giovedì, Aprile 18, 2024
Criminal & Compliance

«L’argomentazione del giudice tra diritto e processo» La gestione processuale della scienza controversa con specifico riguardo alle malattie correlate all’esposizione da amianto

A cura della Dott.ssa Vittoria Drosi

«Does exposure affect latency?» è il titolo di un paragrafo all’interno della sezione epidemiologica di un Report del 2015 a valle della terza edizione di un incontro di scienziati intitolato «Conferenza di Consenso» dedicato al mesotelioma maligno della pleurica. Nello specifico il paragrafo è dedicato allo studio dell’(eventuale) effetto acceleratore sul decorso patologico dovuto al protrarsi dell’esposizione della vittima ad amianto in una fase successiva a quella dell’insorgenza della malattia. Sembra un’affermazione forte e paradossale ma permette di calarsi immediatamente nelle problematiche sottese al tema: il titolo del paragrafo evoca un interrogativo di cui il giudice penale si deve del tutto disinteressare. Come spesso accade, nei processi per malattie professionali, oggetto del contendere è l’imputazione causale degli eventi lesivi ai garanti imputati, nonostante nessuno mai oserebbe dubitare del carattere tossico dell’amianto. Si cercherà di comprendere perché oggetto di prova nel processo penale (di merito prima, di legittimità poi) non debba essere il merito di una teoria, ma l’accreditamento della stessa all’interno della comunità scientifica, e opportunità di applicazione al singolo caso, con la conseguenza che, sulla motivazione fornita dai giudici di merito dovrà focalizzarsi il sindacato del giudice di legittimità.

Il ruolo della Suprema Corte di Cassazione non è quello di prendere posizione sulla maggiore validità di una teoria, ma di verificare se, in quel processo, risulta metodologicamente corretta la valutazione operata dai giudici di merito, ovvero se può ritenersi razionale la verifica del nesso causale. Comune denominatore è sempre il richiamo alla necessità di un’attenta selezione del sapere scientifico sul quale fondare il giudizio causale. Questa fase deve poi essere seguita da una rigorosa valutazione sulla causalità individuale, da condursi sulla scorta di criteri scientificamente fondati. È certamente problematico che una determinata teorica scientifica possa essere considerata attendibile in un processo, ed essere invece scartata nel successivo senza che siano intervenute medio tempore significative evoluzioni del sapere scientifico.

Ai fini di questa indagine è necessario lo studio della sentenza che ha fatto scuola nella materia della responsabilità penale rispetto ai reati di evento connessi all’esposizione a sostanze tossiche, cioè la sentenza Cozzini[1].

Il caso imponeva l’interrogativo circa l’eventuale esistenza di una legge statistica di copertura riguardo alla sussistenza dell’effetto acceleratore sul mesotelioma pleurico provocato dall’esposizione ad amianto in una fase successiva a quella dell’insorgenza della malattia. La sentenza giungeva opportunamente all’annullamento di alcune condanne nei confronti di ex dirigenti della società per omicidio colposo di un dipendente esposto ad amianto che aveva lavorato senza le necessarie protezioni. Il giudice di appello nel caso Cozzini aveva ritenuto, invece, che ciascuna delle omissioni, realizzate dai singoli amministratori che si erano succeduti nel tempo, rappresentassero concausa dell’evento, avendo accolto la teoria della dose-correlata (supportata da indagini epidemiologiche) che consentiva di affermare che al mancato abbattimento delle polveri corrispondesse l’accelerazione del decorso, e quindi, l’anticipazione dell’evento-morte.

Si era di fronte ad una indagine ben più complessa rispetto all’ordinaria applicazione delle leggi scientifiche nel processo penale; nel caso, l’evento noto era la patologia; il sub-evento, su cui si doveva indagare, era rappresentato dall’effetto acceleratore. Non si trattava di accertare un evento, ma, a monte, ci si interrogava sull’esistenza stessa di un fenomeno. In altri termini, non ci si chiedeva se nel caso in esame avesse trovato applicazione una legge scientifica, ma ci si chiedeva se la stessa esistesse.

Si cercherà di individuare e ripercorrere le fasi dell’iter logico suggerito dalla sentenza Cozzini che dovrebbe seguire il giudice nei processi per morti da amianto piuttosto che interessarsi dell’effetto acceleratore in senso assoluto, e non rapportato al singolo caso concreto.

La prima fase è rappresentata dall’individuazione della legge scientifica di copertura. Ci si deve chiedere se l’evento che si è realizzato possa essere riconducibile all’attività svolta dalla vittima presso l’impresa. Punto di partenza di ogni processo penale per malattie professionali è stabilire se la patologia, ed eventuale successivo decesso, possano essere ricondotti alle lavorazioni svolte presso quell’impresa. Quindi bisogna concretamente verificare se la neoplasia possa essere stata causata dalle inalazioni delle polveri di absesto respirate durante lo svolgimento dell’attività lavorativa.

La seconda fase dell’iter è formalmente solo eventuale, ma di fatto quasi sempre necessaria in quanto inerente all’accertamento della causalità individualizzante e riguarda quei giudizi che richiedono l’utilizzo di leggi statistiche. Non ci sarebbe alcuna difficoltà nel caso in cui fossero disponibili leggi scientifiche universali, in virtù delle quali ad un determinata condizione segue immancabilmente un determinato effetto. L’iter è invece più complesso se si tratta, come in questo caso, di leggi scientifiche statistiche, in virtù delle quali, ad una determinata condizione, solo in una certa percentuale di casi, segue un determinato effetto.

La sentenza Franzese[2] ha permesso di superare lo stallo esegetico determinato dall’interrogativo inerente alla percentuale di probabilità statistica sulla legge scientifica di copertura, introducendo l’innovativo concetto di probabilità logica. È stato così autorizzato l’uso di generalizzazioni probabilistiche ai fini dell’accertamento del nesso di causalità materiale nell’ambito del processo penale, essendo irrealizzabile e utopico un modello di indagine basato esclusivamente su leggi universali. Quindi il giudice, nell’accertamento del rapporto di causalità materiale, può avvalersi anche di leggi scientifiche di natura statistica, purché lo faccia corroborando l’ipotesi probabilistica alla luce di tutte le circostanze del caso per giungere ad un giudizio di probabilità logica. Così le incertezze causate dall’uso di leggi di carattere probabilistico possono essere superate grazie ad un giudizio focalizzato sulle particolarità del caso concreto, avendo preventivamente escluso decorsi causali alternativi. La conseguenza è che il coefficiente di probabilità statistica perde di rilevanza, e assume rilevanza la probabilità logica. A titolo esemplificativo, si pensi alle applicazioni del “modello Franzese” ai casi di contagio da HIV. Si deve accertare se sussiste il nesso causale tra la condotta di chi, sieropositivo, compie un rapporto sessuale non protetto con persona non a conoscenza della sua condizione. Se si considerasse solo la probabilità statistica saremmo certamente indotti ad escludere il nesso, trattandosi di una legge scientifica statistica con una percentuale bassissima, cioè solo 0,002%. Anche in casi del genere però la probabilità logica  potrebbe risultare comunque molto elevata, laddove sia possibile escludere con certezza il verificarsi di decorsi causali alternativi (es. rapporti sessuali con altre persone, trasfusioni di sangue, scambio di siringhe infette, etc.).

Nel caso di patologie absesto-correlate ci si deve chiedere se la sostanza, agendo su quella vittima, sia stata causa del suo tumore. Non basta prendere atto dell’assodata capacità dell’amianto – inalato durante lo svolgimento dell’attività – di causare processi morbosi di tipo oncologico; ma bisogna verificare se sia stato la causa del tumore di quel soggetto. Per giungere a questa conclusione sarà necessario procedere escludendo eventuali decorsi causali alternativi. I carcinomi polmonari hanno natura multifattoriale per cui l’insorgenza della patologia nella singola vittima potrebbe essere stata causata da altri fattori di rischio, tra cui il fumo di sigaretta; in questi casi sarà sempre necessario verificare che il tumore non sia stato cagionato da un diverso fattore. Complessivamente più semplice il caso del mesotelioma pleurico, perché si ritiene che questo abbia sostanzialmente natura monofattoriale.

La terza fase dell’iter è necessaria per addivenire ad un giudizio che si sottragga ad ogni censura per violazione del principio di responsabilità per fatto proprio. Ci si deve chiedere che ruolo abbia avuto la porzione di amianto respirato nel periodo in cui l’imputato era garante. Bisogna verificare se quella sostanza, agendo su un soggetto determinato e in un contesto spazio temporale determinato, cioè il periodo in cui l’imputato rivestiva la posizione di garanzia, è stata causa del tumore di quel soggetto. La questione solleva il problema della successione degli imputati nelle posizioni di garanzia: spesso, infatti, accade che le vittime rimangono esposte all’amianto nel corso di un lungo periodo durante il quale gli imputati si susseguono nel ruolo di garante. A questo punto non è più sufficiente accertare che l’amianto respirato presso quell’impresa ha causato tumori, ma ai fini dell’affermazione della responsabilità penale del singolo imputato bisogna verificare se la porzione di esposizione all’amianto, avvenuta durante il periodo in cui lo stesso rivestiva la posizione di garanzia, abbia effettivamente provocato l’insorgere della patologia nel singolo lavoratore, o comunque influito sul successivo sviluppo della malattia già contratta. Bisogna verificare se ciascuna dose di amianto inalata in corrispondenza dei diversi periodi in cui ciascun imputato ha rivestito la posizione di garanzia abbia interagito con le dosi precedenti accorciando la latenza della patologia o accelerandone il decorso, quindi anticipando la morte.

Obiettivo dell’iter sommariamente descritto è passare dalla constatazione di carattere generale secondo cui “l’amianto è in grado di provocare tumori”; a quella di carattere particolare, in virtù della quale si possa affermare che “l’amianto, respirato presso una certa impresa, nel periodo in cui l’imputato ha rivestito la posizione di garanzia, è stato certamente causa di un determinato tumore contratto dal lavoratore”. Bisogna prima individuare un’affidabile legge scientifica che ricolleghi al protrarsi dell’esposizione alla sostanza l’effetto di accorciare la latenza o accelerare il decorso; nel caso in cui la legge abbia natura statistica bisogna verificare se l’effetto probabile si sia effettivamente verificato nel caso di specie, corroborando l’ipotesi alla luce delle circostanze che si sono concretamente verificate. Per fare ciò sarà necessario effettuare una ricostruzione della vicenda patologica di ciascuna vittima. Questa indagine, di per sé complessa, è ancora più ostica a causa della mancanza di leggi causali scientifiche in grado di individuare il momento esatto in cui un tumore insorge, e non esistono neppure leggi capaci di fissare una soglia di esposizione all’amianto sotto la quale non vi è alcun rischio; di conseguenza è impossibile assegnare – una volta per tutte – un diverso rilievo causale ai diversi periodi di esposizione al fattore di rischio. Ogni processo per morti da amianto fa storia a sé.

Un’intuizione geniale della sentenza Cozzini è stata quella che possiamo definire come l’opzione «condotta commissiva»: nei processi per malattie professionali la condotta del datore ha sempre natura commissiva, in quanto consiste nell’esposizione dei dipendenti ad un determinato fattore di rischio scaturente dall’organizzazione dell’impresa, e non nell’omessa predisposizione delle misure cautelari doverose, che rappresenta invece la componente omissiva della colpa rilevante nella fase di accertamento dell’elemento soggettivo. L’opzione condotta commissiva permette di condurre l’accertamento relativo al nesso di causalità materiale secondo il paradigma esplicativo proprio della causalità commissiva, cioè verificando se l’evento, hic et nunc, si sarebbe ugualmente verificato in assenza dell’esposizione al rischio, intesa come assenza della porzione di esposizione al fattore di rischio avvenuta durante il periodo in cui l’imputato era garante. Questa impostazione permette di superare i problemi legati al carattere condizionalistico della causalità omissiva, inerente all’ipotetico ruolo positivo, inteso come ruolo salvifico, della condotta doverosa omessa.

Ciò non significa disinteressarsi del tutto della componente omissiva della condotta: sarà infatti necessario un successivo accertamento relativo alla causalità della colpa, inteso come evitabilità dell’evento. Questa verifica va condotta secondo il paradigma predittivo tipico della causalità omissiva, cioè verificando se l’evento, hic et nunc considerato, si sarebbe ugualmente verificato in presenza delle misure cautelari doverose che avrebbe dovuto adottare il garante. Il giudizio di evitabilità può essere fondato sul dato probabilistico, purché consenta di affermare che la condotta doverosa omessa avrebbe avuto significative e non trascurabili probabilità di impedire l’evento. Così il giudizio prognostico sull’evitabilità non ha più funzione di imputazione oggettiva dell’evento, ma solo di valutazione dell’adeguatezza della regola cautelare al caso concreto, cd. nesso colpa-evento, e questa valutazione ben può essere supportata da leggi scientifiche di carattere probabilistico.

Tra i meriti più rilevanti della sentenza Cozzini vi è quello di avere predisposto per i giudici di merito un vademecum per identificare un’affidabile legge scientifica. È tale quella che soddisfa criteri sia di carattere oggettivo sotto il profilo metodologico e del dibattito scientifico che l’accompagna; sia di carattere soggettivo attinenti cioè all’attendibilità degli esperti che veicolano la legge scientifica nel processo, i quali devono essere dotati di autorevolezza e imparzialità[3]. L’individuazione della legge scientifica è a volte un’operazione estremamente semplice, come nel caso di un enunciato scientifico pacifico nella letteratura specialistica, oppure nel caso in cui è evidente che solo un enunciato è ragionevole, mentre gli altri sono mere congetture. Più complesso è invece il caso in cui gli esperti intervenuti nel processo prospettino ricostruzioni tra loro contrastanti, ma tutte plausibili, come nell’ipotesi in cui il giudice debba scegliere se affidarsi alla teoria della dose-dipendente o della dose-grilletto al fine di stabilire la penale responsabilità di un datore che ha rivestito il ruolo di garante in una fase successiva al periodo della prima inalazione della sostanza. Secondo la prima teoria lo sviluppo e il decorso della patologia sono condizionati dalla durata dell’esposizione all’amianto. Seguendo la seconda impostazione invece le dosi successive non avrebbero alcuna influenza sul decorso della patologia, neppure sui tempi di latenza. In casi come quello da ultimo menzionato sono necessarie tre autonome fasi di verifica. La prima è inerente all’esame degli studi che sorreggono ciascuna teoria; la seconda inerente all’integrità delle intenzioni di ciascun esperto incaricato di veicolare il sapere scientifico nel processo penale; la terza impone la ricostruzione del dibattito scientifico internazionale per selezionare, tra le ipotesi prospettate, quella “sulla quale si registra un preponderante e condiviso consenso”.

In conclusione, come affermato nella parte introduttiva, oggetto della valutazione dei giudici, di merito prima, di legittimità poi, non è l’esistenza – o meno – di un effetto acceleratore (il giudice penale non ha alcuna funzione di accreditamento delle teorie scientifiche) ma l’esistenza di un adeguato consenso sul punto che raggiunga «quella elevata probabilità logica  e credibilità razionale richiesta per poter addivenire ad una pronuncia di condanna  degli imputati che hanno assunto posizioni di garanzia nel periodo successivo  al completamento del periodo di induzione per ciascuno dei lavoratori»[4], e che le acquisizioni scientifiche cui è possibile attingere nel giudizio penale sono quelle «più generalmente accolte, più condivise»[5].

Pertanto, è stata esclusa la possibilità di rimettere alle Sezioni Unite il contrasto giurisprudenziale sull’effetto acceleratore, a causa della natura esclusivamente scientifica – e non giuridica – della problematica. In tema di prova non può certo invocarsi giurisprudenza di legittimità precedente per attestare un ampio consenso nella comunità scientifica in ordine alla maggiore validità di una determinata legge scientifica di copertura: non si può ricercare nelle pronunce della corte di legittimità la validazione di una certa teoria perché il precedente giurisprudenziale non costituisce nomos del sapere scientifico[6]. Il giudice di legittimità non è giudice del sapere scientifico e non detiene proprie conoscenze privilegiate: deve limitarsi a valutare la correttezza dell’approccio metodologico del giudice di merito rispetto al sapere scientifico. Ciò impone una preliminare e indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni che utilizza nella spiegazione del fatto. Il controllo della Cassazione attiene solo alla razionalità delle valutazioni che ha espresso il giudice di merito, al quale infatti è prescritto di esplicitare nella motivazione, al fine di renderla controllabile in sede di legittimità, da un lato, le ragioni che rendono maggiormente attendibile una determinata legge scientifica; dall’altro, il percorso logico, alla luce degli elementi del fatto concreto, tramite i quali è stato operato il passaggio dalla probabilità statistica, espressa dalla legge di copertura, alla probabilità logica, fondamento della condanna. Mentre a volte la Cassazione prende posizione sulla maggiore validità di una teoria, non limitandosi invece a valutare, nello specifico processo, la correttezza metodologica del giudizio di merito. Il processo penale non è il luogo in cui si forma il sapere scientifico, ma questo giunge al rito penale attraverso gli esperti sentiti in dibattimento.

Instaurato il contraddittorio, con l’ausilio degli esperti, il giudice individua la legge scientifica più opportuna: così viene risolto il paradosso della perizia che si è creato a causa di un fraintendimento. Erroneamente si ritiene che, se si immagina che il giudice sia in grado di individuare e applicare senza ausilio un sapere specialistico, non si comprende il motivo per il quale debba rivolgersi a degli esperti. Se invece si ritiene che non abbia queste capacità, e quindi deve necessariamente affidarsi agli esperti, non si comprende come possa poi sindacarne le conclusioni. Nulla di più scorretto: il giudice scrutina e reperisce le informazioni rese da un esperto in giudizio sotto la sorveglianza di altri esperti, sia nell’individuazione della legge scientifica più affidabile, sia nel momento dell’applicazione della stessa, controllando se le evidenze fattuali poste in luce dall’esperto soddisfino le condizioni operative. Il giudice deve prima verificare che la legge sia attendibile, e che si siano verificate tutte le circostanze descritte dalla stessa. Successivamente deve verificare, con l’ausilio dell’esperto che propone l’applicazione di quella legge, e sotto la sorveglianza degli altri professionisti, che la stessa non vada esclusa a causa del ricorrere di altre circostanze che impongono di ritenere che abbia operato un’altra causa. In conclusione, si deve accogliere la soluzione che resiste ai tentativi di falsificazione degli altri specialisti. Così il paradosso della perizia diviene solo apparente, in quanto il giudice, pur avendo bisogno del supporto del perito, è in condizione di valutarne l’operato, perché tale valutazione si forma con il contributo degli altri esperti in giudizio, che guidano il giudice, fornendo materiale a supporto della propria tesi, e contro quella altrui. Il giudice non esprime un giudizio scientifico, ma valuta se l’esperto in giudizio abbia basato la propria conclusione su un criterio affidabile, e se lo abbia applicato in maniera opportuna rispetto alle risultanze processuali.

[1] Sentenza Cassazione Penale, Sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, Cozzini e altri.

[2]  Cassazione Penale, Sezioni Unite, n. 30328, 10 luglio 2002 (dep. 11 settembre 2002).

[3]gli studi che la sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti. L’ampiezza, la rigorosità, l’oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi.

La discussione critica che ha accompagnato l’elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti

che mettono in discussione l’ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono formate. L’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l’identità, l’autorità indiscussa, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove”.

[4] Cass, Pen. Sezioni Unite, 30328/2002, cit.

[5] Cass. Pen., Sez. IV, n. 46392 del 15/05/2018, Medicina Democratica c. Beduschi e altri.

[6] Sez. 4, n. 16715 del 14 novembre 2017, dep. 2018, Cirocco, Rv. 273094, in Dir. Pen. Cont., 9 luglio 2018.

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