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Le concessioni demaniali alla luce della Plenaria del Consiglio di Stato n. 17 e 18 del 2021: una questione risolta o un punto di partenza?

Articolo a cura della Dott.ssa Camilla Di Stasio

SOMMARIO: 1. Premessa. Il quadro normativo e l’assetto giurisprudenziale in materia; 2. Le sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato; 3. La lettura delle pronunce da parte della dottrina; 4. Le proposte di legge in materia di concessioni demaniali dopo le sentenze; 5. Gli ultimi sviluppi.

  1. Premessa. Il quadro normativo e l’assetto giurisprudenziale in materia

Le concessioni demaniali sono al centro del dibattito politico e giuridico degli ultimi anni.  Fonte di profitto per un settore strategico nel nostro Paese, quale quello del turismo, hanno sollevato ripetutamente questioni di incompatibilità tra il diritto europeo e il diritto nazionale.

Il contrasto è sorto tra la legislazione nazionale e la Direttiva 2006/123/CE (cosiddetta “Bolkestein” o “Direttiva Servizi”), la quale si è posta come finalità la rimozione degli ostacoli alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi: in particolare le molteplici proroghe delle concessioni demaniali operate a livello nazionale, da ultimo sino al 31 dicembre 2033, come previsto dall’art. 1 commi 682 e ss. l. n. 145/2018 (Legge di Bilancio 2019) e confermato dall’art. 182 co. 2 d.l. n. 34/2020 (convertito nella l. n. 77/2020), risultano incompatibili con l’art. 12 della Direttiva, che sancisce l’obbligo degli Stati membri di indire procedure ad evidenza pubblica basate su criteri di trasparenza, pubblicità ed imparzialità, per la scelta tra i potenziali candidati, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività “sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili”.

Al riguardo, nel 2008 la Commissione Europea aveva aperto una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano, archiviata grazie all’intervento del 2009 con il quale il legislatore si è limitato ad abolire il “diritto di insistenza” del concessionario uscente, nelle more di un riordino completo della materia; all’opposto di quanto promesso, il legislatore ha più volte posticipato la scadenza dei rapporti concessori, avallando una situazione di grave incertezza, che l’emergenza Covid ha contribuito a peggiorare : con il Decreto Rilancio, infatti, il Governo ha disposto la sospensione dei procedimenti amministrativi volti all’assegnazione delle concessioni demaniali; il d.l. n. 104/2020 (convertito nella l. n. 126/2020) ha poi esteso formalmente la proroga al 31 dicembre 2033 anche alla concessioni lacuali e fluviali, e per la nautica da diporto.

Ciò ha portato la Commissione Europea a presentare una lettera di messa in mora del 3 dicembre 2020 nei confronti dello Stato italiano, per inottemperanza agli obblighi previsti dagli articoli 12 della Direttiva Bolkestein e 49 del TFUE[1], con la quale si è rinviato ai principi sanciti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Invero, con la nota sentenza del 14 luglio 2016 (sentenza “Promoimpresa”), la Corte di Giustizia, a seguito di rinvio pregiudiziale operato dai TAR Lombardia e Sardegna, ha censurato il meccanismo di proroga automatica ex lege delle concessioni demaniali, in quanto equivalente ad un rinnovo automatico delle stesse, e dunque incompatibile con l’art. 12 della Direttiva Bolkestein, tuttavia rimettendo alla discrezionalità del giudice nazionale la valutazione della scarsità delle risorse naturali oggetto di tali autorizzazioni, e la conseguente applicazione della Direttiva medesima.

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha svolto un ruolo attivo nella vicenda in esame, dapprima inviando numerose segnalazioni ai Comuni italiani che avevano concesso la proroga delle concessioni demaniali, al fine di ottenere la disapplicazione della norma interna, e, poi, preso atto del mancato adeguamento da parte degli stessi nei successivi 60 giorni, proponendo ricorso ex art. 21 bis l. n. 287/1990, a tutela dei violati principi concorrenziali.

Nonostante l’intervento chiarificatore della Corte di Giustizia, la giurisprudenza nazionale ancora una volta non si è mostrata unanime: il TAR Lecce, discostandosi dall’orientamento giurisprudenziale maggioritario, ha a larghe linee riconosciuto il potere – dovere di disapplicazione della normativa interna confliggente con quella comunitaria solo in capo al giudice amministrativo, e non anche in capo alla pubblica amministrazione, la quale, non legittimata all’accertamento della natura self – executing delle direttive, è vincolata all’applicazione della norma nazionale; il TAR Lecce, addivenendo all’opposta conclusione dei restanti TAR (Firenze, Salerno, Pescara, Venezia), ha inoltre negato la natura self – executing della Direttiva Bolkestein [2].

Al fine di dirimere l’intreccio giurisprudenziale e garantire una certa ed uniforme applicazione del diritto, il Presidente del Consiglio di Stato, con decreto del 24 maggio 2021, n. 160 ha deferito all’Adunanza Plenaria tre questioni così riassumibili:

  • se sia doverosa la disapplicazione della normativa statale e regionale che preveda la proroga automatica e generalizzata delle concessioni demaniali marittime, confliggente con il diritto dell’Unione, e se essa sia doverosa per tutte le articolazioni dello Stato, compresa la p.a.;
  • se, in caso di risposta affermativa, l’amministrazione sia tenuta all’annullamento d’ufficio dei provvedimenti emanati, o al riesame degli stessi ex art. 21 – octies n. 241/1990, e se ciò sia possibile anche in caso di intervenuto giudicato favorevole;
  • se, nella moratoria di cui all’art. 182 d.l. n. 34/2020 rientrano anche le aree soggette a concessione scaduta al momento dell’entrata in vigore della moratoria stessa, ma il cui termine rientri nel disposto di cui all’art. 1 commi 682 e ss. l. n. 145/2018;
  1. Le sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata sulla questione con due sentenze gemelle n. 17 e n. 18 del 9 novembre 2021.

In via preliminare, ha inquadrato la proroga delle concessioni demaniali marittime dal punto di vista normativo, così da vagliare la sussistenza di profili di incompatibilità tra regime normativo interno e diritto europeo.

La Plenaria ha, dunque, ripercorso l’iter giurisprudenziale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per dirimere il conflitto tra due opposti orientamenti interni, a favore o contrari all’applicabilità dei principi a tutela della concorrenza di cui agli articoli 49 TFUE e 12 – Direttiva Bolkestein, al fine del rilascio delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico – ricreative.

In particolare, ha spiegato come la disciplina nazionale, prevedendo una proroga automatica e generalizzata, sia suscettibile di limitare ingiustificatamente le libertà di stabilimento e di libera circolazione dei servizi nel mercato, tutelate dagli articoli 49 e 56 TFUE.

Nella nota sentenza 7 dicembre 2000, Telaustria e Telefonadress, la Corte di Giustizia ha, infatti, chiarito come qualsiasi atto dello Stato che stabilisca le condizioni a cui è subordinata la prestazione di un’attività economica è tenuto a rispettare i principi fondamentali del Trattato, tra cui l’obbligo di trasparenza, idoneo a garantire un’adeguata pubblicità nel mercato concorrenziale. Tali principi sono generalmente applicabili a tutte le fattispecie che configurano la prestazione di un’attività economica, laddove sia presente un interesse transfrontaliero.

Secondo il Consiglio di Stato il patrimonio costiero nazionale è senz’altro oggetto di interesse transfrontaliero, per conformazione, ubicazione, clima, vocazione turistica, e dunque, un meccanismo di proroga automatica delle concessioni demaniali, in un settore di elevata attrattiva economica, può causare una grave distorsione della concorrenza.

Il Giudice ha altresì confutato le tesi contrarie alla diretta applicazione della Direttiva Bolkestein: trattasi, invero, di direttiva di liberalizzazione, finalizzata alla rimozione degli ostacoli alla libertà di stabilimento e circolazione, e non all’armonizzazione delle leggi nazionali, che configura un processo successivo e complementare all’obiettivo primario, e che non rende dunque applicabile la regola della deliberazione unanime di cui all’art. 115 TFUE.

Non vi è alcun dubbio per l’Adunanza Plenaria che nella nozione di autorizzazione, di cui all’art. 12 della Direttiva, rientri anche quella di concessione, in quanto il diritto dell’Unione, discostandosi dalla formale distinzione tra i due istituti squisitamente nazionale, ha da tempo favorito una rilettura in chiave sostanzialistica della nozione di concessione amministrativa, comprensiva di qualsiasi fattispecie idonea a procurare al titolare rilevanti vantaggi economici e ad incidere sull’assetto concorrenziale, come nel caso delle concessioni demaniali [3].

Se è condivisibile l’assunto secondo il quale l’art. 195 TFUE esclude la competenza dell’Unione Europea ad adottare misure di armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di turismo, altrettanto non può esserlo la tesi secondo la quale la diretta applicazione della Direttiva alle concessioni demaniali determinerebbe una violazione dell’articolo in questione; invero quest’ultima, oltre a non configurarsi quale direttiva di armonizzazione e ad avere portata generale (ad eccezione dei settori espressamente esclusi), si riverbera su una materia, la tutela della concorrenza, notoriamente trasversale ed idonea ad incidere su settori nei quali l’Unione è priva di competenza o dotata di competenza di sostegno, vincolando gli Stati membri all’obbligo di gara posto a monte dell’attività che poi si svolgerà in quella materia.

Il Consiglio di Stato ha confutato altresì la tesi secondo la quale è carente il requisito della scarsità delle risorse nelle aree demaniali, lacuali, marittime: premesso che il concetto di scarsità vada inteso in termini relativi, sia quantitativi che qualitativi, è innegabile che i dati forniti dal Ministero delle Infrastrutture mostrano una netta limitazione all’ingresso di nuovi potenziali operatori economici in tale settore, per via della scarsità delle risorse naturali costiere e del vasto interesse economico e turistico che esse suscitano [4].

Dunque, non ha ragion d’essere la tesi secondo la quale la Direttiva non è sufficientemente dettagliata e specifica da considerarsi self – executing. Invero, l’art. 12 della Direttiva, persegue l’obiettivo di aprire, mediante il confronto competitivo, il mercato delle attività economiche il cui esercizio richiede l’utilizzo delle risorse scarse, e dunque, tale disposizione è dotata di un livello di dettaglio tale da determinare la disapplicazione della normativa nazionale sulla proroga automatica ed imporre l’espletamento delle gare.

Il Consiglio di Stato, appurata la natura self – executing della Direttiva, ha affermato con riguardo al primo quesito che il dovere di disapplicazione della normativa interna confliggente con il diritto europeo non può che sussistere anche in capo alla pubblica amministrazione, la quale, diversamente, incapperebbe nella contraddittoria situazione di emanare atti amministrativi illegittimi [5]. Tale principio trova applicazione anche nel caso di contrasto con le direttive cosiddette self – executing, le quali, secondo una consolidata giurisprudenza comunitaria, sono dotate di efficacia diretta alla pari dei regolamenti.

Sul secondo quesito[6] il Consiglio di Stato, escluso che si tratti di una questione di autotutela sui provvedimenti amministrativi[7], ha qualificato l’atto di rinnovo della proroga quale atto meramente ricognitivo della normativa. Ne consegue che la proroga opera automaticamente ex lege senza necessità di alcuna intermediazione amministrativa, e il provvedimento amministrativo rimane in essere in forza della legge medesima. Se, tuttavia, la normativa interna non può essere applicata perché confliggente con il diritto europeo, ne discende che anche l’effetto della proroga ex lege è da considerarsi tamquam non esset : è l’inapplicabilità della legge ad impedire il prodursi degli effetti della proroga, in quanto la legge è dotata del potere autoritativo, mentre l’atto amministrativo di un mero potere ricognitivo.

Analoghe considerazioni devono essere svolte nel caso di giudicato favorevole alla concessione demaniale: la Plenaria ha dapprima ripercorso la copiosa giurisprudenza secondo la quale il diritto europeo non impone ad un giudice nazionale la disapplicazione delle norme interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, quand’anche ciò sanasse la violazione del diritto comunitario. Poi ha sottolineato come, nel caso di specie, venga in essere o prosegua un rapporto di durata, sulle cui situazioni giuridiche durevoli lo jus superveniens incide immediatamente, per la parte che si svolge successivamente al giudicato. Dato che le sentenze pregiudiziali interpretative della Corte di Giustizia sono vincolanti sia per i giudici di rinvio sia nei casi in cui si applica il medesimo principio di diritto, esse sono equiparabili alla sopravvenienza normativa.

Si è concluso che “l’incompatibilità comunitaria della legge nazionale che ha disposto la proroga ex lege delle concessioni demaniali produce come effetto, anche nei casi in cui siano stati adottati formali atti di proroga e nei casi in cui sia intervenuto un giudicato favorevole, il venir meno degli effetti della concessione, in conseguenza della non applicazione della disciplina interna”.

La Plenaria si è mostrata ben consapevole del notevole impatto economico e sociale che la propria decisione può avere su una situazione già segnata da una profonda incertezza, a causa dei molteplici interventi legislativi a favore della proroga automatica, degli opposti orientamenti giurisprudenziali, delle procedure di infrazione aperte dalla Commissione Europea, e da ultimo della cessazione di tutti i rapporti concessori in essere quale conseguenza della disapplicazione della normativa interna.

Per tale motivo, ha ritenuto sussistenti i presupposti per modulare gli effetti temporali della propria decisione: la deroga alla retroattività trova fondamento nel principio di certezza del diritto, e così si limita possibilità degli interessati di far valere la norma giuridica come interpretata, se vi è il rischio di gravi ripercussioni economiche e sociali dovute all’elevato numero di rapporti giuridici instaurati in buona fede sulla base di una diversa interpretazione.

La Plenaria ha così previsto un intervallo di tempo necessario all’espletamento delle gare idonee a garantire il confronto competitivo, e, con auspicio, strumentale al riordino della materia da parte del legislatore: si è deciso che le concessioni demaniali in essere produrranno effetti fino al 31 dicembre 2023, ma che, scaduto tale termine, esse si riterranno prive di effetti a prescindere dal subentro di soggetti concessionari, e che qualunque proroga legislativa del termine considerato sarà intesa incompatibile con il diritto europeo e, pertanto, immediatamente non applicabile ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo, doverosamente legittimato a considerare, da quel momento, tamquam non esset le concessioni in essere.

Nel caso di specie, però, il Consiglio di Stato ha evidenziato come i rapporti concessori oggetto di eventuali giudicati risultano successivi alla sentenza Promoimpresa del 2016 della Corte di Giustizia, che, pronunciata prima delle modifiche legislative del 2018, non può qualificarsi quale sopravvenienza normativa idonea ad incidere sul giudicato successivo. Tuttavia, la portata di tale pronuncia, e la rilevanza economico – sociale della questione, hanno indotto la Plenaria a ritenere che, anche rispetto ai rapporti oggetto di sentenza passata in giudicato favorevole per il concessionario, gli effetti della non applicazione della normativa in esame si produrranno al termine del periodo transitorio di cui sopra, nel rispetto dei principi di certezza del diritto, parità di trattamento, linearità e semplificazione.

Inoltre, ferma restando la discrezionalità del legislatore, il Consiglio di Stato ha sostenuto che lo svolgimento delle gare debba essere ispirato a criteri di selezione proporzionati, non discriminatori ed equi, idonei a garantire agli operatori economici l’effettivo accesso alle opportunità economiche offerte dalle concessioni, tra i quali rientrano i criteri di cui all’art. 12 della Direttiva[8]. Ha suggerito, tra l’altro, che, ove ne ricorrano i presupposti, l’indizione delle procedure competitive sia supportata dal riconoscimento di un indennizzo a tutela degli investimenti eventualmente effettuati dai concessionari uscenti.

Si è altresì osservato che, per evitare la preclusione dell’accesso al mercato, la durata delle concessioni dovrebbe essere limitata e giustificata sulla base di valutazioni tecniche, economiche e finanziarie, e, dunque, sarebbe opportuno introdurre a livello normativo un limite alla durata delle concessioni, che sarebbe poi determinato in concreto dall’amministrazione aggiudicatrice in funzione dei servizi richiesti, del valore della concessione e della sua complessità, del tempo necessario al recupero degli investimenti.

Alla luce delle precedenti considerazioni, la Plenaria ha così enunciato i seguenti principi di diritto:

  1. Le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative – compresa la moratoria introdotta in correlazione con l’emergenza epidemiologica da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, d.l. n. 34/2020, convertito in legge n. 77/2020 – sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. Tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione.
  2. Ancorché siano intervenuti atti di proroga rilasciati dalla P.A. (e anche nei casi in cui tali siano stati rilasciati in seguito a un giudicato favorevole o abbiamo comunque formato oggetto di un giudicato favorevole) deve escludersi la sussistenza di un diritto alla prosecuzione del rapporto in capo gli attuali concessionari. Non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela decisoria della P.A. in quanto l’effetto di cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i termini di durata. La non applicazione della legge implica, quindi, che gli effetti da essa prodotti sulle concessioni già rilasciate debbano parimenti ritenersi tamquam non esset, senza che rilevi la presenza o meno di un atto dichiarativo dell’effetto legale di proroga adottato dalla P.A. o l’esistenza di un giudicato. Venendo in rilievo un rapporto di durata, infatti, anche il giudicato è comunque esposto all’incidenza delle sopravvenienze e non attribuisce un diritto alla continuazione del rapporto.
  3. Al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere, di tener conto dei tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedura di gara richieste e, altresì, nell’auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di derivazione europea, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E.

Per completezza, merita di essere citata la recentissima sentenza del Consiglio di Stato, VI sezione, del 13 gennaio 2022, n. 229 con la quale si è confermata l’efficacia delle concessioni demaniali fino al 31 dicembre 2023 e si è statuito che “le opere realizzate dai concessionari sulla superficie demaniale sono, ai sensi dell’art. 952 c.c., d’esclusiva proprietà privata c.d. superficiaria fino al momento dell’effettiva scadenza”.

  1. La lettura delle pronunce da parte della dottrina

L’importanza delle sentenze gemelle è stata rilevata prontamente dalla dottrina, che si è espressa sul ruolo svolto dal Consiglio di Stato e sulle conseguenze che ne derivano.

Si è segnalato che l’Adunanza Plenaria, al fine di dirimere una questione intricata ed annosa, ha apparentemente sacrificato il ruolo nomofilattico che le compete, in funzione di un ruolo di ausiliario del legislatore, e che, dunque, le sentenze da essa pronunciate potrebbero divenire oggetto di ricorso in Cassazione ai sensi dell’art. 111, co. 8 Cost., per eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore e/o nei confronti della Corte di Giustizia e/o della Corte Costituzionale; il Consiglio di Stato, infatti, avrebbe potuto sollevare questione di legittimità costituzionale delle leggi proroga per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. in riferimento all’art. 12 della Direttiva, quale parametro interposto di costituzionalità [9].

Inoltre, la scelta di riconoscere l’efficacia delle concessioni fino al 31 dicembre 2023 equivale ad una proroga generalizzata e indiscriminata delle concessioni stesse, la quale, seppur motivata da esigenze economico – sociali, si pone ugualmente in contrasto con la normativa europea[10].

Il riconoscimento di un eventuale indennizzo in capo al concessionario è stato anch’esso spunto di riflessione per la dottrina: da un lato si è osservato che la carenza di un’indicazione precisa, da parte delle sentenze, dei requisiti e dei presupposti per ottenere l’indennizzo, potrebbe far sorgere problemi interpretativi e applicativi[11], dall’altro si è evidenziata la indispensabilità dell’indennizzo, la cui mancanza potrebbe sollevare profili di incostituzionalità; invero, l’assenza di indennizzo avrebbe conseguenze anticompetitive e si porrebbe in contrasto con le libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi di cui agli artt. 49 e 56 TFUE, come statuito dalla Corte di Giustizia nella sentenza Laezza[12], secondo la quale ”gli articoli 49 TFUE e 56 TFUE devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una disposizione nazionale restrittiva, la quale impone al concessionario di cedere a titolo non oneroso, all’atto della cessazione dell’attività per scadenza del termine della concessione, l’uso dei beni materiali e immateriali di proprietà che costituiscono la rete di gestione e di raccolta del gioco”.

Infine, la dottrina ha manifestato l’urgenza di un intervento del legislatore, che sia in grado di operare una riforma su tre binari: la sostituzione delle proroghe decennali con proroghe più brevi, l’affidamento a Regioni e Comuni dell’attività di ricognizione del territorio e della scarsità delle risorse, e la fissazione di criteri immediati per le gare che bilancino concorrenza ed economia sociale[13].

  1. Le proposte di legge in materia di concessioni demaniali dopo le sentenze

Con il Comunicato stampa n. 61 il Consiglio dei Ministri, riunitosi in data 15 febbraio 2022, ha dato notizia dell’approvazione unanime dell’emendamento al DDL Concorrenza relativo alle modalità di affidamento delle concessioni demaniali marittime, fluviali e lacuali per finalità turistico – ricreative.

Il Governo ha confermato l’efficacia delle concessioni sino al 31 dicembre 2023, e si è impegnato ad adottare entro 6 mesi dall’entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi volti a riordinare e semplificare la disciplina in materia, al fine di perseguire una maggiore apertura al mercato concorrenziale in conformità alla normativa comunitaria.

  1. Gli ultimi sviluppi

La vicenda delle concessioni demaniali sembra ancora lontana da una pacifica e soddisfacente conclusione.

Al momento, il disegno di legge è in esame presso la Commissione Industria del Senato, e risulta già oggetto di numerosissimi emendamenti e subemendamenti presentati, molti dei quali riferiti alle concessioni demaniali.

Nel mentre, il Presidente del Sindacato italiano balneari – Confcommercio ha diffuso la notizia della proposizione del ricorso in Cassazione a Sezioni Unite avverso la sentenza dell’Adunanza Plenaria.

Si può concludere che il Consiglio di Stato ha inciso in modo profondo sull’assetto interno delle concessioni demaniali, apportando un contributo importante in termini non solo giurisprudenziali, ma soprattutto economico – sociali per il nostro Paese. Il settore turistico riveste un ruolo primario nell’assetto produttivo nazionale, e dunque la scelta incontrovertibile del Consiglio di Stato non può che portare a risvolti decisivi. Tuttavia, i recenti sviluppi ci confermano la volontà del mondo delle imprese e di una parte del mondo politico di contrastare fermamente tali cambiamenti di rotta. Alla luce dei molteplici e diversificati orientamenti espressi a livello giurisprudenziale, dottrinale, legislativo, non resta che attendere l’evolversi della situazione e auspicare, nell’interesse generale, che quanto prima si giunga ad un accordo unanime che tuteli parimenti economia e concorrenza.


[1] in questi termini la Commissione Europea, nella lettera di messa in mora del 3/12/2020 “

[2] Per un approfondimento, si rinvia a M. Palliggiano, Concessioni balneari: il contrasto tra diritto interno e la Direttiva Bolkestein alla luce della “innovativa” sentenza T.A.R. Puglia, Lecce, 27 novembre 2020, n. 1321, in questa rivista.

[3 In questo senso Corte di Giustizia UE, V sez., sentenza 14 luglio 2016: “Inoltre il considerando 39 della direttiva in questione precisa che la nozione di «regime di autorizzazione» dovrebbe comprendere, in particolare, le procedure amministrative per il rilascio di concessioni.

[4] In tal senso il Consiglio di Stato: “dal sistema informativo del demanio marittimo (SID) del Ministero delle Infrastrutture rivelano che in Italia quasi il 50% delle coste sabbiose è occupato da stabilimenti balneari, con picchi che in alcune Regioni (come Liguria, Emilia-Romagna e Campania) arrivano quasi al 70%. Una percentuale di occupazione, quindi, molto elevata, specie se si considera che i tratti di litorale soggetti ad erosione sono in costante aumento e che una parte significativa della costa “libera” risulta non fruibile per finalità turistico-ricreative, perché inquinata o comunque “abbandonata”. A ciò si aggiunge che in molte Regioni è previsto un limite quantitativo massimo di costa che può essere oggetto di concessione, che nella maggior parte dei casi coincide con la percentuale già assentita.”

 [5] In tal senso le Adunanza Plenaria n. 17 e 18 del 9 novembre 2021 : “la tesi della non disapplicabilità da parte della P.A. della legge in contrasto con una direttiva self-executing cade in una contraddizione logica, che finisce per sterilizzarne ogni utilità pratica. Basti pensare che, anche ad ammettere che la legge in contrasto con la direttiva self-esecuting non sia disapplicabile dalla P.A. ma solo dal giudice, rimarrebbe fermo che l’atto amministrativo emanato in base ad una legge poi riconosciuta anticomunitaria in sede giurisdizionale sarebbe comunque illegittimo e, come tale, andrebbe annullato. E allora, nel momento in cui la P.A. ha comunque deciso di “non applicare” quella legge (nel caso di specie, negando la proroga) e il privato ha sottoposto al vaglio giurisdizionale l’atto amministrativo frutto di quella non applicazione, il giudice, che certamente ha il potere di non applicazione, non potrebbe che prendere atto della legittimità dell’atto e respingere il ricorso. Altrimenti si dovrebbe ritenere che nemmeno il giudice può disapplicare la legge che la P.A. ha applicato, con chiara violazione di consolidati principi sui rapporti tra ordinamenti nazionale e comunitario. In altri termini, delle due l’una: o si ammette che la legge non è disapplicabile nemmeno dal giudice (ma in questo modo il contrasto con il principio di primazia del diritto dell’Unione diventa stridente) oppure si ammette che l’Amministrazione è “costretta” ad adottare un atto illegittimo, destinato poi ad essere annullato dal giudice, che può fare ciò che la P.A. non ha potuto fare, cioè non applicare la legge nazionale anticomunitaria. Ma immaginare un’Amministrazione “costretta” ad adottare atti comunitariamente illegittimi e a farlo in nome di una esigenza di certezza del diritto (legata all’asserita difficoltà di individuare le direttive self-executing) appare una contraddizione in termini

[6]nel caso di risposta affermativa al precedente quesito, se, in adempimento del predetto obbligo disapplicativo, l’amministrazione dello Stato membro sia tenuta all’annullamento d’ufficio del provvedimento emanato in contrasto con la normativa dell’Unione europea o, comunque, al suo riesame ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, nonché se, e in quali casi, la circostanza che sul provvedimento sia intervenuto un giudicato favorevole costituisca ostacolo all’annullamento d’ufficio.”

[7] in tale senso il considerando 40 dell’Adunanza Plenaria: “In via preliminare, è utile ricordare che, secondo la stessa giurisprudenza comunitaria, il principio di primazia del diritto U.E. di regola non incide sul regime di stabilità degli atti (amministrativi e giurisdizionali) nazionali che risultino comunitariamente illegittimi. In linea di principio, quindi, va escluso un obbligo di autotutela (o anche di riesame), a maggior ragione laddove il provvedimento amministrativo risulti confermato da un giudicato. Si possono richiamare, a tal proposto, con specifico riferimento alla questione dell’obbligo di autotutela su un atto amministrativo comunitariamente invalido, le sentenze Khune (C-453/04) e Kempter (C-2/06), in cui la Corte UE, pur escludendo la sussistenza di un generalizzato obbligo di autotutela o di riesame, individua alcune condizioni in presenza delle quali tale obbligo sussiste, anche in presenza di giudicato che abbia escluso l’illegittimità del provvedimento medesimo. Secondo la Corte, tale obbligo sussiste quando: a) l’amministrazione disponga secondo il diritto nazionale del potere di riesame; b) l’atto amministrativo sia divenuto definitivo a seguito di una sentenza di un giudice nazionale di ultima istanza; c) tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della CGUE successiva alla medesima, risulti fondata su una interpretazione errata del diritto adottata senza che la Corte fosse stata adita in via pregiudiziale”.l

[8] In ordine ai principi che dovranno ispirare lo svolgimento delle gare, ferma restando la discrezionalità del legislatore nell’approntare la normativa di riordino del settore, può ricordarsi che l’art. 12 della direttiva 2006/123 già contiene importanti criteri in grado di veicolare la discrezionalità del legislatore, imponendo, appunto, una “procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”, ma precisando anche che, “nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”.

[9] In questi termini M. A. Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, in Rivista Diritto e società.

[10] M. A. Sandulli, op. cit. 

[11] In questi termini F. Ferraro, Diritto dell’Unione europea e concessioni demaniali: più luci o più ombre nelle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria?, in Rivista Diritto e società.

[12] G. Morbidelli, Stessi spiagge stessi concessionari? , in Rivista Diritto e società.

[13] G. Carlomagno, B. Caravita di Toritto, La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime. Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma, in Rivista Diritto e Società.

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