giovedì, Marzo 28, 2024
Criminal & Compliance

L’Art. 577 c.p. e l’uccisione del figlio adottivo

L'Art. 577 c.p. e l'uccisione del figlio adottivo
L’Art. 577 e l’uccisione del figlio adottivo

Sembra già bizzarro fare distinzione tra figlio adottivo e non, eppure per il legislatore evidentemente non è poi così strano. L’Art. 577 c.p. rubricato “Altre circostanze aggravanti. Ergastolo” è sito nel Titolo XII “Dei Delitti contro la persona”; in questo titolo ci pare già chiaro che sono collocate le norme che tendono a tutelare la persona in tutte le sue principali manifestazioni materiali e morali e una figura come quella dell’omicidio, per la quale viene previsto l’ergastolo, è certamente espressione di un reato concretamente offensivo.

La parola “Ergastolo” nel frontespizio è stata inserita per sostituire quella di “pena di morte” con legge 1.10.2012, n. 172 (Ratifica di Lanzarote) infatti nell’originario assetto normativo, laddove vi fosse la sussistenza di una circostanza aggravante di cui all’art. 576 c.p., la sanzione prevista era quella della pena di morte, mentre la pena applicabile era, rispettivamente, quella dell’ergastolo e quella della reclusione, nel caso in cui ricorresse una delle circostanze disciplinate dall’art. 577, comma 1, c.p. o 577, comma 2, c.p. Abolita la pena di morte nell’ordinamento italiano, tutte le circostanze di cui agli articoli 576 e 577, comma 1 c.p., purché portatrici di un diverso disvalore, comportano, attualmente, la pena dell’ergastolo.

Se dessimo una lettura ai commi del 577 c.p., ci accorgeremmo senza molte difficoltà che questo è volto a disciplinare l’applicazione di ulteriori aggravanti, oltre a quelle già contemplate nell’art. 576 c.p., prendendo in considerazione in primis il legame che intercorre tra il colpevole e la vittima (ascendente, discendente), poi le modalità di esecuzione (sostanze venefiche, altro mezzo insidioso) ed fine l’elemento psicologico dell’azione posta in essere (premeditazione). Proseguendo la lettura, in realtà non riscontriamo la menzione della pena dell’ergastolo come possibile applicazione, anzi: “La pena è della reclusione da ventiquattro a trent’anni, se il fatto è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta“. Quindi tutto sembra tranne che sia palesata la possibile applicazione dell’ergastolo. Sembra assurdo che il nostro legislatore possa fare una distinzione così “meschina” tra figlio legittimo e figlio adottivo a maggior ragione del fatto che dal punto di vista civilistico per l’uno e l’altro non vi sono differenziazioni, anzi: il figlio adottivo, una volta adottato si considera nato dal matrimonio.

Quello che a primo acchito si può sottolineare è che la mancanza di consanguineità sbarra la strada all’applicazione dell’aggravante specifica riducendo in maniera automatica la pena, la quale oscillerà tra i ventiquattro e i trent’anni.

La ratio delle aggravanti richiamate, risiede naturalmente nel particolare disvalore attribuito all’omicidio di una persona legata all’agente da uno stretto vincolo di parentela, alla luce della particolare efferatezza dei fatti di sangue quando commessi tra familiari, anche in virtù della particolare tutela che dovrebbe discendere, prima ancora che dal diritto, dal vincolo etico derivante dalla consanguineità, oltre che nella minorata difesa che i soggetti passivi del reato apprestano proprio in ragione del rapporto parentale.

Dalla relazione sui Libri II e III del Progetto definitivo “di un nuovo codice penale con la relazione del Guardasigilli, On. Alfredo Rocco”, si riporta testualmente quanto segue: “Il parricidio, quando non sia commesso nelle condizioni o con i mezzi che or ora ho ricordato, è punito con l’ergastolo, a mente dell’art. 576, numero 1°; mentre il parricidio improprio, il cui meno stretto vincolo del sangue attenua la gravità della violazione del rapporto di parentela, è preveduto nell’ultima parte dello stesso articolo 576, tra le circostanze che importano soltanto un aumento della pena detentiva“. Viene definito parricidio improprio in quanto le relazioni tra vittima e agente sono meno intense di quelle di ascendenza o discendenza. Orbene, il vigente Art. 577, 2° comma, c. p., è figlio della medesima mens.

Uno dei casi, sicuramente il più recente, è quello che riguarda l’omicidio di un diciannovenne, figlio adottivo di un moldavo. E’, infatti, notizia assai fresca che la Corte di Cassazione ha annullato, con rinvio, la sentenza con la quale la Corte d’Appello di Trieste confermava la condanna all’ergastolo, emessa dal Tribunale di Udine, di Andrei Talpis 57 anni, moldavo, il quale, nella notte del 26 novembre 2013 uccideva il proprio figlio adottivo, che si era proteso verso di lui nel tentativo di difendere la sua mamma, adottiva, moldava anch’essa, e anch’essa ferita gravemente nell’episodio, da tempo vittima delle angherie e delle violenze fisiche inferte dal proprio marito.

Per il caso di specie inoltre la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia nel marzo scorso per non aver agito con sufficiente rapidità per proteggere la donna  e il figlio adottivo, dagli atti di violenza domestica perpetrati dal marito, che hanno poi portato all’assassinio del ragazzo e al tentato omicidio della moglie.

I giudici di Strasburgo, hanno stabilito che “non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta dalla donna, le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che in fine hanno condotto al tentato omicidio della ricorrente e alla morte di suo figlio“. La Corte europea dei diritti umani ha agito per la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea dei diritti umani. I giudici hanno riconosciuto alla ricorrente 30 mila euro per danni morali e 10 mila per le spese legali. I giudici di Strasburgo hanno rilevato quindi che “la signora Talpis è stata vittima di discriminazione come donna a causa della mancata azione delle autorità, che hanno sottovalutato (e quindi essenzialmente approvato) la violenza in questione“.

Si è consci del fatto che in caso di omicidio è l’aggravante specifica, che in virtù dell’esistenza di una discendenza tra la vittima e il suo carnefice, prevede la pena del carcere a vita cosa che invece nel caso specifico analizzato non è stato possibile prevedere. Tra le voci più critiche sulla questione, si fa strada quella del deputato Fabio Rampelli il quale muove un forte monito sia nei confronti di una legiferazione aberrante del Parlamento, il quale non è riuscito, dal punto di vista penale, ad equiparare figli legittimi e figli adottivi offendendo la categoria ancora una volta nel 2017, ma anche contro la magistratura che è sempre adita in tema di stesura leggi.

Oltre all’omicidio di un figlio adottivo, la stessa problematica tende a palesarsi a riguardo dell’uccisione da parte del convivente more uxorio. A riconferma di ciò il 10 gennaio 2017 la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, ha depositato una sentenza  in cui si dice, di fatto, che uccidere o tentare di uccidere il o la propria convivente è meno grave che uccidere o tentare di uccidere la propria moglie o il proprio marito. La Cassazione ha ritenuto che l’aggravante prevista dall’articolo 577 del codice penale per le ipotesi di omicidio, valga solo se la vittima è la/il coniuge, mentre non si applica alla/al convivente.

I giudici, della Prima sezione penale, non hanno dunque riconosciuto l’assimilazione dei rapporti “more uxorio” ai rapporti matrimoniali, come invece stabilito dalla legge Cirinnà. Questo da cosa deriva? Dai limiti posti da questa stessa legge. Questa non ha tenuto conto del codice penale e propriamente dell’omicidio disciplinato all’art. 57 c.p. per il quale il coniuge e il convivente non sembrano avere lo stesso “peso” dal punto di vista penalisitico.

L’art. 577 c.p. fa riferimento alla parola “coniuge”  e la Corte di Cassazione, però, ha stabilito che in tale concetto non possa rientrare quello di «convivente»; e questo per un motivo ben preciso: il diritto penale è caratterizzato e soddisfa quelli che sono due principi essenziali riconosciuti agli artt. 1 del codice penale e 25 della Cost. : tassatività e determinatezza. Il diritto penale, semplificando, non può cioè avere un’interpretazione analogica o estensiva come accade nel diritto civile, ma deve restare saldato al dato letterale del testo. La legge Cirinnà e il successivo decreto delegato non hanno però disciplinato l’aspetto penale – e processuale penale – delle unioni civili e delle convivenze di fatto.  La Legge 20/05/2016 n. 76 che reca in rubrica “Regolamentazione delle unioni civili fra persone dello steso sesso e di disciplina delle convivenze” non ha operato alcun intervento per avvicinare la situazione della persona sposata a quella del convivente more uxorio quando ci si trovi di fronte al giudice penale, mentre è intervenuta per evitare che, nella materia penale, il coniuge abbia un trattamento differente rispetto al partner di un’unione civile fra persone dello stesso sesso.

La Corte costituzionale, ha già escluso in passato che possano applicarsi al convivente more uxorio le norme penali di favore previste dal codice penale con riguardo al coniuge. Ci si riferisce all Art. 649 c.p. e alla sentenza della Corte costituzionale numero 352 del 2000. Se si esclude che il convivente more uxorio possa avvantaggiarsi della causa di non punibilità prevista dall’Art. 649 c.p. a favore del coniuge non può, a maggior ragione, sostenersi che al convivente si applichino le circostanze aggravanti previste a carico del coniuge. La Corte di cassazione, in passato, aveva già considerato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’Art. 577 comma 2 c.p.sotto il profilo della disparità di trattamento fra coniuge e convivente more uxorio escludendo che la questione dovesse essere posta all’attenzione della Corte costituzionale.

Oggi quindi alla luce di questo recentissimo annullamento di sentenza si auspica in un intervento da parte del legislatore al fine di porre fine alla disparità posta e codificata nel codice penale, ormai da tempo socialmente e culturalmente superata.

Valeria D'Alessio

Valeria D'Alessio è nata a Sorrento nel 1993. Sin da bambina, ha sognato di intraprendere la carriera forense e ha speso e spende tutt'oggi il suo tempo per coronare il suo sogno. Nel 2012 ha conseguito il diploma al liceo classico statale Publio Virgilio Marone di Meta di Sorrento. Quando non è intenta allo studio dedica il suo tempo ad attività sportive, al lavoro in un'agenzia di incoming tour francese e in viaggi alla scoperta del nostro pianeta. È molto appassionata alla diversità dei popoli, alle differenti culture e stili di vita che li caratterizzano e alla straordinaria bellezza dell'arte. Con il tempo ha imparato discretamente l'inglese e si dedica tutt'oggi allo studio del francese e dello spagnolo. Nel 2017 si è laureata alla facoltà di Giurisprudenza della Federico II di Napoli, e, per l'interesse dimostrato verso la materia del diritto penale, è stata tesista del professor Vincenzo Maiello. Si è occupeta nel corso dell'anno di elaborare una tesi in merito alle funzioni della pena in generale ed in particolar modo dell'escuzione penale differenziata con occhio critico rispetto alla materia dell'ergastolo ostativo. Nel giugno del 2019 si è specializzata presso la SSPL Guglielmo Marconi di Roma, dopo aver svolto la pratica forense - come praticante avvocato abilitato - presso due noti studi legali della penisola Sorrentina al fine di approfondire le sue conoscenze relative al diritto civile ed al diritto amministrativo, si è abilitata all'esercizio della professione Forense nell'Ottobre del 2020. Crede fortemente nel funzionamento della giustizia e nell'evoluzione positiva del diritto in ogni sua forma.

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