giovedì, Marzo 28, 2024
Diritto e Impresa

L’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori nelle società a responsabilità limitata

a cura del Dott. Fabrizio Andreone

1. L’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori nelle società a responsabilità limitata: premessa ed istituti giuridici di riferimento.

Prima di analizzare le fattispecie oggetto del presente elaborato, appare opportuno compiere una breve premessa, al fine di facilitare il ragionamento logico – giuridico del lettore.

Innanzitutto, ai sensi dell’art. 2476 c.c. gli amministratori di una S.r.l. rispondono dei danni causati al patrimonio della società, solidalmente in presenza di un Consiglio di Amministrazione, per inosservanza degli obblighi imposti dalla legge e/o dall’atto costitutivo.

La norma struttura una responsabilità degli amministratori in termini colposi: tale responsabilità è da inquadrarsi come responsabilità da inadempimento, in quanto il rapporto di amministrazione, nel rispetto delle specificità sue proprie, si assimila funzionalmente allo schema del mandato, in considerazione della relazione fiduciaria che caratterizza la gestione di interessi altrui.

Vertendosi in materia di responsabilità da inadempimento, a cui si applicano i principi generali che regolano gli inadempimenti contrattuali, appare opportuno sottolineare come essa sia anche una responsabilità patrimoniale risarcitoria; occorrerà, di tal guisa, accertare il verificarsi di un danno e del nesso di causalità tra la condotta lesiva e  l’evento dannoso[1] , con conseguente applicazione dell’art. 1218 c.c., giacché sarà onere dell’amministratore, che non abbia esattamente eseguito la prestazione dovuta, dimostrare che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da causa a lui non imputabile.

La disciplina consente di ricomprendere, nell’ambito della sua applicazione, sia le tradizionali ipotesi di responsabilità, sia quelle che discendono dall’ampliamento dei compiti gestionali affidati ai singoli amministratori, ponendo, al contempo, criteri di ripartizione degli oneri risarcitori tra i componenti dell’organo amministrativo a seconda dell’attribuzione, o meno, a taluno di essi, di specifiche funzioni operative ovvero in conseguenza dell’espressione di dissenso rispetto alle decisioni gestorie degli altri.

Tuttavia, per l’esercizio dell’azione di responsabilità, che si ricorda essere un’azione di natura contrattuale, non è sufficiente invocare genericamente il compimento da parte dell’amministratore di atti di mala gestio, ciò in quanto, le ragioni di diritto (causa petendi) devono dal principio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale[2].

È quindi onere dell’attore non solo allegare, ma anche provare che la condotta censurata abbia cagionato effettivamente un danno al patrimonio sociale.

Pertanto, la violazione degli obblighi e il danno al patrimonio sociale conseguente ad essa costituiscono i presupposti della responsabilità degli amministratori nelle società a responsabilità limitata.

Ad ogni modo, il quadro normativo appare lacunoso, in quanto mentre da un lato i presupposti della responsabilità degli amministratori vengono delineati, dall’altro si segnala la singolare mancanza di ogni tipo di riferimento a un qualsiasi canone di diligenza relativo all’adempimento dei doveri imposti agli amministratori di una S.r.l. dalla legge e dall’atto costitutivo.

Secondo l’orientamento maggioritario, diffuso sia in dottrina che in giurisprudenza[3], pure in assenza di un’espressa previsione normativa, esigenze di coerenza sistematica inducono a ritenere che anche agli amministratori delle società a responsabilità limitata sia richiesta una diligenza di carattere professionale, determinata in funzione dell’incarico e delle loro specifiche competenze (così per le S.p.A. il primo comma dell’art. 2392 c.c.).

La diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e delle specifiche competenze appare quindi come uno standard minimo ed inderogabile richiesto e che tutti gli amministratori devono rispettare per non incorrere in responsabilità.

Il metro di misura della diligenza, infatti, pare avere una portata generale, risultando così applicabile anche al caso in oggetto.

Un ulteriore aspetto peculiare della disciplina afferente alla responsabilità degli amministratori nel diverso tipo sociale della S.r.l., che si intende richiamare brevemente, è rappresentato dalla legittimazione all’esercizio dell’azione sociale.

Infatti, a seguito della riforma del diritto societario del 2003, il diritto all’azione di responsabilità non viene riconosciuta solo alla società in quanto tale, ma anche direttamente ad ogni singolo socio, che, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, potrà altresì richiedere il provvedimento cautelare di revoca degli amministratori ai sensi dell’art. 2476, comma 3, c.c.

Ne consegue che ciascun socio, indipendentemente dalla quota di capitale sociale posseduta, potrà agire in giudizio in veste di sostituto processuale in nome e per conto della società per ottenere la condanna degli amministratori a risarcire il danno cagionato al patrimonio sociale in conseguenza dei loro atti di mala gestio.

Infine, brevemente si richiama, per una corretta analisi della responsabilità degli amministratori, il principio della business judgement rule.

Con tale locuzione, derivata dall’ordinamento statunitense (in particolare dal Delaware), si fa riferimento alla regola della insindacabilità degli atti gestori degli amministratori, regola secondo cui le decisioni gestorie attribuite dalla legge alla competenza degli amministratori non possono essere sindacate né dai soci, né dai creditori sociali e neppure dagli organi giurisdizionali.

In buona sostanza, l’amministratore di una società non può esser chiamato a rispondere ex art. 2392 c.c. (nel caso di società per azioni), ed ex art. 2476 c.c. (nelle società a responsabilità limitata), per aver posto in essere scelte imprenditoriali, che si siano poi rivelate inopportune dal punto di vista economico, atteso che la valutazione preventiva sulla opportunità della scelta attiene alla discrezionalità imprenditoriale e, sebbene possa essere posta alla base di una revoca dell’incarico, non può costituire fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società.

È bene però ricordare che il principio della insindacabilità delle scelte di gestione non è assoluto e che la sua operatività trova due ordini di limiti elaborati dalla giurisprudenza[4] che verranno affrontati nel successivo paragrafo n. 2.

2. La responsabilità civile degli amministratori afferente alla all’obbligo di istituire adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa ai sensi dell’art. 2086 c.c.

A tal riguardo, occorre evidenziare in prima battuta come a seguito dell’entrata in vigore degli artt. 375 e 377 del D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, siano stati modificati sia l’art. 2086 c.c., con l’aggiunta di un secondo comma all’interno dello stesso, che gli artt. 2380 bis c.c. (per le S.p.A.), 2475 (per le S.r.l.) c.c., i quali pongono a carico degli amministratori il dovere di curare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società.

In tale prospettiva, si evidenzia che la funzione organizzativa rientra pur sempre nel più vasto ambito della gestione sociale e che essa deve necessariamente essere esercitata impiegando un insopprimibile margine di libertà, per cui le decisioni relative all’espletamento della stessa vengono incluse tra le decisioni strategiche. In altre parole, la predisposizione di un assetto organizzativo non costituisce l’oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma, al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell’impresa esercitata e del momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere.

Così, come è stato efficacemente affermato, l’esistenza di un ambito discrezionale entro il quale gli amministratori possono compiere le loro scelte aventi carattere organizzativo deriva dal fatto che il legislatore ha utilizzato come criterio di condotta – a cui gli amministratori sono tenuti a conformarsi in sede di verifica degli assetti societari – la clausola generale dell’adeguatezza e, pertanto, una clausola elastica al pari della clausola di diligenza riferita al compimento di una scelta imprenditoriale[5].

A tale discrezionalità si ricollega il già menzionato principio della business judgement rule che esclude la configurabilità della responsabilità in capo agli amministratori qualora le iniziative imprenditoriali abbiano realizzato degli insuccessi economici.

Tuttavia, il connotato dell’insindacabilità delle scelte di gestione non risulta avere un carattere assoluto, in quanto le stesse potranno essere oggetto di sindacabilità sia sul modo che sulla razionalità in cui le stesse sono state assunte[6].

È possibile asserire, quindi, che un amministratore rischierebbe di essere condannato per atti di mala gestio afferenti agli obblighi previsti dall’art. 2086 c.c., ricordando, però, l’operatività del principio della business judgement rule per tale fattispecie, aggravando di tal guisa l’onere probatorio incombente al socio o alla società che dovesse esercitare l’azione sociale di responsabilità.

In aggiunta, preme rilevare che qualora si aderisca all’orientamento maggioritario sia in dottrina che in giurisprudenza, l’assemblea potrebbe altresì, a seguito di una scelta gestoria che dovesse apparire contraria al precetto normativo dell’art. 2086 c.c., revocare con delibera assembleare l’amministratore per giusta causa ai sensi dell’art. 2383, terzo comma, c.c., norma dettata per le S.p.A., ma analogicamente ritenuta applicabile pure alle S.r.l. in difetto, per queste ultime, di specifica disciplina, essendo gli amministratori revocabili dall’assemblea in qualunque tempo, anche se nominati nell’atto costitutivo, salvo il diritto dell’amministratore al risarcimento dei danni se la revoca avviene senza giusta causa[7].

3. Responsabilità solidale.

Come già esplicato in precedenza, gli amministratori sono solidalmente responsabili dei danni derivanti dall’inosservanza dei propri doveri gestori disciplinati dalla legge o dallo statuto sociale, salva la delega di funzioni.

In ogni caso, fermo il disposto dell’art. 2381, terzo comma, c.c. – ma il rinvio va esteso anche all’art. 2381, sesto comma (norma richiamata anche all’art. 2475, sesto comma c.c., nelle S.r.l.) – essi sono responsabili se, a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non ne hanno impedito il compimento o non si siano adoperati per eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose[8]. Ne discende che la responsabilità non si estende solo a chi sia immune da colpa.

Il sistema delineato dal vigente sistema normativo conforma l’obbligo di vigilanza degli amministratori privi di delega non quale controllo continuo ed integrale sull’attività dei delegati (com’era prima della Riforma), ma richiedendo loro, secondo la diligenza esigibile dal momento dell’accettazione della carica, di informarsi ed essere informati, anche su propria sollecitazione, degli affari sociali e di trarne le necessarie conseguenze. Il dovere di controllo si precisa come obbligo di informazione attiva e passiva, nonché di conseguente attivazione: c.d. dovere di agire informato[9]; ciò non solo in vista della valutazione dei rapporti dell’amministratore delegato (art. 2381, terzo comma, seconda parte, c.c.), ma anche a fini di ingerenza nella delega attraverso l’esercizio dei poteri, di spettanza del consiglio, di direttiva e di avocazione[10].

L’obbligo di agire informato dell’amministratore, pur in assenza di deleghe, si declina in un duplice versante: sotto un primo profilo, si sostanzia in un obbligo di agire, vale a dire di attivarsi esercitando tutti i poteri connessi alla carica al fine di prevenire, di eliminare o di attenuare le situazioni di criticità di cui l’amministratore sia o debba essere a conoscenza; sotto un secondo e concorrente profilo, consiste nell’obbligo di informarsi affinché la scelta di agire o non agire sia fondata sulla conoscenza della situazione aziendale che l’amministratore possa procurarsi esercitando tutti i poteri di iniziativa cognitoria connessi alla carica[11]. Ne consegue che l’amministratore non esecutivo è solidalmente responsabile (ex artt. 2392, 2476 c.c.) della violazione accertata quando non sia intervenuto[12].

4. Responsabilità dell’amministratore di fatto.

Le regole che disciplinano l’attività degli amministratori riguardano il corretto svolgimento dell’amministrazione della società e sono quindi applicabili non solo a coloro che siano stati immessi, nelle forme stabilite dalla legge, nelle funzioni di amministrazione, ma anche a coloro che si siano di fatto ingeriti nella gestione della società senza aver ricevuto da parte dell’assemblea alcuna investitura, neppure irregolare o implicita, sempre che le funzioni gestorie svolte in via di fatto assumano carattere sistematico e non si esauriscano nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e occasionale[13].

Al soggetto agente non è richiesto che gli atti compiuti rientrino nel novero delle attività amministrative, risultando sufficiente un intervento incisivo e non occasionale che, in quanto idoneo ad influenzare le scelte imprenditoriali in settori chiave, sia tale da incidere ed indirizzare di per sé l’operato complessivo della società, eventualmente in concorso con l’attività dell’amministratore di diritto, il quale non necessariamente sarà tenuto a rivestire il ruolo di mero prestanome[14].

Non possono addossarsi all’amministratore di fatto condotte distrattive riguardanti attività contabilizzate e non rinvenute nella procedura né il mancato esperimento di azioni giudiziarie per il recupero dei crediti, trattandosi di violazioni normalmente imputabili all’amministratore di diritto della società, il quale ha il compito di redigere i bilanci ed è provvisto della legittimazione ad causam.

Anche nei confronti dell’amministratore di fatto, l’azione di responsabilità rimane di competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa, dal momento che, da una parte, non si rinvengono ragioni per differenziare il caso della gestione di fatto di una società ai fini dell’attribuzione di competenza delle dette sezioni specializzate, e dall’altra parte, depone in tal senso la formulazione letterale dell’art. 3, comma secondo, lett. a), D.Lgs. n. 168 del 2003, che, richiamando tutti i rapporti societari, va intesa come formula indicativa di una nozione generale e non quale espressione meramente riassuntiva delle peculiari ipotesi citate nel testo della medesima norma[15].

5. Prescrizione dell’azione di responsabilità 

L’art. 2393 c.c (applicabile anche alle S.r.l.). fa decorrere la prescrizione quinquennale dalla data di cessazione dell’incarico dell’amministratore nei cui confronti è esercitata.

Sulla natura del termine introdotto dalla riforma, da alcuni considerato non più di prescrizione ma di decadenza, la giurisprudenza ha preso posizione confermando la tradizionale posizione favorevole a considerare il termine di natura prescrizionale[16].

Si è osservato infatti che la durata di cinque anni risulterebbe del tutto inconsueta per un termine decadenziale tanto più nel silenzio di univoche indicazioni normative al riguardo.

Tuttavia, la previsione normativa non appare fugare ogni dubbio – limitandosi ad applicare la sospensione del termine prescrizionale già prevista dall’art. 2941, n. 7, c.c. – poiché non disciplina il tema della decorrenza del termine nelle ipotesi in cui il danno rientri tra quelli c.d.lungolatenti , suscettibili di manifestarsi anche a notevole distanza di tempo dal momento in cui sia stata posta in essere la condotta provocante il danno.

In linea generale si può segnalare un orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui, in relazione ai danni lungolatenti, il termine prescrizionale decorrerebbe dal giorno in cui chi assume di aver subito il danno abbia avuto, usando l’ordinaria diligenza, ragionevole ed adeguata conoscenza del danno e della sua ingiustizia, mentre resterebbe a carico di chi eccepisce la prescrizione l’onere di provarne la decorrenza[17].

Tuttavia, non può sottacersi che la scelta del legislatore di definire un termine prescrizionale fisso per l’esercizio dell’azione risarcitoria, può risultare funzionale ad evitare che i responsabili aziendali siano soggetti ad eventuali richieste risarcitorie sostanzialmente senza un vincolo temporale ben definito, come accadrebbe invece nel caso in cui il termine fosse fatto decorrere solo dal momento in cui il danno fosse effettivamente percepibile all’esterno, sia pure con il temperamento del controllo della diligenza del danneggiato nella percezione degli effetti dannosi.

Un termine prescrizionale più lungo, in base all’art. 2947, comma 3, c.c. è comunque ipotizzabile qualora il danno sia frutto di un illecito penale che ben può essere oggetto di accertamento incidenter tantum anche da parte del giudice civile[18], sempreché sia data prova adeguata dell’attribuzione di fatti integranti illecito penale[19].

Il diverso termine prescrizionale derivante dall’applicazione della legge penale[20] si riferisce, senza alcuna discriminazione, a tutti i possibili soggetti passivi della conseguente pretesa risarcitoria, così che risulta invocabile non solo per l’azione civile esperibile contro la persona penalmente imputabile (nella specie, l’amministratore che ha ricevuto un pagamento preferenziale) ma anche per quella esercitabile contro coloro che siano tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità indiretta.

6. Conclusioni

Alla luce di quanto esposto e senza alcuna pretesa di esaustività, nel panorama odierno, considerato l’ampio dibattito in dottrina ed in giurisprudenza, a parere di chi scrive occorre riflettere attentamente sulla possibile evoluzione della disciplina afferente all’ampliamento dei doveri gestori attribuiti all’organo amministrativo, i quali, di riflesso, esplicherebbero una loro efficacia sulla responsabilità del predetto organo.

Basti pensare alla clausola aperta contenuta nell’art. 2086 c.c. che potrebbe determinare, in futuro, un considerato aumento delle controversie aventi come petitum l’azione sociale di responsabilità nei confronti del Consiglio di Amministrazione, qualora l’amministrazione sia rimessa ad organo collegiale, nonché avverso l’Amministratore unico.

In aggiunta, la nozione del “fare impresa”, ad avviso di chi scrive, acquisisce sempre di più connotati sociali, in quanto l’impresa non si pone come unico fine teologico la massimizzazione del profitto, ma tende altresì alla produzione di valore sociale da parte dell’impresa.

Pertanto, risulta agevole comprendere come i fenomeni citati possano spiegare una diretta ripercussione sui domini dell’attività gestoria, ovverosia gli amministratori.

[1] Cfr. ex multis Cass. Civ. n. 10488 del 22 ottobre 1998.

[2] Cass. Civ. n. 23180 del 27 ottobre 2006.

[3] O.CAGNASSO, “Nuovo diritto societario”; N.ABRIANI, “Diritto societario Manuale breve”; G.VISENTINI, A.PALAZZOLO “Manuale di diritto commerciale”. Gli Autori affermano che “non vi sarebbe altro sistema per colmare talune evidenti lacune, tra cui ad esempio quella della mancata indicazione del canone della diligenza , per le S.p.A. natura dell’incarico e specifiche competenze, che rimane quello di riferimento, salvo che non si preferisca il più generale richiamo al secondo comma dell’art. 1176 c.c., p. 618. In Giurisprudenza, Trib. Bologna, Sent. n. 2372 del 2018.

[4] Cass., 24 agosto 2004 n. 16707, secondo cui “la responsabilità dell’amministratore non deve essere valutata con riferimento al merito delle scelte imprenditoriali da lui compiute, ma unicamente con riferimento alla mancata osservanza delle cautele e dei canoni di comportamento che il dovere di diligenza gestionale impone, secondo il metro della normale professionalità e della fedeltà all’interesse della società amministrata.

[5]Trib.  Roma, Sez. Imprese, Ord. dell’8 aprile 2020.

[6]Cass. Civ. Sez..I, Sent. n. 23171 del 22 ottobre 2020; Cass. Civ. n. 15470 del 22 giugno 2017, n.15470; così in dottrina F.BONELLI,“gli amministratori di S.p.A. – a dieci anni dalla riforma del 2003”, Torino, 2013, 116 ss; G.PERUZZO, “business judgement rule e responsabilità degli amministratori di S.p.A”. , Roma, 2016.

[7]Trib. Roma Sez. spec. in materia di imprese, n. 4545 del 28 febbraio 2019; Cass. Civ., Sez. I, ordinanza n. 28719 del 16 dicembre 2020.  In dottrina, G.VISENTINI, A.PALAZZOLO, “Manuale di Diritto Commerciale” pp. 613, 614, Roma, 2017: gli autori affermano “la scarna discplina della revoca, legata in particolare all’assenza di una previsione analoga a quella dell’art. 2383 per le S.p.A. e al conseguente dubbio che si possa procedere a revoca solo in via giudiziale e solo al ricorrere dei medesimi presupposti per un’azione di responsabilità, ha aperto un ampio dibattito. I termini e le conclusioni fondamentali che si ritiene di poter condividere sono le seguenti:

  • la revoca per giusta causa è possibile anche nei confronti dell’amministratore che sia tale in virtù di diritti particolari conferiti ad uno dei soci ex art. 2468; altrimenti si frustrerebbe ogni forma di tutela e si comprimerebbe il diritto di difesa in giudizio;
  • la revoca può essere disposta indipendentemente dai presupposti per un’azione di responsabilità, perché potrebbero esservi fatti gravi, ma non produttivi di danno, che la legittimano pienamente;
  • in assenza di previsione statutaria, la revoca è possibile anche da parte della maggioranza e non solo in via giudiziale, alla stregua della nomina e in coerenza con tutti i principi sistematici applicabili in tema sia alle società personali che a quelle di capitali (artt. 2259 e 2383 c.c.); altrimenti la S.r.l. sarebbe l’unico tipo sociale sprovvisto del potere, da parte dei soci, di revocare gli amministratori.

[8]Cass. Civ. n. 17441 del 31 agosto 2016.

[9]Cass. Civ. n. 9973 del 23 aprile 2018.

[10]Cass. Civ. n. 2737 del 5 febbraio 2013.

[11]Cass. Civ. n. 19956 del 18 settembre 2020.

[12]Cass. Civ. n. 24851 del 4 ottobre 2019.

[13]Cass. Civ. n. 1925 del 6 marzo 1999.

[14]Cass. Civ. n. 21567 del 18 settembre 2017.

[15]Cass. Civ. n. 20441 del 2 agosto 2018.

[16]Trib. Roma n. 10212 del 15 maggio 2019, n. 10212.

[17]Cass. Civ. n. 2305 del 2 febbraio 2007.

[18]Trib. Venezia, Sent. del 11 dicembre 2015.

[19]Cass. Civ. n. 8426 del 5 aprile 2013.

[20]Cass. Civ. n. 1641 del 23 gennaio 2017.

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