giovedì, Aprile 25, 2024
Di Robusta Costituzione

Le costituzioni flessibili

Le costituzioni flessibili (brevi considerazioni sulle Carte francesi del 1814 e del 1830 e sullo Statuto albertino)

A cura di Livia Siclari

Le Costituzioni adottate nella prima metà dell’800 avevano molteplici caratteristiche in comune e – pur se oggi possono considerarsi superate dagli svolgimenti costituzionali che l’esperienza ha conosciuto tra il XIX ed il XX secolo – hanno costituito la base sulla quale si è sviluppato il costituzionalismo contemporaneo. In questa sede, ho focalizzato la mia attenzione sulle Carte costituzionali francesi del 1814 e del 1830 e sullo Statuto albertino. L’intento è quello di evidenziarne i tratti comuni, con particolare riguardo alla flessibilità, per apprezzare le diverse fortune che tali Costituzioni hanno avuto, anche in considerazione di contingenze storiche e giuridiche. Innanzi tutto, nel primo paragrafo verrà svolta un’analisi dei termini flessibilità e rigidità alla luce dei principali indirizzi dottrinari. In secondo luogo, seguiranno delle sintetiche considerazioni di carattere storico per meglio comprendere i contesti nel cui ambito le Costituzioni hanno avuto vigore. Gli ultimi tre paragrafi, infine, sono dedicati ciascuno ad una delle Costituzioni prese in considerazione onde esaminarne la sorte e, in particolare, il ruolo giocato dalla flessibilità nella loro storia. Il tutto per verificare l’affermazione espressa da Jacques Godechot nel suo contributo sulle carte costituzionali francesi, in base alla quale: “comme pour toutes Constitutions, la charte vaudra par l’usage qu’on en fera[1].

 

  1. – Flessibilità e rigidità

La classificazione delle Costituzioni come flessibili o rigide è un argomento che in passato è stato ampliamente analizzato dalla dottrina costituzionale e costituzionale comparata[2].

Il fondamento di tale distinzione poggia sulle modalità che i costituenti scelgono per esercitare il potere di revisione costituzionale:

  • una costituzione viene infatti considerata flessibile allorquando può essere modificata da uno dei poteri istituiti e regolamentati all’interno del testo costituzionale; in particolare si parla di costituzioni flessibili quando il potere legislativo è libero di modificare la Carta attraverso la procedura legislativa ordinaria;

  • invece, la costituzione si considera rigida qualora i poteri costituiti non dispongano di un potere autonomo di modifica ovvero se la procedura prevista per la revisione costituzionale è più complessa della procedura legislativa ordinaria.

Un esempio classico di costituzione flessibile è quello della Gran Bretagna, che, pur avendo una costituzione è composta da consuetudini non scritte e atti disposti dal parlamento, Bills e Acts, che, dal punto di vista procedurale, possono essere modificati, abrogati o emendati liberamente dal parlamento, secondo l’ordinario procedimento legislativo.

Vi sono due teorie principali che differiscono dalla dottrina maggioritaria in tema di flessibilità e rigidità delle costituzioni: da un lato quella di James Bryce, dall’altro quella di Alessandro Pace.

La distinzione tra Costituzioni flessibili e Costituzioni rigide è stata in particolare sistematizzata da James Bryce[3]. Secondo Bryce, il Parlamento ordinario non può modificare le Costituzioni rigide, la loro modifica è affidata ad un’autorità specifica e unica. Esistono, per questo autore, tre elementi differenziali della rigidità costituzionale:

  • l’unità costituzionale strumentale;
  • l’incidenza della Costituzione sulla forma di Stato e di governo;
  • la superiorità gerarchica delle leggi fondamentali o costituzionali sulle leggi ordinarie.

Sulla base della ricostruzione offerta da Bryce non è chiaro se l’esistenza di una procedura speciale di revisione sia essenziale per la caratterizzazione di una Costituzione come rigida: “Every Constitution Belonging to the category of  Rigid Constitutios enjoys an authority superior to the authority of other laws of the State – and can be changed only by a method different from that whereby those other laws are enacted or repealed”. Una Costituzione non può essere modificata dal Parlamento ordinario perché è rigida -e non il contrario. Il potere legislativo è, secondo Bryce completamente privo di competenza per la revisione della Costituzione e occorre ricorrere a organi di revisione distinti dal Parlamento (o di qualsiasi organo dotato del potere legislativo). In altre parole, la presenza di un processo di revisione specifico non è essenziale perché una Costituzione sia rigida.

Un’altra concezione è quella sostenuta in Italia da Alessandro Pace, che, pur ispirandosi a Bryce, esprime la tesi della rigidità “naturale” delle costituzioni scritte, indipendentemente dalla presenza o meno nel testo di procedure o organi specificamente incaricati[4] di modo che non si possa considerare il silenzio di una costituzione sul punto come un fattore che ne renda eternamente impossibile la revisione attraverso le procedure legislative ordinarie e, del pari, che il fatto che una costituzione contenga dichiarazioni di immutabilità non significhi che questa non sarà modificabile attraverso una procedura specifica. Pace aggiunge anche che le norme che regolano la revisione non costituiscono il fondamento della rigidità costituzionale ma solo la sua riconferma e che rischiano di provocare, paradossalmente, un indebolimento della rigidità stessa. E, di contro, le norme costituzionali che prevedono procedure specifiche di revisione possono rappresentare una garanzia per la Costituzione impedendone modifiche attraverso la legge ordinaria. Una Costituzione rigida, ma modificabile, può accogliere riforme corrispondenti alle nuove richieste politiche e sociali,. Comunque, la dottrina maggioritaria identifica sempre la rigidità della costituzione sulla base dell’esistenza di una clausola speciale che indica le modalità per effettuare una revisione.

Al contrario, il carattere della flessibilità dovrebbe riconoscersi alle costituzioni che non contengono una clausola di questo tipo. Anche a tal riguardo è dato rinvenire più di una corrente di pensiero. Secondo Alexis de Tocqueville, il silenzio della Costituzione sulle proprie procedure di riforma non può avere significato diverso da quello dell’immutabilità delle disposizioni costituzionali[5] L’assenza di un’apposita procedura di revisione è la semplice conseguenza logica del divieto di qualsiasi forma di revisione costituzionale[6]. Ma così diviene impossibile per il sistema costituzionale di tener conto delle trasformazioni imposte dal processo di evoluzione politica. Secondo un’opinione differente[7], l’assenza di una procedura di revisione implica che la costituzione possa essere modificata da una legge ordinaria. È però difficile immaginare che il potere costituente sovrano sia in grado di rispondere in perpetuo alle sollecitazioni e alle pressioni politiche, economiche e sociali che portano necessariamente alle riforme costituzionali. Ma l’intervento del potere legislativo ordinario alle quote del potere costituente originario comporta anche altri rischi, tra cui quello dello scioglimento della nozione di sovranità, di fatto condivisa tra il potere costituente e il potere legislativo istituito. Infine, l’assenza di una procedura di revisione deriva dal silenzio mantenuto dai costituenti su questo punto senza che vi sia per questo una condanna assoluta del potere di revisione. Sarà questo il caso delle Carte costituzionali francesi del 1815 e 1830 e dello Statuto Albertino in Italia (1848)[8], che, per diverse coincidenze storiche, di cui si dirà a breve, non disciplinarono espressamente il potere di revisione.

 

  1. 2. Il contesto storico della restaurazione francese

Con il termine “restaurazione” si individua il periodo storico corrispondente ai regni dei due fratelli di Luigi XVI: Luigi XVIII (1814-1824) e Carlo X (1824-1830). Si tratta del ritorno al trono, dopo la prima Repubblica e l’Impero, della linea diretta dei Borboni, i cui sostenitori formeranno per tutto il XIX secolo la corrente cosiddetta legittimista. Ma tra questi due regimi esiste un’importante differenza costituzionale. Non che la Carta “ritoccata” del 14 agosto 1830 apporti importanti cambiamenti rispetto a quella che l’aveva preceduta nel 1814; invero, non può propriamente definirsi una costituzione “ottriata”, frutto della sola volontà regia, ma è il risultato di un compromesso, non solo tra due principi di legittimazione – monarchico ed elettivo – ma tra due centri di potere – il monarca e la Camera eletta – [9]. Luigi XVIII trovò al suo ritorno dall’esilio una situazione tanto più delicata in quanto per la sconfitta militare subita della Francia. Tuttavia, in mancanza di soluzioni alternative, il popolo si rassegnò all’inevitabile ripristino della monarchia. Non si trattava di restaurare una monarchia assoluta come quella preesistente al 1789, gli alleati stessi si sarebbero opposti. In una dichiarazione pubblicata al loro ingresso nella capitale, i vincitori di Napoleone sottolineano che “riconosceranno e garantiranno la Costituzione che la nazione francese si darà”[10]. Il re diede prova di un istinto politico superiore a quello di molti dei suoi consiglieri. Fin dalla Dichiarazione di Saint-Ouen – 2 maggio 1814 – affermò, infatti, la sua volontà di mantenere le principali libertà proclamate dai testi rivoluzionari. Nonostante una terminologia deliberatamente arcaica e un preambolo decisamente ispirato ai tempi passati dell’Ancien Régime, la Carta costituzionale, concessa il 4 giugno, confermò questa volontà. Non fu neanche rimessa in discussione dall’episodio dei Cento Giorni che, anzi, in definitiva rafforzò la posizione del re. La Carta rimase quindi in vigore fino al 1830, e fu applicata in un senso piuttosto liberale da Luigi XVIII, cioè senza ricorrere all’articolo 14[11], che gli permetteva di legiferare tramite ordinanze “nel caso in cui giudicasse la sicurezza dello Stato minacciata”[12].

Solo nel 1828 si aprì un conflitto veramente irriducibile sull’interpretazione della Carta e sul senso del regime istituito nel 1814. La forma stessa del regime non era stata messa in discussione dopo il 1816. Sembrava ancora elastica e inesplorata. Carlo X, invece, era deciso a non applicare la Carta a meno che non avesse mantenuto i monarchici conservatori al potere. Quando le elezioni del 1824 diedero loro la maggioranza, fece accettare da Luigi XVIII, ormai moribondo, una legge che, nonostante l’articolo 37 [13]della Carta, consentiva che i deputati rimanessero in carica per sette anni.

Questa legge, beninteso, fu approvata dalla Camera, che, contemporaneamente, votò anche altre misure nettamente reazionarie12. Tali riforme si scontrarono però con una crescente opposizione; Carlo X ed il primo ministro Villèle credevano di ottenere una maggioranza rinforzata da nuove elezioni. La Camera venne sciolta il 5 novembre 1827 ma, contrariamente alle loro speranze, le elezioni portarono ad una conformazione più liberale del Parlamento. Carlo X dapprima cercò di accettare il suo ruolo di monarca parlamentare, accettò le dimissioni di Villèle e, rassegnato, affidò la presidenza del Consiglio ad un liberale, Martignac (5 gennaio 1828). Quest’ultimo riuscì a far approvare un certo numero di leggi d’impronta liberale, ma, messo in minoranza su una legge di riorganizzazione amministrativa, si dimise[14]. Questa volta Carlo X non tenne più conto dell’equilibrio delle forze e formò un nuovo governo monarchico e conservatore l’8 agosto 1829[15]. Questo ministero provocò nel paese una viva irritazione e si scontrò immediatamente con l’opposizione della Camera. I liberali seppero, nel novembre 1829, che gli ultras avrebbero tentato un colpo di Stato per modificare la Carta in senso conservatore o semplicemente ristabilire la monarchia assoluta. Tuttavia Charles X stava ancora cercando di fare appello al paese. Ma le elezioni di giugno e luglio 1830 erano , ancora una volta, sfavorevoli per gli ultras. Il re decise allora per il colpo di Stato e pubblicò quattro ordinanze contrarie allo spirito della Carta e tendenti a restituire il potere ai realisti.[16] Queste ordinanze, e la crisi economica che imperversava dal 1825, provocarono la rivolta a Parigi. Le “tre gloriose giornate” (27-29 luglio 1830) ebbero ragione della resistenza del re. Il 30 luglio, Thiers e Mignet redassero un Manifesto proponendo il Duca d’Orléans, “un principe devoto alla causa della Rivoluzione… il duca d’Orléans è un re cittadino… è dal popolo francese che otterrà la sua corona”. Quando il 31 luglio Luigi Filippo, duca d’Orléans, si recò all’Hôtel de Ville e il generale La Fayette, comandante della guardia nazionale parigina, lo accolse, Carlo X non potè che riconoscere il fatto compiuto. Ritirati a Rambouillet, lui e suo figlio abdicano, poi ripresero la via dell’esilio, quello dall’Inghilterra. La monarchia costituzionale entrava di colpo in una nuova fase della sua storia, che si tradusse giuridicamente in un nuovo testo costituzionale, la Carta del 14 agosto 1830. Non bisogna però enfatizzare le innovazioni apportate da questo testo rispetto alla Costituzione del 1814. In generale, il periodo 1814-1848 occupa solo un posto debole nella storia propriamente amministrativa. Le Carte non instaurarono, d’altra parte, alcuna rottura di ordine filosofico né consacrarono l’avvento di alcun grande principio politico nuovo (salvo forse quello della sovranità nazionale). Considerate sotto questi due aspetti, le Carte del 1814 e del 1830 occupano solo un posto secondario nella storia politica e costituzionale francese. La loro importanza va cercata altrove: esse hanno infatti lasciato alla Francia le basi effettive – pur se primordiali – del governo parlamentare, non cancellando del tutto il lascito giuridico della rivoluzione.[17]

 

  1. (Segue) La primavera dei popoli in Italia

Dopo la disfatta di Napoleone e il ritorno a Torino del re Vittorio Emanuele I, il 20 maggio 1814, una serie di editti cancellò completamente la legislazione francese e ristabilì l’efficacia delle precedenti fonti giuridiche del Regno di Sardegna: costituzioni del re, sentenze dei giudici del regno, statuti comunali, diritto comune romano canonico. speciali, reintegrato gli ex senati e reintroduceva le primogeniture e la fideiussione. Delle numerose riforme del regime precedente si salvano unicamente l’abolizione della tortura e la cancellazione del feudalesimo. Nel 1821 sollevazioni popolari obbligava Vittorio Emanuele I ad abdicare in favore del fratello Carlo Felice, ma poiché questo era fuori dal regno, il governo passava all’erede al trono, Carlo Alberto, che fu convinto dai liberali a concedere una costituzione. Quindi, adottò il 10 marzo – con poche modificazioni – la costituzione di Cadice del 1812. Ma Carlo Felice «senza por tempo in mezzo, con un secco proclama recapitato a rotta di collo in Torino da uno scudiero di Carlo Alberto già il giorno 18»[18] lo sconfessò, revocando tutte le concessioni fatte in sua assenza, e, battuti i liberali a Novara, mise fine, per il momento, all’esperienza costituzionale. Si sarebbe dovuto attendere il 1848 e nuove sollevazioni popolari di orientamento liberale per avere la concessione di una Costituzione. Fu di nuovo Carlo Alberto di Savoia, ormai re a pieno titolo, che la promise con il Proclama di Moncalieri dell’8 febbraio 1848. Il 4 marzo 1848 fu proclamato lo Statuto del Regno di Sardegna, così nominato riprendendo la tradizione delle fonti del diritto medievale degli antichi monarchi di Casa Savoia – come i Decreta seu Statuta de Amedeo VIII[19] – per sottolineare il carattere di carta costituzionale ottriata dal re, che decide liberamente di concederla e sottostarvi. Lo Statuto sarà profondamente ispirato alle Carte francesi del 1814 e 1830 (oltre che da quella belga del 1831, una carta che, pur se assoggettata a profonde modificazioni, è una delle poche sopravvissute tra quelle risalenti al XIX secolo), ma, contrariamente ad esse non avrebbe avuto vita breve, restando formalmente in vigore – sebbene modificato nella sostanza attraverso interventi successivi, anche taciti[20] – fino all’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana, il 1° gennaio 1948, dopo la caduta del regime fascista prima e della monarchia sabauda poi.

 

  1. La Carta francese del 1814

La Carta del 1814 fu preceduta da una Costituzione votata dal Senato imperiale e mai applicata. La Costituzione senatoriale tendeva ad introdurre una monarchia limitata, ma molto diversa da quella del 1791: ricordava, piuttosto, la monarchia parlamentare inglese. Il re, chiamato liberamente al trono dalla nazione, aveva il potere esecutivo, insieme con l’iniziativa e la sanzione delle leggi. Poteva scegliere i suoi ministri all’interno delle camere; tutte le sue azioni dovevano del resto essere sottoposte alla controfirma ministeriale. Di fronte a lui il Senato, composto da membri nominati dal re e inamovibili, e la Camera dei rappresentanti, eletta dalla nazione, sono investiti del potere legislativo. Tra il legislativo e l’esecutivo era prevista una stretta collaborazione. Se non può propriamente parlarsi di regime parlamentare vero e proprio, questo è almeno un abbozzo che vi si avvicina notevolmente. Questa calibrata Costituzione non fu però ricevuta con particolare entusiasmo, tutt’altro. Sebbene sia vero che gli autori avevano commesso il “torto” di inserirvi alcune disposizioni di un egoismo troppo visibile, come preservare le loro funzioni e conservare i loro trattamenti e privilegi. Molto abilmente, i monarchici – che non volevano una monarchia parlamentare – metteranno in evidenza queste misure, e ciò rese la Costituzione estremamente impopolare. Al suo ritorno in Francia, Luigi XVIII la rinnegò senza particolari difficoltà con la Dichiarazione di Saint-Ouen. Tuttavia, poiché i princìpi in essa contenuti erano fondamentali ed ormai irrinunciabili per i francesi, non poté fare altro che adottarli nello stesso documento e farne le basi della Carta del 1814[21]. La Dichiarazione di Saint-Ouen prevedeva che la Costituzione sarebbe stata elaborata dal re con il supporto delle Camere, tuttavia non precisava con quali modalità, né entro quali parametri, tale supporto si sarebbe estrinsecato. Il re aveva deciso quindi che lui stesso avrebbe scelto i membri di queste assemblee chiamate a redigere la Carta. Tra questi i commissari Montesquieu e Beugnot, che erano i principali autori del progetto senatoriale, assunsero subito un ruolo preponderante. Le discussioni più vivaci si concentrarono su quattro punti; 1) l’articolo relativo alla forma del governo, che i monarchici ritenevano inutile, in quanto ovvio; 2) gli articoli relativi alla religione: i commissari protestanti chiedevano l’instaurazione della libertà completa di culto; 3) l’articolo relativo alla libertà di stampa, giudicato troppo vago dagli uni e dagli altri; 4) gli articoli relativi alla vendita dei beni nazionali, poiché i monarchici erano ostili alla garanzia dell’inviolabilità della loro vendita. Invece, l’articolo 14, che assegnava al re il diritto di emettere le “ordinanze ritenute necessarie” e a lui rimetteva, date certe circostanze, un potere assoluto – causando la crisi politica che portò alle Tre Giornate Gloriose nel 1830 – non sollevò alcuna osservazione.[22] Luigi XVIII lo aveva redatto personalmente, ispirandosi all’articolo 41 della costituzione dell’anno VIII. Inoltre, non vi è traccia di alcuna discussione sulla modalità di revisione della Carta né, tanto meno, di un articolo per disciplinarla. Tale decisione è giustificata da motivazioni contingenti, ma anche dalla tradizione giuridica. In primo luogo, già le Costituzioni dell’anno VIII e X non disponevano nulla in proposito. Nella situazione di incertezza dell’epoca, ove da un lato si avvertiva la necessità di stabilità e dall’altro il desiderio di non rinunciare completamente alle conquiste liberali della rivoluzione, si evitò qualsiasi specificazione al riguardo[23]. In secondo luogo, la Carta doveva collocarsi – per Luigi XVIII e i realisti – all’interno della cornice giuridica dell’Ancien Régime, postulando, dunque, il rifiuto della rivoluzione e delle sue conseguenze. Lo stesso termine Carta sembrò il più adatto a trasmettere l’idea di concessione, la Carta è frutto della volontà regale, guidata dalla divina Provvidenza e concessa liberamente dal re ai suoi sudditi. Ciò giustifica il silenzio sulle modalità di revisione del testo. Essa trova la sua collocazione nel quadro delle leggi fondamentali del regno, per le quali non è prevista alcuna modalità di revisione[24]. Come riporta Alvazzi del Frate[25] la mancanza di una prescrizione per la sua revisione renderà possibile modificare la Carta per legge ordinaria, facendone una costituzione flessibile. Per Godechot è il preambolo la parte del testo che maggiormente rende lo spirito della restaurazione, ricorda le ordinanze promulgate dai re di Francia come Luigi IV e Luigi XVI. Per lo stesso motivo la Carta fu datata al diciannovesimo anno del regno di Luigi XVIII, era lui diventato re direttamente dopo la morte del fratello sulla base del principio monarchico “Il morto afferra il vivo; il re è morto, vive il re”. Anche questa datazione osservava che la carta era concessa dalla volontà reale e non discussa, votata e accettata dal popolo francese e dai suoi rappresentanti. Ma Godechot constata anche che, a parte il preambolo, la Carta è sulla linea di precedenti costituzioni francesi. Si sforza di rimediare ai loro difetti ispirandosi – su richiesta espressa di Luigi XVIII – alle istituzioni britanniche. E, anche senza istituire formalmente, in Francia, il regime parlamentare non ne permette l’introduzione. La Carta è infine un compromesso tra alcuni principi del vecchio regime (l’autorità del re tenuto dalla divina Provvidenza”, la forma concessa) e molti principi della Rivoluzione. Garantisce l’uguaglianza davanti alla legge, davanti alle imposte e nell’ammissione all’occupazione, la libertà di coscienza, dei culti (benché il cattolicesimo sia dichiarato religione di Stato), della stampa (con riserva del rispetto delle leggi che potrebbero essere votate in proposito) la vendita dei beni nazionali. Si sforza di riconciliare i francesi promettendo l’oblio di ogni atto intervenuto dal 1789 e mantenendo l’istituzione della Legion d’onore. Uno dei difetti della Carta sarà, con l’eccessivo potere direzionale dato al re dall’art. 14, il mantenimento rafforzato del sistema elettorale della Costituzione dell’anno X. Ciò dava lo status di elettore solo ai più abbienti, pagando un elevato censo e avendo almeno 30 anni. E per essere eleggibili era necessario essere ancora più facoltosi! D’altra parte, le Camere vennero affidati poteri molto rilevanti. Comunque, secondo Godechot, nonostante le forme volutamente arcaiche, la Carta del 4 giugno 1814 può considerarsi molto più liberale delle Costituzioni dell’anno VIII, X e XII, e più pratica di quella del 1791. L’autore sostiene che sarebbe stato sufficiente modificare le condizioni dell’elettorato attivo e passivo per farne una costituzione democratica[26].

 

  1. La Carta francese del 1830

La Carta del 1814 era un compromesso tra liberali e realisti che aveva scontentato entrambi. Per i liberali era un minimo che andava sviluppato, per i realisti era un massimo che doveva essere limitato. Si è già visto che il tentativo di colpo di Stato realista, perpetrato dal re Carlo X fu sconfitto nel 1830 da nuove sollevazioni liberali che portarono alla redazione di una nuova Carta. “Dans cette absence de tout pouvoir public, le cœur de mes concitoyens s’est tourné vers moi ; ils m’ont jugé digne de concourir avec eux au salut de la patrie ; ils m’ont invité à exercer les fonctions de Lieutenant-Général du royaume. Leur cause m’a paru juste, les périls immenses, la nécessité impérieuse, mon devoir sacré. Je suis accoru au milieu de ce vaillant peuple, suivi de ma famille et portant ces couleurs qui, pour la seconde fois, ont marqué parmi nous le triomphe de la liberté”[27]: con queste parole Louis-Philippe duca d’Orléans spiegò le ragioni della sua risposta affermativa all’invito dei suoi connazionali. Non potendo legittimamente appellarsi al principio dinastico, dato che il trono era vacante a causa di una rivoluzione, il re venne di fatto incoronato dai deputati, con la collaborazione, priva d’entusiasmo dei nobili. Prestò giuramento solenne il 9 agosto sul testo della Carta che venne promulgata il 14 agosto 1830, e fu poi proclamato “re dei francesi”. Questa nuova Carta era il risultato di una rielaborazione in senso liberale della Carta del 1814, ed era ancora più breve di quella precedente. Parlare di revisione sarebbe eccessivo. Come si è detto, non c’era una procedura specifica prevista per modificare la Carta del 1814, la regolarità giuridica imponeva tuttavia di seguire la procedura legislativa ordinaria per modificarla, e prevedeva il concorso del re e delle due Camere. Tuttavia l’unica legittimata a dettare la sue volontà era la Camera dei deputati, in quanto unica a beneficiare di un carattere rappresentativo, anche se limitato. Il re e la Camera dei Pari non ebbero altra scelta che aderire al testo che proponeva[28]. Non si può propriamente considerare come una Carta ottriata, ricorda più un patto, tra Camera dei deputati e re, al quale il re si sottomette volontariamente. Anche se quantitativamente ridotte, le differenze rispetto alla Carta del 1814 denotano un cambiamento di spirito apprezzabile. Ogni legame veniva rotto con l’Ancien Régime dalla soppressione del Preambolo del 1824. Il nuovo Preambolo è tanto semplice quanto significativo: “Louis-Philippe, roi des Français, à tous présents et à venir, Salut. Nous avons ordonné et ordonnons que la Charte constitutionnelle de 1814, telle qu’elle a été amendée par les deux Chambres le 7 aout et acceptée par nous, soit de nouveau publiée”. Il nome del re – Luigi Filippo I e non Filippo VII – e il suo titolo di “re dei francesi”e non “re di Francia”, il riconoscimento del potere costituente delle Camere sono tutti segni rivelatori della rottura con la monarchia precedente. Anche se per Duverger, che ritiene che la Carta modifichi solo dettagli irrilevanti, si dovrebbe parlare più di un cambiamento di dinastia piuttosto che un cambiamento di regime, questa innovazione nella concezione della monarchia e della Costituzione è sicuramente significativa.

Con l’art. 67, il tricolore viene ristabilito come bandiera della Francia, nell’art. 6 la religione cattolica cessa di essere la religione di Stato e diventa la religione “professata dalla maggioranza dei francesi”. È ancora previsto dall’art 7 che “la censura non potrà mai essere ripristinata”. La possibilità per il re di legiferare con ordinanze quando la “sicurezza dello Stato è in causa” è ritirata dall’art. 14; il re potrà soltanto fare ordinanze “per l’esecuzione delle leggi”senza mai “poterle interpretare né sospenderle”. L’art. 66 affidava la Carta al patriottismo e al coraggio della guardia nazionale ed a“tous les citoyens français”, inciso volto a rimarcare la sovranità popolare. Le Camere furono investite, parimenti al re, dell’iniziativa legislativa e tutte le sedute delle due Camere divennero pubbliche. Infine, l’articolo 69 preannunciava l’approvazione nell’immediato futuro di leggi organiche su varie materie[29]. Si resta lontani dal suffragio universale: la Carta sopprime il doppio voto e abbassa il censo da 300 a 200 franchi per gli elettori, e da 1000 a 500 franchi per gli eleggibili. Queste riforme non garantiranno più di duecentomila elettori su una popolazione di 30 milioni di abitanti[30]. Se il testo stesso della Carta non presentava grande interesse, la sua applicazione pratica sarebbe stata, invece, della massima importanza nella storia costituzionale francese: essa segnò, infatti, la prima introduzione completa del regime parlamentare. Il governo divennne un corpo omogeneo sotto la direzione e l’autorità del Presidente del Consiglio; la pratica dell’interpellanza davanti alle Camere era destinato a svilupparsi; nel silenzio della Carta stessa, la responsabilità politica dei ministri non ebbe più difficoltà ad affermarsi. Parlando di silenzio, ancora una volta, la Carta tace sulla questione della revisione[31]. Tuttavia, l’art 67 prevedeva un nuovo esame dell’art 23[32], ed una consequenziale modifica attraverso legge ordinaria si sarebbe avuta il 29 dicembre 1831[33] Ad avviso di chi scrive, è per raffermare la legittimazione del potere costituente esercitato che la Camera dei deputati del 1830 non dispose una procedura di revisione aggravata.

La Carta del 1830, come quella del 1814, rappresentava un nuovo compromesso, ma questa volta tra il programma repubblicano e quello dei monarchici costituzionali. Sarebbe stata poi la sua applicazione in concreto, come era già stato per quella del 1814, a segnare le sorti del regime.

 

 

  1. LoStatuto albertino

Nel medesimo anno in cui la Carta del 1830 veniva sostituita dalla Costituzione repubblicana del 1848 in Francia, il monarca Carlo Alberto di Savoia stava per concedere lo Statuto del Regno di Sardegna, meglio noto come Statuto Albertino. Si è già detto di come il termine Statuto fosse stato scelto per sottolineare il fatto che si trattasse di una “concessione” del re ai suoi sudditi, la parola Costituzione era infatti evocativa dell’esperienza rivoluzionaria francese. L’incipit del Preambolo conteneva la vera essenza del carattere patriottico e paternalista con cui era stata concepita dal re questa Carta ottriata: “Con lealtà di Re e con affetto di Padre”. Lo Statuto era stato fortemente voluto da Carlo Alberto, accolto dubbiosamente dai suoi consiglieri, infine sarà apprezzato per la sua intrinseca importanza nella costruzione di una narrazione nazionale unificante, divenendo un simbolo della guerra d’indipendenza, della concordia del regno e dell’Italia unita[34]. Molto ispirato dalle Carte francesi del 1814 e 1830 (e in misura più limitata, dalla Carta belga del 1831, lo Statuto è una Costituzione breve, che enuncia i diritti fondamentali dei cittadini e definisce il sistema istituzionale del regno. La funzione legislativa era condivisa dal re e dalle due Camere: Senato e Camera dei deputati (art. 3). La direzione dell’esecutivo, d’altro canto, era prerogativa reale (art. 5). Enunciava ancora la libertà di stampa (art. 28) – benché una legge ne avrebbe punito gli abusi – l’eguaglianza dei soggetti davanti alla legge (art 24), la libertà dei culti diversi dal cattolico in conformità alla legge – pur ribadendo il carattere di sola religione dello Stato della religione cattolica apostolica e romana (art 1) –. Lo Statuto avrebbe costituito la legge fondamentale italiana per quasi cento anni, per contingenze storiche, naturalmente, ma anche grazie alla sua adattabilità (anche se proprio la considerazione della sua eccessiva adattabilità – che, certo, non impedì l’affermarsi del regime fascista – indusse l’Assemblea costituente della Repubblica ad introdurre nella vigente Costituzione italiana le garanzie costituzionali e del giudizio sulle leggi). Limitandosi alle materie essenziali e mantenendo il suo contenuto generale e indeterminato, la Carta rese possibile l’emanazione di leggi e di prassi derogatorie.

Tuttavia, poiché lo Statuto non contiene alcuna previsione di uno speciale procedimento per la sua revisione costituzionale, vi era una parte della dottrina che inizialmente leggeva nella prescrizione finale del preambolo “abbiamo ordinato, e ordiniamo in Forza di Statuto e Legge Fondamentale, Perpetua e irrevocabile della Monarchia” come divieto di qualunque forma di revisione. Ma pare preferibile l’opinione in base alla quale solo l’atto unilaterale di concessione dello Statuto fosse irrevocabile e non modificabile, vale a dire che il re non avrebbe potuto intaccare legittimamente i limiti introdotti riguardo alle precedenti prerogative. Questa lettura è facilitata dalla struttura stessa di diversi articoli dello Statuto che, dopo aver dettato la disciplina generale in materia, assegnavano alle leggi ordinarie successive il compito di svilupparla in conformità alle diverse esigenze che sarebbero sopravvenute ed adattandosi ai tempi. Così l’elettorato attivo si è potuto allargare e diventare universale, ed il sistema elettorale cambiare più volte, grazie al rinvio ad una legge ordinaria per regolarlo, limitandosi a stabilire l’art 39 che “La Camera Elettiva è composta da deputati scelti dai Collegi Elettorali conformemente alla legge”. Un altro esempio della flessibilità dello Statuto è dato dalle prassi successive, che si sono facilmente adottate quando era in vigore, senza necessità di modificarne il testo. È il caso dei poteri normativi ordinari esercitati dal governo, senza consultare il parlamento. O ancora la prassi parlamentare di votare la fiducia al governo.

Tuttavia, come già si è osservato, lo Statuto non ha costituito un argine all’affermarsi di un regime autoritario, e non a caso la rigidità che caratterizza la Carta costituzionale repubblicana può considerarsi uno dei principi supremi dell’attuale ordinamento italiano[35].

[1] J. Godechot, Les constitutions de la France depuis 1789, Paris, 1995.

[2] Per una trattazione diffusa degli argomenti esaminati in questo paragrafo si rimanda a F. Moderne, Réviser la Constitution : analyse comparative d’un concept indéterminé, Paris, 2006.

[3] J. Bryce, Flexible and Rigid Constitutions, Studies in History and Jurisprudence, Oxford University Press, 1901, vol. I, p 124-213. L’articolo è il risultato della trascrizione e sintesi di due distinte conferenze tenute da Bryce nel 1884.

 

[4] Si v., in particolare, i saggi contenuti nel volume di A. Pace, Potere costituente, rigidità costituzionale, auto vincoli legislativi, 2ª ed., Padova, 2002.

[5] A. De Tocqueville, La democrazia in America (trad. it. a cura di G. Candeloro), Milano, 1982, 103, 180 s.

[6] In tal senso, Hildeshemeir, Uber die Revision modernen, Staatverfassungen, Turbingen, 1918, citato da F. Moderne, Op. cit.

[7] Quale quella di. Thiers e di F. Guizot in Francia.

[8] F. Moderne, Op. cit.

[9] M. Morabito, Histoire constitutionnelle de la France : de 1789 à nos jours, 13e éd., Mayenne, 2014.

 

[10] P. Rosanvallon, La monarchie impossible: les chartes du 1814 et 1830, Paris, 1994.

[11] Art. 14 Il re è il capo supremo dello Stato, comanda le forze di terra e di mare, dichiara guerra, fa i trattati di pace, di alleanza e di commercio, nomina a tutti gli incarichi di amministrazione pubblica, e concede i regolamenti e le ordinanze necessari per l’esecuzione delle leggi e la sicurezza dello Stato.

[12] Le ordinanze del 24 luglio 1815 che revocavano i pari e che compilavano le liste di proscrizione erano le uniche eccezioni, per via dell’opinione pubblica.

[13] Art 37 – I deputati saranno eletti per cinque anni e in modo che la Camera sia rinnovata ogni anno per quinto.

[14] L’indennizzo per gli emigrati le cui proprietà erano state vendute come beni nazionali, il ripristino (entro limiti molto stringenti) del diritto di primogenitura, una legge che punisce il sacrilegio, una legge che limita seriamente la libertà della stampa periodica.

[15] Il principe di Polignac diventava presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Bourmont che aveva tradito Napoleone alla vigilia di Waterloo, riceveva il portafoglio della guerra, il conte de La Bourdonnaie, artefice della vicenda della “camera introvabile”del 1815, otteneva l’Interno.

[16] La prima comportava la soppressione della libertà di stampa, nessun giornale poteva più essere pubblicato senza una nuova autorizzazione. La seconda dichiarava lo scioglimento della Camera appena eletta. La terza modificava la legge elettorale: solo il contributo fondiario poteva essere preso in considerazione per la fissazione del censo elettorale, solo i prefetti avrebbero stabilito la lista degli elettori e la avrebbero pubblicata solo cinque giorni prima delle elezioni, le votazioni avrebbero avuto luogo a scrutinio aperto. La quarta ordinanza fissava le elezioni per il 6 e 13 settembre di quell’anno.

[17]P. Rosanvallon, Op. cit.

[18] P. Colombo, Con lealtà di Re e con affetto di padre, cit.,  pagg. 15 s.

[19]P. Alvazzi Del Frate, Il costituzionalismo moderno, Torino, 2007, pag 60.

[20] Per una sintetica ricognizione dei mutamenti costituzionali in deroga allo Statuto, v. utilmente, P. Colombo, Con lealtà di Re e con affetto di padre, cit., pagg. 138 ss., ove, peraltro, si contesta la diffusa opinione che in vigenza di Statuto si fosse affermato un regime parlamentare a scapito della monarchia costituzionale prevista dalla lettera della Carta.

[21] M. Duverger, Les Constitutions de la France, 10e éd, Paris, 1983.

[22] J. Godechot, Op. cit.

[23] P. Rosanvallon, Op. cit.

[24] M. Morabito, Op. cit.

[25] P. Alvazzi del Frate, Il Costituzionalismo moderno, pag 56.

[26] J Godechot, Op. cit., pag 214.

[27] Citato da Le Duc D’Orleans, Souvenirs 1810-1830 (édité par H. Robert), Paris 1993, pag. 337, nt. 599.

[28] M. Morabito, Histoire constitutionnelle de la France: de 1789 à nos jours, 13e éd, Mayenne 2014.

[29] Art. 69 – Il sera pourvu successivement par des lois séparées et dans le plus court délai possible aux objets qui suivent: 1° L’application du jury aux délits de la presse et aux délits politiques; 2° La responsabilité des ministres et des autres agents du pouvoir; 3° La réélection des députés promus à des fonctions publiques salariées; 4° Le vote annuel du contingent de l’armée; 5° L’organisation de la garde nationale, avec intervention des gardes nationaux dans le choix de leurs officiers; 6° Des dispositions qui assurent d’une manière légale l’état des officiers de tout grade de terre et de mer; 7° Des institutions départementales et municipales fondées sur un système électif; 8° L’instruction publique et la liberté de l’enseignements; 9° L’abolition du double vote et la fixation des conditions électorales et d’éligibilité.

[30] M. Duverger, Les Constitutions de la France, 10e éd, Paris 1983.

[31] Art. 68 – Toutes les nominations et créations nouvelles de pairs faites sous le règne du Roi Charles X sont déclarées nulles et non avenues – L’article 23 de la charte sera soumis à un nouvel examen dans la session de 1831.

[32] Art. 23 – “La nomination des pairs de France appartient au Roi. Leur nombre est illimité : il peut en varier les dignités, les nommer à vie ou les rendre héréditaires, selon sa volonté.”

[33] Loi 29 dicembre 1831, art. 1 : “La nomination des membres de la chambre des pairs appartient au roi, qui ne peut les choisir que parmi les notabilités suivantes”.

[34] Cfr. L. Rossi, La “elasticità” dello statuto italiano, da: Scritti giuridici in onore di Santi Romano, Padova 1939.

 

[35] Cfr., ad es., F. Modugno, Ricorso al potere costituente o alla revisione costituzionale?, in Giur. It., 1998, IV.

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