venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Le complessa finalità delle misure alternative alla detenzione: intervista al Magistrato di Sorveglianza, dott. Marco Puglia

Da giorni si assiste ad una forte polemica inerente la scarcerazione di alcuni detenuti sottoposti al regime del c.d. carcere duro.  La questione è sorta a seguito della concessione del beneficio della misura alternativa ad alcuni soggetti detenuti, al fine di contenere la diffusione del virus Covid- 19 all’interno delle carceri. Il dato che ha suscitato più perplessità  è che un numero considerevole di ristretti stava espiando una pena per il reato di associazione mafiosa art. 416 bis c.p., la preoccupazione risiede, dunque,  nella possibilità che l’uscita dagli istituti penitenziari di soggetti altamente pericolosi, possa favorire la ricostituzione di clan di stampo mafioso.

La situazione è molto delicata perché si tratta di bilanciare equamente due principi fondamentali: da un lato l’incolumità pubblica e dall’altro il diritto alla salute del detenuto.

A tal proposito giova ricordare che nell’Ordinamento penitenziario le norme che disciplinano le misure alternative (in  particolare  la semilibertà, l’ affidamento in prova al servizio sociale e la detenzione domiciliare) prevedono che al ricorrere di determinate situazioni il Magistrato di sorveglianza possa disporre la concessione di predette misure.

Precisamente dalla  lettura dell’art. 47 ter dell’ordinamento penitenziario (che disciplina la misura alternativa della detenzione domiciliare) si  evince che il giudice, in via preliminare,  accerta mediante la relazione delle forze dell’ordine l’idoneità del domicilio e la disponibilità dei familiari ad accogliere il detenuto, inoltre nella valutazione dei dati si tiene conto della condotta intramuraria tenuta dall’istante  e della  informativa trasmessa dalla DDA che comunica al magistrato competente se persistono collegamenti tra il detenuto e organizzazioni criminali.

Il Magistrato dovrà, infine, considerare le condizioni di salute dell’istante che se incompatibili con il regime carcerario  legittimano il differimento della pena.

Gli articoli summenzionati trovano conferma negli articoli 146 e 147 c.p. i quali prevedono il differimento della pena in presenza di particolari situazioni di salute, specificamente:

l’esecuzione di una pena può essere differita se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica”

Questa possibilità, invero, è compatibile con il finalismo della pena sancito nell’art. 27 c. 3 della Cost, secondo il quale  la pena deve tendere alla rieducazione e alla risocializzazione del reo.  Questa finalità può essere maggiormente soddisfatta attraverso degli strumenti quali appunto le misure alternative,  che permettono il graduale reinserimento di colui che ha commesso un reato nella società.

Per comprendere maggiormente la questione abbiamo posto alcuni quesiti al Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Dott. Marco Puglia.

Alla luce del dibattito venutosi a creare a seguito della  scarcerazione di alcuni detenuti sottoposti al regime del 41 bis, lei crede che esistono degli strumenti normativi che siano in grado di bilanciare equamente i contrapposti interessi in gioco? (specificamente incolumità pubblica e diritto alla salute del detenuto).

Certo che esistono e questi strumenti normativi sono, ovviamente, le misure alternative alla carcerazione. Queste nascono con una finalità duplice, soprattutto quando hanno riguardo la salute del detenuto, la finalità è quella di assicurare che la pena sia conforme alla Costituzione e quindi, allorquando sia necessario, hanno la funzione di assicurare i corretti i trattamenti sanitari per tutelare un diritto supremo come la salute, ma hanno, per le prescrizioni e limitazioni da cui sono composte,anche il compito di tutelare il resto della società e dunque, sostanzialmente contenere l’eventuale pericolosità sociale dei soggetti che sono destinatari delle misure alternative. 

 L’esecuzione della pena in misura alternativa risponde alla finalità rieducativa sancita dall’art. 27 c. 3 Cost.?

Molto probabilmente la finalità risocializzante assicurata dall’art. 27 della Costituzione può dirsi maggiormente esaudita proprio attraverso quelle che sono le misure alternative, al punto che spesso si è detto che la stessa dicitura di “alternativa” sia in qualche modo fuorviante, perché tenuto conto della grande capacità delle misure alternative in questione dovrebbero essere esse stesse la prima scelta del legislatore e dunque del giudice individuando, invece, quale alternativa, quale extrema ratio,  la detenzione in carcere in misura non dissimile da quanto accade sostanzialmente anche per le misure cautelari che oggi,  in ragione delle elaborazioni giurisprudenziali, hanno subito un netto ridimensionamento applicativo, nel senso che la custodia cautelare in carcere rappresenta una scelta ultima alla quale il giudice si rivolge laddove non sia altrimenti possibile soddisfare le esigenze cautelari, in questo senso le misure alternative dovrebbero, oggi più che mai, soprattutto con il recente ampliamento ad opera della Corte Costituzionale del limite massimo che consente la non esecuzione dell’ordine di carcerazione, rappresentare un elemento preponderante e centrale.

Ci sono delle reali opportunità lavorative per una persona con precedenti penali, precisamente se è vero che la pena deve tendere alla risocializzazione del reo, la comunità è davvero pronta ad accogliere una persona che ha commesso reati?

Sono numerosissime le difficoltà che un soggetto detenuto e in generale un soggetto condannato riscontra nel reperimento di un’attività lavorativa e questo non soltanto perché viene ad incontrarsi e scontrarsi con un mercato del lavoro che è generalmente complesso in Italia, soprattutto nel sud-Italia e soprattutto in questo momento storico, ma anche perché questi marchi del carcere e della condanna rappresentano elementi molto spesso pregiudizievoli per il soggetto che ne sia portatore. Per tali motivi non è un caso che vi siano numerose associazioni volte ad assicurare un’attività lavorativa all’esterno o spesso le attività lavorative iniziate nel corso della detenzione rappresentano un elemento di grande formazione, perché consentono sostanzialmente, laddove vi sia un percorso lavorativo serio e certificato, che il soggetto detenuto una volta libero possa nel mercato del lavoro spendere una competenza che riesce (o può riuscir)e a superare il pregiudizio che circonda la sua persona.

Le carceri (con specifico riferimento a quelle della Campania) sono organizzate in modo adeguato? diversamente quali sarebbero i miglioramenti da apportare?

Per le carceri campane, ovviamente, la varietà delle stesse non consente una valutazione unitaria. Gli istituti penitenziari in Italia, senz’altro,  necessitano di una particolare manutenzione e rivalutazione di alcune zone e di alcuni trattamenti, questo perché sostanzialmente sono gli spazi, in taluni casi, a mancare ed è tale il motivo per cui ancora oggi l’Italia deve corrispondere a soggetti detenuti una cifra a titolo di indenizzo per quella che stata definita dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo una detenzione inumana e degradante, che ruota in primo luogo intorno ad un problema di  sovraffollamento carcerario, un sovraffollamento che molto spesso inibisce il perseguimento della finalità risocializzativa.

Che incidenza ha il DAP nelle scelte del magistrato di sorveglianza?

Non ci sono delle incidenze da parte del Dap, perché ovviamente il magistrato di sorveglianza, al pari di qualsiasi magistrato,  gode di autonomia e indipendenza. Il Dap è un interlocutore importante e fondamentale con il quale il magistrato può confrontarsi per la gestione di specifiche esigenze detentive, ed è anche un interlocutore che può essere, all’uopo con gli strumenti previsti dal nostro sistema, adeguatamente propulsato per il raggiungimento di specifici scopi tutelati ed individuati dal legislatore; tra tutti appunto la possibilità per il detenuto di promuovere un  reclamo avverso il dipartimento, per il tramite delle rappresentazioni all’interno dell’istituto  e dall’altro la possibilità per il giudice di accogliere eventualmente il reclamo e addirittura nominare un commissario ad acta per l’esecuzione dei provvedimenti emanato.

 L’istituzione carceraria può ritenersi attuale alla luce dei dettami costituzionali in merito al finalismo della pena?

Ovviamente dipende da quali siano le condizioni dell’istituto penitenziario, da quali siano le offerte trattamentali  e quali siano i legami, i collegamenti del carcere con il tessuti connettivo- sociale che circonda lo stesso. Questo perché è estremamente rilevante nell’ambito del trattamento carcerario,  anche il coinvolgimento, laddove sia possibile, della società civile che possa sostanzialmente assicurare un contributo all’interno dell’istituto penitenziario e quindi, favorire anche attraverso attività di volontariato che possano tradursi in attività teatrali, musicali o  didattiche,  oltre a quelle già assicurate e previste dal nostri sistema.  A seconda di come questi criteri vengono a modellarsi potrà aversi  un carcere c.d. modello ed un carcere che modello non lo è, proprio perchè non riesce ad assicurare neanche gli standard minimi per il perseguimento di queste specifiche finalità.

Lei ritiene che nell’evoluzione giurisprudenziale la funzione retributiva- afflitiva della pena sparirà definitivamente o residua ancora un suo spazio? Specificamente l’art. 27 c. 3 Cost. assolve anche ad una funzione punitiva- sanzionatoria, ciò alla luce della giurisprudenza EDU? (vd. dissenting opinion Caso Viola)

Nel nostro sistema l’unica espressa finalità riconosciuta, anche se a questa è fatta riferimento con una finalità tendenziale, è appunto quella risocializzante – rieducativa, è indubbio, però,  dal punto di vista criminologico che  all’interno del nostro sistema basta anche una mera lettura coordinata del codice penale e del codice di procedura penale, ma anche degli studi che sono stati fatti per rilevare la presenza, ovviamente,  anche una finalità retributiva che del resto insita nella determinazione legislativa della pena. La finalità afflittiva è in qualche modo essa stessa insita nel concetto di pena, perché le restrizioni che questa determinano comportano un grado di afflizione più o meno elevato nei confronti dei soggetti che ne sono attinti. Tuttavia, è ovvio che l’afflizione e la retribuzione non possono trasformarsi in altro, la retribuzione non può divenire mero arbitrio nella determinazione della pena e l’afflizione non può essere informata da criteri satisfattori e quindi, di primordiale vendetta che non possono essere introdotti nel nostro sistema. In qualche modo la Corte EDU da atto di questa vivacità dell’esecuzione penale, ovviamente prediligendo la finalità rieducativa della pena, anche allorquando  essa vada sostanzialmente a riguardare soggetti con uno spiccato profilo criminale.

Per una completa lettura: www.gazzettaufficiale.it

Tayla Jolanda Mirò D'Aniello

Tayla Jolanda Mirò D'aniello nata ad Aversa il 4/12/1993. Attualmente iscritta al V anno della facoltà di Giurisprudenza, presso la Federico II di Napoli. Durante il suo percorso univeristario ha maturato un forte interesse per le materie penalistiche, motivo per cui ha deciso di concludere la sua carriera con una tesi di procedura penale, seguita dalla prof. Maffeo Vania. Da sempre amante del sistema americano, decide di orientarsi nello studio del diritto processuale comparato, analizzando e confrontando i diversi sistemi in vigore. Nel privato lavora in uno studio legale associato occupandosi di piccole mansioni ed è inoltre socia di ELSA "the european law students association" una nota associazione composta da giovani giuristi. Frequenta un corso di lingua inlgese per perfezionarne la padronanza. Conseguita la laurea, intende effettuare un master sui temi dell'anticorruzione e dell'antimafia.

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