venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

L’audace sentenza del Giudice delle Leggi sull’ergastolo e la rieducazione del reo

“Per questi motivi la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato; dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 289-bis del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato.”
È questo il testo della pronuncia depositata l’11 luglio del 2018 nella cancelleria di Palazzo della Consulta a Roma, definita “coraggiosa”[1] in quanto diretta, chiara e innovativa  in tema della più severa tra le pene, l’ ergastolo. La Corte era stata chiamata a pronunciarsi sull’asserita illegittimità Costituzionale dell’art. 58 quater co. 4 ord. penit., in riferimento a due diverse situazioni criminose: quella dei condannati all’ergastolo per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione e quella dei condannati all’ergastolo per il delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o eversione (rispettivamente artt. 289 bis c.p. e 630 c.p.), allorquando il sequestro abbia cagionato il decesso della vittima. Due ipotesi, queste, in cui il trattamento sanzionatorio risultava ex lege e sulla scorta delle molteplici pronunce giurisprudenziali piuttosto restrittivo in termini di libertà personale e di diritti della persona.

Il severo regime contestato si può così enucleare: in entrambe le ipotesi (artt. 289 bis c.p. e 630 c.p.), la pena dell’ergastolo acquisisce prerogative singolari, infatti, i soggetti condannati sono esclusi dai c.d. benefici di cui al comma 1 art. 4 bis ord. penit. “se non abbiano effettivamente espiato […] nel caso dell’ergastolo, almeno ventisei anni di pena”; pertanto, i condannati non saranno ammessi ad alcuni dei regimi concessi dall’ordinamento penitenziario quali il lavoro all’esterno, i permessi-premio e il regime di semilibertà. La disciplina, poi, collegata alla specifica posizione dei condannati per i citati delitti di cui all’art. 289 bis c.3 c.p. e art. 630 c.3 c.p., stabilisce che chi non collabora con la giustizia sia sottoposto all’ergastolo ostativo (art. 4 bis c.1 ord. penit.), non essendo quindi ammesso ai benefici dell’accesso al lavoro esterno, ai permessi-premio ed alle misure alternative alla pena (tranne la liberazione anticipata) e alla liberazione condizionale. Il termine di 26 anni, da espiare per ottenere i benedici di cui al 58 quater c.4 ord. pen. possono essere elusi, perlopiù, soltanto quando il reo abbia attuato una utile collaborazione con la giustizia, mentre, in caso contrario, la rigida disciplina non potrà in alcun modo essere alleggerita.

Reo della questione di legittimità Costituzionale sollevata dal Tribunale dinanzi al “Giudice delle leggi” è stato proprio il legislatore, colpevole di aver formulato una tal rigida disciplina. I giudici di merito, infatti, hanno sollevato la questione della legittimità dell’art. 58-quater, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) rispetto agli articoli 3 e 27 c.3 Cost., partendo da una vicenda emblematica in cui si è affermato che gli stessi siano stati violati.

Il caso riguardava un condannato all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 co. 3 c.p. che aveva avanzato richiesta di ammissione al regime di semilibertà dopo aver scontato in carcere un lasso di tempo maggiore rispetto al limite ventennale al quale il regime è sottoposto in caso di condanna all’ergastolo. Il condannato dichiarava di aver compiuto una seria “rivalutazione critica in relazione al grave reato commesso, dando prova di eccezionale impegno negli studi universitari, e di condotta sempre regolare all’interno dell’istituto penitenziario, dove da alcuni anni lavorava presso un call center gestito da una cooperativa” ed evidenziava come l’istanza di semilibertà fosse “corredata da un’offerta di contratto di lavoro all’esterno proveniente da altra cooperativa dal lavoro svolto presso un call center all’interno dell’istituto penitenziario e da un’offerta di lavoro all’esterno proveniente da una cooperativa.”[2]

Sussistevano quindi tutti gli attributi che abitualmente consentono di accedere alla misura alternativa, ma quest’ultima veniva preclusa dalla disposizione dell’art. 58 quater co. 4 ord. penit. riguardante il lasso di tempo dei ventisei anni necessari per profittare dei benefici previsti de iure. Per questo motivo, il Tribunale dichiarava che il condannato fosse idoneo ad accedere alla misura sanzionatoria alternativa prevista dall’ordinamento, che non sussistessero, alla luce del buon comportamento perpetratosi negli anni di reclusione, condizioni ostative rispetto alla concessione dei benefici previsti e quindi sollevava la questione di legittimità del quarto comma dell’art. 58-quater (legge 26 luglio 1975, n. 354) .

Le censure mosse dai giudici di sorveglianza veneziani partono dal contrasto della legge rispetto all’art. 3 della Costituzione, cioè rispetto al principio di uguaglianza il quale, come noto, “si impone innanzitutto ai giudici, che devono giudicare allo stesso modo coloro che hanno commesso gli stessi reati, e gli amministratori, cui incombe per disposizione costituzionale l’obbligo di essere imparziali nei confronti di tutti.”[3] Sotto questo profilo, “il giudice a quo denunciava una irragionevole disparità di trattamento dei condannati all’ergastolo per sequestro di persona a scopo di estorsione rispetto ai condannati per i restanti delitti di prima fascia di cui all’art. 4 bis ord. penit.”[4].

La seconda censura contestava la lesione dell’art. 27 c.3 Cost, e cioè del principio della rieducazione del condannato: la rieducazione, infatti, risulta essere “la finalità ideologicamente più avanzata cui tende la pena e consiste nel creare, da parte dello Stato, durante l’esecuzione della stessa, le condizioni necessarie perché il condannato possa successivamente reinserirsi nella società in modo dignitoso […]”.[5] Pertanto, secondo il Tribunale, la disciplina in esame “da un lato, rende inoperanti incentivi essenziali ad un percorso coerente con l’imperativo costituzionale; d’altro lato, rende la pena dell’ergastolo comunque sorda, per un rilevantissimo arco temporale, a qualsiasi progresso compiuto dal condannato nella direzione di un progressivo reinserimento sociale.”

Dunque, vista la peculiarità del caso e in virtù dell’importanza dei principi garantisti costituzionalmente protetti anche in caso di applicazione delle sanzioni più afflittive come l’ergastolo,  se la Corte Costituzionale in passato aveva fortemente difeso la pena dell’ergastolo nella sua configurazione comune ed ostativa così come previste e consolidate all’interno dell’ordinamento, stavolta, sulla scorta di alcuni precedenti che avevano mostrato una flebile “apertura” verso i sistemi di pena alternativi (Corte Cost., sent. 21 settembre 1983, n. 274; Corte Cost., sent. 27 aprile 1994, n. 168; Corte Cost., sent. 2 giugno 1997, n. 161) ha deciso per l’incostituzionalità delle summenzionate norme penali.

Con Sentenza n. 149/2018, il Giudice delle Leggi rappresenta una novità nel campo giurisprudenziale penale: è la prima volta, infatti, che si dichiara l’illegittimità di una forma di ergastolo.

Quali sono, quindi, le motivazioni dei giudici?

“A sostegno della propria decisione, la Corte porta argomenti che coinvolgono congiuntamente i principi di eguaglianza e della rieducazione del condannato, ma soprattutto valorizzano questo secondo principio.”[6]

Preliminarmente, in funzione dell’ineliminabile funzione rieducativa della pena ex art. 27, co. 3 Cost. il diritto penitenziario dovrebbe adattarsi ad una «prevalenza assoluta delle esigenze di prevenzione sociale su quelle di recupero dei condannati» (sentenza n. 189 del 2010), in quanto, richiamando la sentenza n. 436 del 1999 è un criterio «costituzionalmente vincolante» quello che «esclude rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzante caso per caso». Inoltre, nell’ambito dell’esecuzione della reclusione negli istituti di pena, il lavoro esterno, la semilibertà ed i permessi-premio rivestono una funzione fondamentale nella rieducazione del reo e nel suo reinserimento sociale. Dal punto di vista delle motivazioni di diritto, la preclusione temporale all’accesso ai benefici penitenziari va ad impedire una valutazione concreta dell’evoluzione rieducativa effettuata dal condannato durante la detenzione, rappresentandosi come elemento distonico rispetto al già difficile accertamento dell’avvenuto recupero del reo affidato al giudice in sede di concessione dei benefici.  Imprescindibile, secondo i giudici, in conclusione, è il richiamo ai principi sanciti dalla CEDU, la quale in più titoli si dedica al tema dell’uguaglianza davanti alla legge e del rispetto della persona, in un rapporto di equivalenza rispetto agli articoli 3 e 27 c.3 Cost., che dal regime della l. 354/1975 sono stati ritenuti violati.

Questa pronuncia è da considerarsi significativo contributo rispetto al contesto sociale politico-criminale moderno in cui si sta vivendo, che in un clima di allarme sociale, inasprimento delle modalità di attuazione dei delitti e conseguente diffuso desiderio sociale di condanne più aspre e deterrenti, non di rado oscura la rilevanza della protezione dei diritti della persona umana sanciti nel tempo a più voci, nazionali e sovranazionali.  Non è oggi scontata una sentenza che condanni a suo modo la eco inibitoria che alcune pene portano con sé a partire da un ordinamento superato quale quello degli anni ’30 e non è che un segnale positivo per uno stato di diritto come l’Italia, che sia rimarcato dalla magistratura il nesso inscindibile tra dignità della persona e risocializzazione del condannato.

 

 

[1] DOLCINI E., DALLA CORTE COSTITUZIONALE UNA CORAGGIOSA SENTENZA IN TEMA DI ERGASTOLO (E DI RIEDUCAZIONE DEL CONDANNATO), 18 Luglio 2018, tratto da www.dirittopenalecontemporaneo.it

[2] C. Cost., sent. 21 giugno 2018 (dep. 11 luglio 2018), n. 149, Pres. Lattanzi, Est. Viganò.

[3] La costituzione esplicata, Ed. Simone, 2012.

[4] DOLCINI E., Op.Cit.

[5] La costituzione esplicata, Ed. Simone, 2012.

[6] DOLCINI E., Op.Cit.

Avv. Alessia Di Prisco

Sono Alessia Di Prisco, classe 1993 e vivo in provincia di Napoli. Iscritta all'Albo degli Avvocati di Torre Annunziata, esercito la professione collaborando con uno studio legale napoletano. Dopo la maturità scientifica, nel 2017 mi sono laureata alla facoltà di giurisprudenza presso l'Università degli Studi Federico II di Napoli, redigendo una tesi dal titolo "Il dolo eventuale", con particolare riferimento al caso ThyssenKrupp S.p.A., guidata dal Prof. Vincenzo Maiello. In seguito, ho conseguito il diploma di specializzazione presso una Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali a Roma, con una dissertazione finale in materia di diritto penale, in relazione ai reati informatici. Ho svolto il Tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari del Tribunale di Torre Annunziata affiancando il GIP e scrivo da anni per la rubrica di diritto penale di Ius In Itinere. Dello stesso progetto sono stata co-fondatrice e mi sono occupata dell'organizzazione di eventi giuridici per Ius In Itinere su tutto il territorio nazionale.

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