luce dei casi della HRC di veda S. J. Anaya, “Indigenous Peoples in International Law”, 2nd ed., Oxford University Press, Oxford ,2004, pp. 134–137.

[38]Art. 15 Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Il testo completo dell’articolo è il seguente: “1. Gli Stati Parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo: a) a partecipare alla vita culturale; b) a godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni; c) a godere della tutela degli interessi morali e materiali scaturenti da qualunque produzione scientifica, letteraria o artistica di cui egli sia l’autore. 2. Le misure che gli Stati Parti del presente Patto dovranno prendere per conseguire la piena attuazione di questo diritto comprenderanno quelle necessarie per il mantenimento, lo sviluppo e la diffusione della scienza e della cultura 3. Gli Stati Parti del presente Patto si impegnano a rispettare la libertà indispensabile per la ricerca scientifica e l’attività creativa.4. Gli Stati Parti del presente Patto riconoscono i benefici che risulteranno dall’incoraggiamento e dallo sviluppo dei contatti e dalla collaborazione internazionale nei campi scientifico e culturale.”

[39]E/C.12/GC/17,United Nations Committee on Economic, Social and Cultural Rights (CESCR), “General Comment No. 17: The Right of Everyone to Benefit from the Protection of the Moral and Material Interests Resulting from any Scientific, Literary or Artistic Production of Which He or She is the Author (Art. 15, Para. 1 (c) of the Covenant)”, 2006. Reperibile al link:

 http://www.unhcr.org/refworld/type,GENERAL,,,441543594,0.html .

[40]L’organo, istituito con la risoluzione ECOSOC 1985/17 del 28 maggio 1985 attuativa della parte IV della convenzione, è composto di 18 esperti indipendenti che hanno il compito di monitorare l’implementazione del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Per maggiori informazioni circa lo stesso consultare la pagina:

 https://www.ohchr.org/en/hrbodies/cescr/pages/cescrindex.aspx.

[41]E/C.12/GC/17, General Comment No. 17: The Right of Everyone to Benefit from the Protection of the Moral and Material Interests Resulting from any Scientific, Literary or Artistic Production of Which He or She is the Author (Art. 15, Para. 1 (c) of the Covenant), United Nations Committee on Economic, Social and Cultural Rights (CESCR) 2006. par. 7 e 8.

[42]Cfr. ibidem, par. 9: “The Committee considers that “any scientific, literary or artistic production”, within the meaning of article 15, paragraph 1 (c), refers to creations of the human mind, that is to “scientific productions”, such as scientific publications and innovations, including knowledge, innovations and practices of indigenous and local communities, and “literary and artistic productions”, such as, inter alia, poems, novels, paintings, sculptures, musical compositions, theatrical and cinematographic works, performances and oral traditions.”

[43]Ibidem, par. 9.

[44]Ibidem, par.9.

[45]Ibidem, par. 32: “With regard to the right to benefit from the protection of the moral and material interests resulting from any scientific, literary or artistic production of indigenous peoples, States parties should adopt measures to ensure the effective protection of the interests of indigenous peoples relating to their productions, which are often expressions of their cultural heritage and traditional knowledge. In adopting measures to protect scientific, literary and artistic productions of indigenous peoples, States parties should take into account their preferences. Such protection might include In implementing these protection measures, States parties should respect the principle of free, prior and informed consent of the indigenous authors concerned and the oral or other customary forms of transmission of scientific, literary or artistic production; where appropriate, they should provide for the collective administration by indigenous peoples of the benefits derived from their productions.”

[46]Ibidem.

[47]Ibidem.

[48]Si parla a tal proposito di teoria istituzionale dei diritti umani. Secondo questa, per l’appunto, l’affermazione di un diritto umano comporta le tre obbligazioni in capo agli Stati. Per maggiori informazioni a riguardo si vedano N. Luhmann, “Grundrechte als Institution. Ein Beitrag zur politischen Soziologie”, 3rd ed., Duncker and Humblot, Berlin, 1986 (1965); H. Willke, “Stand und Kritik der neueren Grundrechtstheorie. Schritte zu einer normativen Systemtheorie, Berlin: Duncker and Humblot”, 1975, pp. 111–156.

[49]E/C.12/GC/17, “General Comment No. 17: The Right of Everyone to Benefit from the Protection of the Moral and Material Interests Resulting from any Scientific, Literary or Artistic Production of Which He or She is the Author (Art. 15, Para. 1 (c) of the Covenant)”, cit., par. 15.

[50]Cfr.C. B.Graber,” Using Human Rights to Tackle Fragmentation in the Field of Traditional Cultural Expressions: An Institutional Approach”, in C. B. Graber, M. Burri-Nenova (a cura di), intellectual property and traditional cultural expressions in a digital environment, , Cheltenham, UK: Edward Elgar, 2008. pp. 96-120. Disponibile al link: https://ssrn.com/abstract=2175465.

[51]Cfr. E/C.12/GC/17, “General Comment No. 17: The Right of Everyone to Benefit from the Protection of the Moral and Material Interests Resulting from any Scientific, Literary or Artistic Production of Which He or She is the Author (Art. 15, Para. 1 (c) of the Covenant)”, cit., par. 15: “In turn, the obligation to fulfil incorporates both an obligation to facilitate and an obligation to provide”.

[52]Ibidem, par. 46.

[53]Ibidem,par. 34.

[54]Cfr. C. B.Graber,” Using Human Rights to Tackle Fragmentation in the Field of Traditional Cultural Expressions: An Institutional Approach”, cit.; H.H. Morten. “Traditional Knowledge and Human Rights.” In Journal of World Intellectual Property, vol. 8, fasc. 5, 2005, pp. 663-678.

[55] “I popoli interessati devono avere il diritto di decidere le proprie priorità in ciò che riguarda il processo di sviluppo, nella misura in cui esso incida sulla loro vita, sulle loro credenze, le loro istituzioni ed il loro benessere spirituale e sulle terre che essi occupano od in altro modo utilizzano, e d’esercitare in quanto possibile un controllo sul proprio sviluppo economico, sociale e culturale. Inoltre, i detti popoli debbono partecipare all’elaborazione, all’attuazione ed alla valutazione dei piani e dei programmi di sviluppo economico nazionale e locale che li possano riguardare direttamente.”

[56] “Nell’applicazione delle disposizioni di questa parte della convenzione, i Governi devono rispettare l’importanza speciale, per la cultura e per i valori spirituali dei popoli interessati, della relazione che essi intrattengono con le terre od i territori (o, a seconda dei casi, con entrambi) che essi occupano od altrimenti utilizzano; ed in particolare gli aspetti collettivi di questa relazione.”

[57]GA Res. 61/295, United Nations Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, UN GA, 2007. L’assemblea generale ha adottato tale dichiarazione il 13 Settembre 2007.143 membri hanno votato a favore, 11 si sono astenuti e e 4 membri (Australia, Canada, Nuova Zelanda e gli Stati Uniti d’America) hanno votato contro. Sheikha Haya, presidente dell’assemblea generale, ha accolto la dichiarazione commentando: “the importance of this document for indigenous peoples and, more broadly, for the human rights agenda, cannot be underestimated. By adopting the Declaration, we are also taking another major step forward towards the promotion and protection of human rights and fundamental freedoms for all.” UN News Centre, News Release, “United Nations adopts Declaration on Rights of Indigenous Peoples”, 2007, disponibile al link: UN <http://www.un.org/apps/ news/story.asp? NewsID=23794&Cr=indigenous&Crl>.

[58]Art.31 Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni.

[59]Anzi in generale, si deve notare l’accortezza di utilizzare l’espressione al plurale “indigenous individuals”, anche lì dove la Dichiarazione si preoccupa di riconoscere diritti individuali in capo ai singoli.

[60]Op.cit., L.Zagato , “La protezione dell’identità culturale dei popoli indigeni oggetto di una norma di diritto internazionale generale?”, in THULE. Rivista italiana di studi americanistici, vol. 26/27 28/29,2011, pp. 165-196.

[61]Per approfondimenti circa gli interventi della giurisprudenza internazionale, in particolare quella del continente americano, sul tema dei diritti proprietari collettivi si veda: L. Zagato , “La protezione dell’identità culturale dei popoli indigeni oggetto di una norma di diritto internazionale generale?”, cit.

Per ulteriori approfondimenti circa l’appropriazione culturale si legga:

Fashion Law e il Patto di Utthan

Algorithmic fashion and copyright: the regulation of text and data mining to detect and anticipate future trends

 

Fonte immagine: www.pixabay.com

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