venerdì, Aprile 19, 2024
Di Robusta Costituzione

Le basi militari statunitensi sul territorio italiano: attualità delle questioni costituzionali dopo l’uccisione del generale Soleimani

 

  1. Gli eventi e l’attualità del problema.

 

Il 7 gennaio dell’anno corrente, Luigi Ferrarella titolava sul Corriere della Sera: “raid ai confini del diritto”. Il riferimento naturalmente è all’uccisione del generale iraniano Soleimani, ordinata dal presidente degli Stati Uniti e compiuta il 3 gennaio in territorio iracheno mediante droni decollati dal Quatar[1]. La questione, dal punto di vista internazionale, è evidentemente molto complessa, resa più intricata anche dalla varia casistica che è riscontrabile nella giurisprudenza delle corti internazionali in riferimento a casi analoghi. Lo stesso giornalista, però, si sorprende che l’Italia non si senta coinvolta in una seria discussione sulle basi giuridiche di simili operazioni militari, specie considerando che, per esempio, la base di Sigonella ospita anche droni statunitensi[2]: se il drone con cui gli USA hanno ucciso Soleimani insieme ad altre sette persone e provocato il ferimento di soldati iracheni e diversi civili fosse partito dal territorio italiano, quali conseguenze e quali responsabilità vi sarebbero in capo all’Italia?

Quanto ai fatti, una considerazione condivisibile già orientata alle conseguenze è quella autorevole dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale: “la giustificazione ufficiale fornita dalla Casa Bianca è quella della “difesa preventiva” contro gli attacchi a obiettivi statunitensi che il generale Suleimani stava pianificando in Iraq. Un’accusa plausibile, ancorché impossibile da verificare, e dunque dalla dubbia legittimità giuridica: come ha fatto notare la Special Rapporteur ONU sulle esecuzioni extra-giudiziarie Agnes Callimard, gli omicidi mirati, attraverso droni, non trovano giustificazione nel diritto internazionale umanitario, oltre a presentare una seria sfida alla sovranità nazionale. In questo senso, inoltre, l’assassinio di un esponente di un governo nemico – peraltro su territorio di un paese terzo – rappresenta un pericoloso precedente al quale altri governi potrebbero appellarsi per giustificare proprie azioni – dirette contro i propri nemici – in futuro”[3].

Per avvicinare il tema di questi eventi alla prospettiva costituzionale data dal territorio e dalla disciplina sulla guerra, serve anzitutto una parentesi che introduca a grandi linee la situazione delle basi NATO e USA in Italia.

 

  1. Le basi militari statunitensi in Italia.

 

Prima di tutto, vi sono due tipologie in teoria ben distinte di presenza militare nordamericana sul territorio: la prima, costituita da basi NATO normalmente popolate, almeno in parte, da militari statunitensi, la seconda, per cui l’Italia si presta a fornire appoggio logistico direttamente all’esercito degli Stati Uniti.

Quest’ultima ipotesi è regolamentata da accordi bilaterali tra Italia e USA che si inseriscono in una logica di c.d. “bilateralizzazione” degli accordi istitutivi della NATO; si aggiunga a questo che all’interno delle basi NATO vi possono essere aree riservate agli Stati Uniti[4], e la linea di demarcazione tra le due tipologie, per il cittadino italiano che guardi con preoccupazione allo svolgimento degli eventi internazionali, difficilmente appare particolarmente limpida, tanto più che alcuni dei più importanti trattati al riguardo sono o sono rimasti a lungo segreti[5].

Le basi USA in Italia disciplinate sulla base di accordi bilaterali, secondo quanto pubblicato dall’Italian Yearbook of International Law, sono otto[6], e precisamente le seguenti:

  1. Aeroporto di Capodichino;
  2. Aeroporto di Aviano, Pordenone;
  3. Camp Derby, Livorno;
  4. la base di Gaeta, Latina;
  5. la base dell’Isola della Maddalena;
  6. la stazione navale di Sigonella;
  7. l’osservatorio di attività solare in San Vito dei Normanni;
  8. una presenza in Vicenza e Longare.

Queste ultime, come detto, si devono ad una “bilateralizzazione” dell’art. 3 del Trattato NATO ai sensi del quale “le Parti, individualmente e congiuntamente, nello spirito di una continua e effettiva autodifesa e assistenza reciproca, manterranno e svilupperanno la propria capacità individuale e collettiva di resistenza ad un attacco armato”. Gli Stati Uniti, in altre parole, essendo distanti dal teatro di guerre e tensioni nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, si giovano dell’opportunità di usare le basi situate sul territorio italiano – e degli altri Stati che le concedono – per rendere più efficiente la loro partecipazione alla Nato. Oltre a queste, bisogna inoltre tenere presenti sia le basi interamente italiane, ma che possono essere messe a disposizione dell’Alleanza, come ad esempio la base di Taranto ove le navi dell’Alleanza possono rifornirsi ed appoggiarsi[7].

Gli accordi di cui si fa menzione sono, in particolare, l’Accordo bilaterale Usa-Italia sull’assistenza difensiva reciproca (Accordo di Washington), firmato il 27 gennaio del 1950, e l’Accordo bilaterale sulla sicurezza reciproca (Accordo di Roma), il 7 gennaio 1952. Sulla scorta di questi fondamentali, l’Italia e gli Stati Uniti il 20 ottobre del 1954 hanno stipulato infine un accordo-quadro di massima segretezza che regola bilateralmente lo status delle basi e delle infrastrutture militari americane in Italia: l’Accordo Bilaterale sulle Infrastrutture, noto anche come “Accordo ombrello”, per l’ampiezza della sue disposizioni.

Si tratta di un accordo redatto in forma semplificata, firmato dall’allora Ministro degli Esteri Pella e dall’Ambasciatrice USA in Italia Clarice Booth Luce, che si caratterizza per la più assoluta segretezza delle sue disposizioni[8], segretezza un tempo condivisa con il successivo Shell Agreement del 1995, finché il governo D’Alema non ne decise, non senza polemiche specie da parte americana, la pubblicazione in seguito all’incidente del Cermis, nel 1999[9].

I primi seri problemi di carattere costituzionale si pongono evidentemente già al livello della esistenza e validità dell’accordo del 1954, in primis sotto il profilo della procedura adottata, che toglie al controllo delle Camere, e cioè del popolo, il controllo previsto ex art. 80 Cost. a proposito di un accordo che influisce profondamente su materie non di poco conto come il territorio e la sovranità, oltre che i rapporti dell’Italia con la guerra; accordi in forma semplificata, in effetti, sono nella prassi di quasi tutti i Paesi e sarebbe difficile oggi sostenerne l’illegittimità, però con questi si esplica un potere estero che, in quanto esercitato al di fuori delle previsioni costituzionali, è dunque necessariamente “da dimensionare nei margini (in realtà ristretti) di autonomia del potere esecutivo, non coperti dalle summenzionate previsioni costituzionali”[10]. Inoltre, a prescindere dalla formazione e dall’eventuale ratifica, è la segretezza a minarne pesantemente la legittimità, secondo una dottrina che si estende da Costantino Mortati a Sabino Cassese[11].

Venendo però al merito, tra le disposizioni di maggiore interesse dell’Accordo del 1954, oltre al numero massimo di forze USA che possono stazionare in Italia e disposizioni tecniche relative alle singole basi, queste ultime vengono concesse agli Stati Uniti solo in uso e di conseguenza non godono di alcuna extraterritorialità. Inoltre, salvo accordi diversi con il governo italiano, esse potrebbero essere utilizzate esclusivamente nell’ambito dell’Alleanza Atlantica. È quest’ultima questione oggi a sollecitare le perplessità anche degli studiosi che pure, durante la guerra fredda, riconoscevano alla NATO il ruolo fondamentale che d’altra parte la legislazione e gli accordi internazionali anche italiani le hanno affidato: “con la fine della contrapposizione tra i blocchi, la NATO ha però perso il suo ruolo originario e quindi spesso i suoi scopi non coincidono con quelli degli Stati membri. Come può quindi l’Italia impedire che le basi concesse in uso agli Americani vengano utilizzate per scopi che essa non condivide?”[12].

 

  1. Il Territorio.

 

Dal punto di vista giuridico, la domanda che ci siamo posti porta con evidenza al centro della problematica il territorio e, nello specifico, il concetto di sovranità territoriale. Se da un lato, stante la non extraterritorialità di cui si è detto, almeno sul piano teorico non risulta particolarmente difficile inquadrare nella normale attività di difesa la concessione di una limitata presenza militare straniera purché sottoposta in toto alla sovranità e agli orientamenti imposti dalla Costituzione del Paese ospitante – anche se già non mancano precedenti in senso contrario –[13], i problemi maggiori li pone la prospettiva opposta, considerato che, una volta che si trovino al di fuori dai confini italiani, truppe e mezzi americani non sono più soggetti ad alcun vincolo nei confronti dell’Italia[14].

Quanto al funzionamento delle basi, vista sempre la non extraterritorialità delle basi Nato e Usa rispetto allo Stato italiano, l’autorizzazione di azioni militari passa attraverso procedure di codecisione, per cui in altre parole sarebbe pur sempre necessario un “via libera” da parte italiana. Dunque, esclusa l’ipotesi patologica in cui gli Stati Uniti non dovessero dare seguito a queste doverose procedure, poste a garanzia minima della sovranità, l’assenso da parte dello Stato italiano configura in ogni caso un’assunzione di responsabilità per le azioni – chiaramente non controllate successivamente e in loco – compiute dai soldati e mediante i mezzi statunitensi, mandati a partecipare ad un conflitto che si svolge all’interno di un territorio terzo. Sembra corretto chiedersi, dunque, perché mai lo Stato terzo aggredito o, comunque, che subisce l’invio di truppe straniere indesiderate provenienti dall’Italia, dovrebbe considerare responsabile solo e soltanto lo Stato di cui i soldati portano la divisa, e di conseguenza adoperare la cautela o la cortesia di rispondere militarmente soltanto mediante un’azione transoceanica e non – come al contrario potrebbe sembrare ovvio – agire nei confronti del Paese o, almeno, della base militare da cui gli armamenti nemici sono partiti.

Può darsi che le considerazioni strategiche e politiche dei singoli Paesi portino a conclusioni – auspicabilmente – opposte, ma la domanda che ci poniamo non perde di problematicità e mette anzi in luce un aspetto centrale della questione: il legame tra la responsabilità politica e giuridica dello Stato e il suo territorio.

Quest’ultimo, tradizionalmente, è uno degli elementi costitutivi dello Stato insieme alla sovranità e al popolo[15]. Non è considerazione fine a se stessa, poiché se da un lato vengono riconosciute al popolo sovrano tutte le prerogative che ne conseguono all’interno del suo territorio, al contempo esso assume la piena responsabilità di ogni esercizio di sovranità che dal territorio di pertinenza tragga origine. Non basta ad assolvere l’Italia da ogni responsabilità, dunque, la semplice constatazione dell’assoluta mancanza di potere su uomini e mezzi statunitensi coinvolti in un’operazione militare all’interno di un Paese estero, nel momento stesso in cui acconsenta a partecipare logisticamente,  avallando l’iniziativa bellica anche mediante la semplice messa a disposizione di basi “d’appoggio” ai fini della singola vicenda.

Si tratterebbe certamente di una situazione, per molti aspetti, paradossale, in quanto a causa della ovvia mancanza di sovranità sui soldati americani, una volta usciti dal territorio italiano, si verifica una sorta di ultraterritorialità[16] non della sovranità, ma esclusivamente della responsabilità politica – ed eventualmente giuridica, la quale però sarebbe strettamente di diritto internazionale e come tale andrebbe approfondita – dello Stato italiano, comportando un singolare scollamento tra sovranità e responsabilità che non poteva certo essere prevista a livello costituzionale.

 

  1. L’art. 11 della Costituzione.

 

Veniamo, in conclusione, al rapporto che l’Italia ha nei confronti della guerra, rappresentato al massimo livello – di principio fondamentale dell’ordinamento – dall’art. 11 della Costituzione e, limitatamente agli aspetti per così dire operativi, dagli artt. 78 e 87.

Queste due norme prevedono rispettivamente una delibera formale del parlamento per la guerra e una dichiarazione formale da parte del Presidente della Repubblica quanto allo stato di guerra. Certa dottrina[17], però, si è giustamente focalizzata sul caso dell’adesione a guerra dichiarata da altri in via di fatto, arrivando al punto di trarne la conclusione del superamento dell’esigenza formale della dichiarazione di guerra, e di conseguenza l’obsolescenza della procedura costituzionale inerente la guerra.

Secondo questa teoria – come dimostrano i fatti per esempio della guerra del Golfo persico, in occasione della quale le procedure costituzionali non sono state applicate[18], ma anche con riguardo alla guerra in Libia del 2011, ratificata dal Parlamento solo ex post[19] – la decostituzionalizzazione in particolare dell’articolo 78 viene in realtà compensata dall’ allargamento delle maglie dell’art. 11.2 ben al di fuori del significato complessivo dello stesso[20]. Si è ritenuto infatti, con riguardo ai maggiori trattati internazionali come anche i trattati fondamentali dell’Unione Europea, che “l’articolo 11 con la sua motivazione di finalizzazione alla partecipazione ad organizzazioni che promuovono la pace la giustizia costituisca la clausola costituzionale che consente un ingresso di norme nel nostro ordinamento a prescindere dal rispetto di altre disposizioni. Una volta utilizzato l’articolo 11 come base di riferimento e l’articolo 80 della Costituzione che prevede l’intervento parlamentare in sede di autorizzazione a ratifica ed esecuzione di trattati di questo genere, in pratica, si realizza un ingresso nel nostro ordinamento delle procedure che sono previste nei trattati sulla sicurezza collettiva (in particolare nel caso dell’ordinamento italiano l’articolo 5 del Trattato NATO) che comportano qualora maturi a livello internazionale una certa situazione emergenziale la delibera dell’organo direzione dell’Alleanza (al quale l’Italia partecipa tramite il suo Governo) e la conseguente entrata automatica del nostro ordinamento nella situazione di conflitto internazionale”[21].

Il recente caso del generale Soleimani, come d’altra parte una serie di ulteriori precedenti, porta all’evidenza che altri ordinamenti annoverino anche veri e propri atti di guerra tra i loro mezzi di risoluzione delle controversie, anche alla luce delle ben note teorie sulla difesa preventiva.

La Costituzione della Repubblica italiana, però, esordisce al proposito affermando all’art. 11 che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Questo principio, stabilito nel primo periodo dell’art. 11, assume certamente il rango di principio fondamentale dell’ordinamento, dunque sovraordinato rispetto alla restante normativa anche pur sempre costituzionale[22].

La prima proposizione dell’art. 11, in questo senso, va vista come una previsione di rottura, per cui “il termine “ripudio”, in definitiva, esprime l’idea di un discrimine irreversibile, non solo giuridico, ma anche politico, ideologico e – se vogliamo – culturale fra due tempi della storia italiana”[23]. In essa è contenuto ed esaurito il principio fondamentale ed il rapporto tra l’Italia e la guerra, nell’atto del ripudio.

Si potrebbe individuare una gerarchia, all’interno dell’art. 11, tra la norma che regala al Paese la finalità generale della pace[24] e quel doveroso consenso alle limitazioni di sovranità strettamente necessarie a consevarla, che non può essere rovesciata. E’ possibile allora che l’Italia presti il suo consenso, e prima di tutto il coinvolgimento del suo territorio, ad azioni che il nostro ordinamento costituzionale ripudia così decisamente?

[1] L. Ferrarella, Raid ai confini del diritto. Apre dubbi anche su Sigonella, Il Corriere della Sera, 7 gennaio 2020.

[2] L. Ferrarella, opera cit.: “anni fa il centro berlinese Ecchr provò a chiedere un accesso agli atti, il ministro della Difesa oppose il segreto di Stato, un ricorso fu respinto dal Tar, il Consiglio di Stato bocciò il Tar sull’ammissibilità, e si attende un nuovo Tar”.

[3]A. Perteghella, USA-Iran: le conseguenze della morte di Soleimani, ISPI, 08/01/2020.

[4] N. Ronzitti (a cura di), Le basi americane in Italia – problemi aperti, Senato della Repubblica, XV legislatura, dossier n. 70, giugno 2007. definisce questa tipologia “basi ad uso promiscuo”.

[5] Si tenga conto, per esempio, che D’Alema ha decretato la desecretizzazione del BIA soltanto nel 1999 (infra).

[6] Il ministro della difesa Arturo Parisi ha dichiarato di fronte alla Camera dei deputati, il 19 settembre 2006, che esistono otto basi Usa in Italia disciplinate sulla base di accordi bilaterali tra le due nazioni.

[7] N. Ronzitti (a cura di), Opera cit.

[8] G. Gagliano, NATO. L’Italia non può tirarsi indietro. A meno che…, Notizie Geopolitiche, 27/07/2019.

[9] LaRepubblica.it dossier, Basi USA in Italia, reso pubblico l’accordo, 13/03/1999 <https://www.repubblica.it/online/dossier/basi/trattato/trattato.html>.

[10] S. Cafaro, La ratifica dei trattati internazionali, una prospettiva di diritto comparato, EPRS, 07/2018.

[11] Camera dei Deputati, Trattati internazionali, basi e servitù militari, Dossier n. 480/1, 07/02/2017: “la questione della legittimità di trattati segreti nel vigente sistema costituzionale è stata approfondita dalla dottrina. Se alcuni autori (Ferrari Bravo) ritengono compatibile con il sistema l’esistenza di trattati segreti, la dottrina nettamente maggioritaria (Mortati, Cassese, Barbera, Barile) la esclude, ritenendola illegittima (anche parzialmente: Labriola). Alcuni studiosi (Fois) giungono a chiedersi se un trattato segreto, in quanto tale, abbia effetti giuridicamente vincolanti (escludendolo, per ricondurre invece tali accordi nella specie delle intese non vincolanti, e in particolare dei gentlemen’s agreements). La tesi dominante, ossia quella dell’illegittimità dei trattati segreti, in estrema sintesi, poggia sulla ricostruzione dei principi costituzionali in materia, su quella dei rapporti tra Organi costituzionali (in particolare tra Governo, Presidenza della repubblica e Camere) e normativamente fa fulcro sull’articolo 80 Cost”.

[12] M. Pilar Buzzetti, L’anomalia dei trattati bilaterali Italia-USA sulle basi militari NATO, Eurasia, 16/05/2013.

[13] Ivi: “l’uso della base, che dovrebbe essere di carattere difensivo, essendo considerata una bilateralizzazione dell’art 3 del Trattato Nato. Il reale uso delle basi smentisce questo assunto. Ad esempio, durante il conflitto iracheno venne usata la base di Vicenza, seppur in modo limitato in quanto l’Italia si era dichiarata paese non belligerante”. A testimonianza del punto di vista statunitense sulla questione, si ricordi anche l’ormai storico avvenimento di Sigonella e le tensioni gravissime tra il governo americano e quello italiano del 1985.

[14] Ivi.

[15] I. Nicotra, Diritto pubblico e costituzionale, Torino, Giappichelli, 2013: “Il territorio costituisce il luogo di stabile radicamento del popolo, entro cui vige l’ordinamento giuridico dello Stato”.

[16] Ivi.

[17] G. De Vergottini, Guerra e attuazione della Costituzione, AIC, 12/04/2002 <http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/old_sites/sito_AIC_2003-2010/materiali/convegni/roma20020412/devergottini.html>.

[18] Ivi.

[19] M. Benvenuti, La prima proposizione dell’articolo 11 della Costituzione tra (in)attualità e (in)attuazione. Un principio decostituzionalizzato o da ricostituzionalizzare?, La Comunità Internazionale, Fasc. 2/2013 pp. 261-284.

[20] Ne risulta, in effetti, quasi una prevalenza del seconda proposizione dell’art. 11, per cui l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”, rispetto al primo.

Per una trattazione sul punto, si veda anche: C. Zarcone, Guerra e Costituzione, Altalex, 25/02/2019 <https://www.altalex.com/documents/news/2019/02/25/guerra-e-costituzione>.

[21] G. De Vergottini, opera cit.

[22] C. Mortati, La Costituzione in senso materiale, Milano, Giuffrè, 1998.

[23] M. Benvenuti, opera cit.

[24] Ivi. Benvenuti osserva come l’Italia che ripudia la guerra sia “quella stessa Italia “Repubblica democratica fondata sul lavoro” che scaturisce dalla decisione politica fondamentale che si ha con il voto costituente del 2 giugno 1946 e che, per l’appunto, dischiude anche l’art. 1 della Carta susseguentemente approvata”, nonché lo stesso Paese che, aprendo una fase del tutto nuova e democratica della propria storia, si assume il compito, all’art. 3.2 Cost., di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione”.

Davide Testa

Davide Testa è dottorando di ricerca presso la LUISS - Guido Carli e City Science Officer a Reggio Emilia, cultore della materia in Diritto Costituzionale e avvocato nel Foro di Padova. Dopo aver conseguito gli studi classici presso il Liceo Marchesi,  ha studiato Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova, svolgendo un periodo di mobilità di due semestri presso l’University College Dublin. Nel 2019 si laurea in Diritto Costituzionale con una tesi intitolata “Fondata sul lavoro: dall’Assemblea costituente alla gig economy”. A partire dallo stesso anno, collabora con l’area di Diritto Costituzionale della rivista Ius in Itinere e partecipa ai lavori del gruppo di ricerca "Progetto Città", promosso dal Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario dell'Università di Padova. Nel 2020-2021 è inoltre stato titolare di un assegno di ricerca FSE intitolato "Urban Data Regulation – Best practices locali per un uso condiviso" presso il medesimo ateneo. Dal 2022 è dottorando di ricerca industriale presso LUISS - Guido Carli e, nell'ambito del dottorato, svolge attività di ricerca applicata presso il City Science Office attivato presso l'amministrazione di Reggio Emilia, nell'ambito della City Science Initiative promossa dal JRC della Commissione Europea. È inoltre avvocato presso il Foro di Padova.

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