giovedì, Marzo 28, 2024
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L’arbitraggio: natura giuridica e profili differenziali con l’arbitrato irrituale e la perizia contrattuale

Nel quadro del rapporto tra autonomia privata e fonti determinative esterne dell’oggetto del contratto si colloca la figura dell’arbitraggio di cui all’art. 1349 c.c., che ricorre quando la determinazione della prestazione dedotta in contratto è deferita a un terzo. Il terzo opera una determinazione che, sul piano strutturale, si presenta come atto di autonomia avente per le parti valore dispositivo, sul piano funzionale, si collega dall’esterno con le altre determinazioni pattizie già fissate dalle parti o, altrimenti, dalla legge, che unitariamente concorrono a comporre l’assetto di interessi dettato dal regolamento negoziale.

Dunque, l’ordinamento consente alle parti nell’esercizio della propria libertà di autodeterminazione negoziale di rimettere ad un terzo, esterno al negozio, la facoltà di determinare un elemento del contratto, ma sottopone tale intervento al limite che esso si realizzi ed attui nei binari tracciati dall’art. 1349 c.c., il cui valore precettivo e la sua forza vincolante comportano che se il terzo si discosta dai criteri di valutazione stabiliti dalla norma il suo atto di determinazione può essere caducato; per le parti, la determinazione dell’arbitratore assume lo stesso valore e la stessa efficacia di quella resa dalle parti medesime.

A riguardo, ci si è chiesti se il contratto con clausola di arbitraggio sia già fin dall’origine perfetto o, comunque, in grado di spiegare una qualche efficacia – salvo poi verificare come su di esso incida la determinazione dell’arbitratore – oppure se il contratto si perfezioni soltanto a seguito della determinazione del terzo. Di qui, la necessità di approfondire la natura dell’atto e dell’attività di determinazione dell’elemento negoziale indeterminato, ma determinabile (art. 1346 c.c.).

La definizione della qualificazione giuridica dell’attività svolta dall’arbitratore ha suscitato un vivace dibattito in dottrina che, a sua volta, si è tradotto nell’elaborazione di una pluralità di tesi e, in particolare, di quella negoziale, quella del mero fatto e quella che rinviene nell’attività del terzo un atto compiuto in esecuzione di un mero incarico. Secondo i sostenitori della teoria negoziale, l’atto di determinazione dell’arbitratore sarebbe un negozio giuridico, qualificabile come negozio di accertamento, emesso in virtù del potere che le parti gli hanno conferito e tendente ad integrare un negozio già esistente, ma privo di un elemento rilevante.

L’arbitratore agirebbe, come sottolineato, peraltro, da una risalente pronuncia della Corte di Cassazione[1], alla stregua di un rappresentante e, quindi, la sua attività sarebbe sostitutiva di quella delle parti. Tale impostazione, tuttavia, incontra le obiezioni di coloro i quali, diversamente, sostengono che l’atto del terzo si esaurisca nel concretizzare un determinato elemento del rapporto contrattuale, senza che in tal caso si rilevi l’intento di disporre della propria o dell’altrui sfera giuridica. Pertanto, in chiave critica si tende a rifiutare l’assimilazione della figura del terzo con quella del rappresentante.

Si badi, però, che anche la configurazione della determinazione del terzo come mero fatto giuridico ha prestato il fianco ad una serie di critiche, in particolar modo si ritiene che essa entri in frizione con il rilievo secondo cui le parti non si limitano a recepire la determinazione del terzo, alla stregua di un qualsiasi dato obiettivo esterno, ma affidano la determinazione di un aspetto del loro rapporto ad un apposito atto del terzo che ha come specifico oggetto la determinazione di un elemento del contratto. Così argomentando, si evidenzia che l’atto dell’arbitratore, a differenza degli atti o fatti materiali a quali le parti potrebbero riferirsi per relationem, presenterebbe la caratteristica di essere un atto impugnabile se il terzo non osserva gli obblighi relativi al suo incarico.

Di talché , l’atto di arbitraggio si qualificherebbe come “autonomo atto giuridico che si concretizza come atto avente ad oggetto a determinazione di un altrui contratto[2]. Infine, secondo altra ricostruzione, l’atto di determinazione del terzo sarebbe un atto compiuto in esecuzione di un incarico ricevuto ovvero trattasi di un adempimento in senso tecnico-giuridico e, in quanto tale, atto dovuto, che intanto ha rilevanza in quanto corrisponde a quanto è stato richiesto e, per tale motivo, non è assimilabile al mandato, ma è da annoverare tra le prestazioni d’pera intellettuale, poiché viene compiuto nei confronti degli stessi soggetti che attribuiscono l’incarico e non per conto loro nei confronti di terzi. In ogni caso, quale sia la qualificazione dell’atto di arbitraggio, autorevole dottrina ha puntualizzato che ciò che rileva è che la determinazione del terzo entra a far parte del tessuto contrattuale e s’impone, per ciò solo, con forza obbligatoria ad entrambe le parti.

Per quanto concerne la configurazione strutturale del contratto con clausola di arbitraggio vi è armonia nel ritenere che si tratti di un contratto completo con oggetto indeterminato, ma determinabile, dunque, l’efficacia del contratto resta sospesa fino al momento della determinazione del terzo. Determinazione che si realizza, evidentemente, mediante una reciproca rinuncia delle parti ad esercitare una prerogativa contrattuale, la fissazione dell’oggetto del contratto, che l’ordinamento riconosce loro ai fini della validità dell’atto di autonomia privata. Rinuncia che, a sua volta, si manifesta e produce effetti su un duplice piano di valutazione: con la preventiva conclusione fra le parti della clausola di arbitraggio; con la successiva scelta e rimessione al terzo del potere di determinazione dell’oggetto.

Di qui, ictu oculi, emerge l’accessorietà della clausola di arbitraggio rispetto al contratto cui è riferita. Essa, difatti, viene configurata come un patto accessorio, diretto a determinare l’oggetto di un determinato contratto attraverso la rimessione al “libero arbitrio” di un terzo. In buona sostanza, la clausola di arbitraggio è essenziale, quale strumento di determinazione dell’oggetto, ma, al contempo, accessoria in quanto priva di autonomia al di fuori del contratto cui è riferita. Dal requisito dell’accessorietà funzionale della clausola di arbitraggio si trae, quale fisiologia conseguenza, che il rinvio al terzo arbitratore può ben compiersi, sul piano della forma, anche con atto separato, il c.d. contratto di arbitraggio, il quale dovrà rivestire la stessa forma del contratto cui si riferisce.

Dunque, definendosi l’arbitraggio come uno strumento di determinazione, vincolante per le parti che lo hanno attivato, di un elemento del contratto e collocandosi, così, nel novero degli atti di autonomia privata, pare ora il caso di coglierne i profili differenziali con l’arbitrato irrituale e la perizia contrattuale. In primis, occorre segnalare che l’arbitrato, sia esso rituale o irrituale, è un mezzo di rinuncia alla giurisdizione e rinviene il suo fondamento costituzionale nell’art. 24 Cost., laddove, invece, l’arbitraggio è un mezzo attraverso cui le parti del contratto rinunciano alla prerogativa di determinare un elemento dello stesso, quale l’oggetto, in virtù del principio di autodeterminazione contrattuale, enucleabile dall’art. 41 Cost., prima ancora che dall’art. 1322 c.c.

Non sfugge, peraltro, la diversa collocazione sistematica degli istituti: l’arbitrato si trova ospitato all’interno del codice di procedura civile, in chiusura dello stesso, come se il legislatore avesse voluto assumerlo agli onori della giurisdizione; diversamente, l’arbitraggio, com’è noto, è regolato dal codice civile all’art. 1349, al libro IV. Dunque, nell’arbitrato irrituale, la volontà delle parti, in presenza di un contrasto di pretese che derivano da un rapporto preesistente, conferisce al terzo il potere di risolvere una situazione controversa, attraverso un proprio atto di valutazione degli interessi in conflitto.

Di talchè, l’arbitrato irrituale, diversamente dall’arbitraggio, esprime, secondo parte della dottrina, una volontà negoziale diretta a fissare il rapporto esistente tra i contraenti e, quindi, l’atto vincola le parti in ragione del potere rappresentativo che esse hanno conferito all’arbitro per la composizione della lite. In più, come sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità[3], la differenza tra le due figure non è meramente ricostruttiva, poiché nell’arbitrato irrituale le parti, allo scopo di dirimere una controversia in atto, pongono in essere un autonomo contratto di compromesso o una clausola compromissoria specificatamente diretta a tal fine; nell’arbitraggio, invece, repetita iuvant, le parti stipulano un contratto in grado di comporre il loro conflitto di interessi, ma lo lasciano volutamente incompleto, perché preferiscono rimetter ersi, su qualche punto, all’attività e all’atto del terzo, che opera a sua volta come un mezzo di integrazione dell’autoregolamento negoziale.

Dall’arbitraggio e dall’arbitrato irrituale occorre, infine, tenere distinta la figura della perizia contrattuale, figura di creazione essenzialmente pretoria, che ricorre tutte le volte in cui le parti si rivolgono ad un terzo scelto in ragione della sua particolare competenza tecnica, affinché operi la determinazione richiesta con una dichiarazione qualificata come mera dichiarazione di scienza, con esclusione, quindi, per espressa volontà delle parti, di qualunque valutazione discrezionale. In particolare, secondo la giurisprudenza, ricorre la figura della perizia contrattuale quando l’incarico conferito al terzo abbia ad oggetto un apprezzamento tecnico, circa l’entità delle conseguenze di un evento cui sia collegata la prestazione dell’indennizzo escludendo, implicitamente o esplicitamente, dal contenuto del potere conferitogli ogni determinazione volitiva e discrezionale e s’impegnano a considerare tale apprezzamento come reciprocamente vincolante[4].

Da ciò, si badi, consegue anche l’applicazione di un regime giuridico diverso da quello che la legge contempla per la impugnabilità della determinazione dell’arbitratore (a seconda che si tratti di arbitrium boni viri o arbitrium merum) e, quindi, non soggetta ai criteri della manifesta iniquità o erroneità, ma quelli dell’errore, del dolo della colpa.

[1] V. Cass. 4364/1983.

[2] Cfr., BIANCA, Diritto civile, Vol. III, Il contratto, Giuffrè.

[3] Cfr., Cass. 8289/1995.

[4] Cass. 9032/1995.

Elena Ficociello

Elena Ficociello nasce a Benevento il 28 luglio del 1993. Dopo aver conseguito la maturità classica presso l'istituto "P. Giannone" si iscrive alla facoltà di giurisprudenza Federico II di Napoli. Si laurea il 13 luglio del 2017, discutendo una tesi in diritto processuale civile, relativa ad una recente modifica alla legge sulla responsabilità civile dello Stato-giudice, argomento delicato e problematico che le ha dato l'opportunità di concentrarsi sui limiti dello ius dicere. A tal proposito, ha partecipato all'incontro di studio organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura presso la Corte di Appello di Roma sul tema "La responsabilità civile dei magistrati". Nell'estate del 2016, a Stasburgo, ha preso parte al master full time "Corso Robert Shuman" sulla tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, accreditato dal Consiglio Nazionale Forense, convinta che un buon avvocato, oggi, non può ignorare gli spunti di riflessione che la giurisprudenza della Corte EDU ci offre. Adora viaggiare e già dai primi anni di liceo ha partecipato a corsi di perfezionamento della lingua inglese, prima a Londra e poi a New York, con la Greenwich viaggi. È molto felice di poter collaborare con Ius in itinere, è sicuramente una grande opportunità di crescita poter approfondire e scrivere di temi di diritto di recente interesse. Contatti: elena.ficociello@iusinitinere.it

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