giovedì, Marzo 28, 2024
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Le Mafie e la Chiesa: analisi criminologica di un rapporto controverso

Nel 1997 le forze dell’ordine dopo aver fatto irruzione nel covo del boss Pietro Aglieri – pezzo grosso dei vertici di Cosa Nostra, nonché uno dei mandanti per le stragi di Capaci e di via D’Amelio – trovarono una piccola cappella privata: sei panche, altarino con un grande crocifisso ligneo e due statue in gesso di Cristo e della Madonna [1]. Nella lingua siciliana, la Punciuta (puntura) indica il rito di iniziazione dei membri di Cosa nostra: la persona da iniziare viene condotta in una stanza alla presenza di tutti i componenti della Famiglia; l’iniziato, puntosi sull’indice della mano con una apposita spilla o con una spina d’arancio, giura fedeltà a Cosa nostra imbrattando col sangue una immaginetta sacra, per poi bruciarla – «giuro di essere fedele a cosa nostra. Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento» [2]. Nella Camorra l’iniziazione avviene sempre con la puntura, ma, in questo caso, l’immagine usata è quella della Madonna di Pompei: tutti i presenti baciano l’immaginetta, l’omissione di questo passaggio da parte anche di uno solo dei partecipanti preclude all’iniziato l’accesso dell’organizzazione [3]. Nel 2010 il parroco di Sant’Onofrio annullò il tradizionale rito pasquale dell’affruntata a causa della presenza di esponenti della criminalità organizzata calabrese tra i portatori della statua della madonna: a seguito di questa decisione il parroco ricevette sì larga solidarietà, ma anche numerose intimidazioni [4].

Il rapporto tra le Mafie e la Chiesa Cattolica – intendendosi per “chiesa cattolica”, ai fini dell’analisi in questione, il culto cattolico in generale – può sembrare un accostamento azzardato, sicuramente controverso, ma non del tutto impensabile. A primo impatto sembra illogico, quasi contraddittorio, rapportare una fede fondata sull’amore (e sull’espresso dettame di “non uccidere”) a delle organizzazioni sanguinarie, eppure le mafie in generale curano con particolare minuzia i simboli e le pratiche della religione cattolica, dal rito del battesimo fino ai funerali. I gruppi mafiosi si qualificano tendenzialmente per la capacità di radicarsi nel territorio, disponendo delle risorse economiche e delle attività politico-istituzionali, ricercandone però il consenso sociale, essendo specialisti «della violenza e delle relazioni sociali» [5]. Cercano continuamente una legittimazione ed una appartenenza alla cultura del luogo che deriva dalla partecipazione ai riti ed alle cerimonie religiose: proprio per questo non si conoscono esempi di mafiosi atei, salvo il caso di Matteo Messina Denaro [6]. Mediante l’uso di linguaggio evocante l’elemento spirituale, la partecipazione attiva e soprattutto visibile alle feste religione, l’assunzione di ruoli di rilievo nelle medesime feste e nei riti religiosi stessi, il mafioso legittima la propria posizione di dominio all’interno della comunità locale, garantendosi così la signoria territoriale.

La Chiesa ha aderito tendenzialmente in ritardo alla battaglia antimafia, il motivo di questo intervento tardivo è da attribuirsi non solo alla sottovalutazione del fenomeno mafioso quanto anche al condizionamento socio-culturali di stampo strettamente conservatore che marchiava la vita dell’epoca, dove la non reazione era frutto di una opposizione a qualsivoglia cambiamento di potere; dove ridottissime erano le quote di interventi episcopali [7].

Un esempio eclatante del rapporto ambiguo tra clero e mafie è rappresentato dal caso di Mario Frittitta: frate carmelitano arrestato negli anni ’90 con l’accusa di favoreggiamento del boss Pietro Aglieri, condannato in primo grado e poi assolto nei giudizi successivi. Frittitta non ha mai negato d’aver frequentato per un certo periodo il covo di Aglieri, derivando da questo comportamento l’accusa di averne favorito la latitanza; il frate si è giustificato adducendo come ci fosse la necessità degli uomini di chiesa di interloquire con le persone e soprattutto con i boss di mafia, proprio per favorirne la purificazione. Più che la vicenda giudiziaria e la motivazione del Frate molti studiosi hanno eccepito come il problema fosse rappresentato dall’aver trasmesso all’opinione pubblica un messaggio errato di vicinanza e comprensione verso il capomafia [8]

Negli anni Settanta a Palermo, nel periodo di coesione maggiore tra mafia ed imprenditoria, il Cardinale Ruffini, di fronte alla furia mafiosa che si ripercuoteva quasi a cadenza giornaliera per le strade siciliane, ha sostenuto continuamente come la mafia fosse, in realtà, una “creazione dei comunisti”, evitando ogni riconoscimento ed individuazione del fenomeno.

Ma la storia dei rapporti tra le Mafie e la Chiesa non è solo segnata da questi casi, passati, di coesistenza dei sistemi: dietro questo rapporto, inizialmente nato quasi da una esigenza di sopportazione, prudenza e conformazione territoriale, emerge col tempo un filone di protesta, di contrasto del fenomeno, di rifiuto, di tutela: è con il Cardinale Pappalardo che è iniziato il filone di denuncia ferma e aperta della violenza mafiosa, favorendo il riacquisto della dignità mortificata dagli atteggiamenti di complice prudenza. [9] Ai funerali di Boris Giuliano, nella così detta «messa antimafia», si rivolse direttamente ai mafiosi, dicendo: «Il profitto che deriva dall’omicidio è maledetto da Dio e dagli uomini e quand’anche riusciste a sfuggire alla giustizia degli uomini, non riuscireste a sfuggire a quella di Dio». Il 4 settembre 1982 ai funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa, dinnanzi agli uomini di politica presenti: «La mafia è un demone dell’odio, l’incarnazione stessa di Satana. Si sta sviluppando una catena di violenza e di vendette tanto più impressionanti perché, mentre così lente e incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti, quanto mai decise, invece, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti a colpire. Sovviene e si può applicare una nota frase della letteratura latina: Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur; mentre a Roma ci si consulta, la città di Sagunto viene espugnata. Sagunto è Palermo. Povera la nostra Palermo! Come difenderla?».  L’”omelia – così poi denominata – di Sagunto” ha segnato una svolta nella storia della lotta alla mafia, a rappresentazione del potere che anche il contrasto religioso, spirituale e sociale può avere nella lotta alla malavita.

Dopo qualche giorno dalla omelia di Sagunto, in virtù del terremoto sociale conseguente alla morte di Dalla Chiesa, è stata approvata la legge n. 646/1982, meglio conosciuta come legge Rognoni-La Torre, con la quale viene introdotto il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso nel codice penale italiano; ha inizio, quindi, la lotta alla mafia, per come è conosciuta e riconosciuta oggi. «Occorre spezzare il legame esistente tra il bene posseduto ed i gruppi mafiosi, intaccandone il potere economico e marcando il confine tra l’economia legale e quella illegale», dietro le parole dell’on. Pio La Torre si nasconde la ratio della legge in questione: colpirle nelle ricchezze e nei patrimoni accumulati le mafie: togliere loro le ricchezze economico-finanziare significava dunque indebolirle e diminuirle nel prestigio [10]. All’art. 1 della l. n. 642/1982 si definisce l’associazione a delinquere di stampo mafioso, prevedendo come «l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali», mentre all’art. 1.7 si è disposto il sequestro e la confisca nei confronti del condannato delle cose che sono servite o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego.

Un movimento, quello dell’antimafia, nato tra il fervore sociale, spinto da forze non solo politiche, ma anche ideologiche, fatto di grandi figure provenienti dai più svariati ambienti, anche clericali: oltre il caso Pappalardo citato, necessario è sottolineare i nomi di Pino Puglisi e di don Peppino Diana, simbolo del clero impegnato contro le mafie e disposto a sacrificare le proprie vite pur di non indietreggiare. Ad oggi tanti sono i sacerdoti impegnati nella lotta sociale: da don Pino de Masi (esponente di Libera) a don Giacomo Panizza [11]: figure che hanno il pregio di spostare l’impegno contro la mafia dal piano teorico a quello pratico e concreto, mediante una azione quotidiana di prevenzione e recupero svolto nei luoghi più pericolosi, esposti e fragili del territorio.

[1] Di notevole apporto allo svolgimento dell’analisi in questione è l’approfondimento “I mafiosi e la religione” con Alberto Melloni di Roberto Fagiolo, in Rai storia.

[2] Sul punto P. Grasso e A. La Volpe, Per non morire di mafia, Milano, 2009.

[3] Sul punto R. Saviano.

[4] Cfr. N. Fiorita, Mafie e Chiesa, in Rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 24 settembre 2012.

[5] Così R. Sciarrone, Mafie, relazioni e affari nell’area grigia, in R. Sciarrone (a cura di), Alleanze nell’ombra, Roma, 2011.

[6] Sul punto E. Cicconte, Storia criminale, Soveria Mannelli, 2008.

[7] Sul punto uno dei primi autori ad occuparsi del rapporto tra chiesa e mafie, M. TEDESCHI in Vecchi e nuovi saggi di diritto ecclesiastico, Milano, 1990.

[8] Cfr. A. Dino, La mafia devota, Bari, 2008.

[9] Sul punto P. Grasso, Mafia e devozione. Il lungo silenzio della Chiesa prima dello strappo, 2009.

[10] Sul punto Legge Rognoni – La Torre, in wikimafia.it

[11] G. Foffi., G. Panizza., Qui ho conosciuto Purgatorio, inferno e paradiso, Milano, 2011.

Antonio Esposito

Dottore in Giurisprudenza, laureato presso la Federico II di Napoli: si occupa prevalentemente di Diritto Penale e Confessionale. Sviluppa la propria tesi di laurea intorno all'affascinante rapporto tra fattore religioso e legislazione penale (Italiana ed Internazionale), focalizzandosi su argomenti di notevole attualità quali il multiculturalismo, il reato culturalmente motivato e le "cultural defense".

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