venerdì, Aprile 19, 2024
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La questione delle mutilazioni genitali femminili nel diritto internazionale

Le mutilazioni genitali femminili sono una pratica tradizionale, ancora oggi, largamente effettuata in moltissimi paesi dell’Africa e, in misura minore, dell’Asia e del Medio Oriente. Tali pratiche sono al centro di un sempre più acceso dibattito in merito alla loro compatibilità con i diritti umani: dovrebbero essere universalmente vietate o considerate parte di rituali tradizionali?

Secondo l’OMS, nella definizione di mutilazioni genitali femminili rientrano tutte le forme di rimozione parziale o totale dei genitali femminili esterni o altre modificazioni indotte agli organi genitali femminili, effettuate per ragioni culturali o altre ragioni non terapeutiche. [1]

La loro classificazione distingue quattro principali tipologie di mutilazione, in base alla loro gravità:

  • Clitoridectomia (Parziale o totale rimozione del clitoride);
  • Escissione (Parziale o totale asportazione del clitoride e delle piccole labbra, con o senza escissione delle grandi labbra);
  • Infibulazione (Restringimento dell’orifizio vaginale con la creazione di una chiusura creata tagliando e avvicinando le piccole labbra e/o le grandi labbra, con o senza l’escissione del clitoride);
  • Tutte le altre procedure dannose per gli organi genitali femminili eseguite per ragioni non terapeutiche (punture, perforazioni, incisioni, cauterizzazione, allungamento per trazione, introduzione di sostanze nocive e corrosive o di erbe a scopo di restringimento).

Queste categorie, tuttavia, sono solo approssimative: a causa delle precarie condizioni in cui vengono svolti gli interventi (utilizzando lamette, coltelli, frammenti di vetri o altri oggetti taglienti, senza anestesia), le conseguenze sulle pazienti risultano di volta in volta differenti.  A un intenso dolore iniziale possono seguire emorragie, infezioni alle vie urinarie, lesioni agli organi interni, anemia e malnutrizione. Inoltre, durante il parto quasi sempre si presentano complicazioni e la mortalità infantile è molto più elevata. Anche la salute psicologica delle ragazze spesso viene lesa e, infine, la morte è una delle conseguenze peggiori (il numero delle vittime è sconosciuto).

Attualmente nel mondo circa 140 milioni di donne hanno subito una mutilazione genitale e ogni anno altri 3 milioni si aggiungono a questo numero già incredibilmente elevato. Queste pratiche sono diffuse principalmente in Africa, dove le percentuali più elevate si raggiungono in Somalia, Guinea, Egitto, Eritrea, Mali, Djibouti, Sierra Leone e Sudan (oltre il 90% delle donne tra i 15 ed i 49 anni), oltre che in altri Paesi come India, Iraq, Yemen, Israele, Malesia, Thailandia e Indonesia.

Il problema principale che impedisce di osteggiare propriamente le MGF tramite il diritto internazionale è che, in realtà, queste pratiche riscuotono un forte sostegno nelle comunità in cui vengono attuate. Le stesse donne che le hanno già subite durante l’infanzia desiderano che le proprie figlie vi siano sottoposte, in quanto il rituale conferisce uno status sociale, rispetto, riconoscimento pubblico e integrazione con la società di appartenenza. È, infatti, un vero e proprio rito di iniziazione e di passaggio verso l’età adulta e anche un modo per contraddistinguere l’identità sessuale della donna: la credenza più diffusa è che la donna diventi più docile e fedele nei confronti del marito, grazie all’assopimento del suo desiderio sessuale (in realtà diminuisce solo la sensibilità della zona, ma il desiderio, che deriva dalla psiche no). Giocano, dunque, un ruolo di primo piano le forti pressioni sociali e il senso di inadeguatezza nei confronti della società, derivanti da un eventuale rifiuto di adeguarsi alla tradizione.

In considerazione di ciò, tuttora le MGF non sono universalmente riconosciute come violazione dei diritti umani. Un’ulteriore motivazione è la quasi totale assenza di testi a livello internazionale legislativo a riguardo. È proprio questo uno degli obiettivi delle Nazioni Unite e di molte altre organizzazioni internazionali territoriali come l’Unione Africana e l’UE: tramite Convenzioni, Dichiarazioni e Risoluzioni opporsi a qualsiasi procedimento lesivo per la donna.

In primis, nella Carta Africana dei Diritti dell’Uomo del 1986, adottata dall’Organizzazione dell’Unità africana (OAU), l’odierna Unione Africana (AU), l’articolo 18 comma 3 riguarda la condizione femminile e impone agli Stati di: “[..] provvedere all’eliminazione di qualsiasi discriminazione contro la donna e di assicurare la protezione dei diritti della donna e del bambino quali stipulati nelle dichiarazioni e nelle convenzioni internazionali [..]”. [2] Nel 2003, dopo un incontro in Mozambico, 53 stati africani hanno adottato il “Protocollo per i Diritti delle Donne in Africa” (Protocollo di Maputo) [3], che protegge e rafforza il ruolo della donna oltre a sottolineare l’importanza dell’eliminazione delle pratiche tradizionali dannose per le donne. Fino ad ora firmato da 42 paesi dell’Unione Africana e ratificato da 20, condanna formalmente per la prima volta tutte le pratiche tradizionali lesive dell’integrità fisica e psichica delle donne, come le mutilazioni genitali femminili (art. 5). [3]

In più, si può ritenere che tali pratiche ledano indirettamente una serie di diritti umani riconosciuti dalla comunità internazionale: il diritto alla non discriminazione,  in quanto le mutilazioni sono simbolo della disuguaglianza delle donne rispetto agli uomini (Dichiarazione Universale sui Diritti Umani [4], CEDAW [5], General Recommendation n. 14 sulla Female Circumcision [6]); il diritto alla vita e alla sopravvivenza, ogni qual volta una bambina o una donna muoiano a seguito del rituale (art. 6, Patto sui Diritti Civili e Politici [7]);  il diritto alla libertà ed alla sicurezza della propria persona  (art. 3, Dichiarazione Universale sui Diritti Umani); il diritto all’integrità di donne e bambine (Convenzione sui Diritti dell’Infanzia (CRC) del 1989 [8]) dato che, nella maggior parte dei casi, le MGF vengono effettuate su minori la cui crescita psicologica viene profondamente modificata assieme al loro regolare sviluppo fisico. Anche il diritto alla salute è palesemente trasgredito dalle MGF in quanto le donne vengono sottoposte a un intervento superfluo, che implica la modificazione del corpo di persone perfettamente sane facendo nascere gravi problemi prima non presenti. L’articolo 16 della Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli afferma che: “Ogni persona ha il diritto di godere del migliore stato di salute fisica e mentale che essa sia in grado di conseguire. Gli Stati Parti alla presente Carta s’impegnano a prendere le misure necessarie al fine di proteggere la salute delle loro popolazioni e di assicurare loro l’assistenza medica in caso di malattia.” [2] Il diritto al godimento dello standard di salute più alto possibile e alla possibilità di affidarsi all’assistenza sanitaria in caso di trattamenti medici o riabilitazione, viene riconosciuto anche ai bambini dall’articolo 24 della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia [8]. Pur non essendoci in tali documenti alcun riferimento alle mutilazioni genitali femminili, la dottrina le riconosce come violazione del diritto alla salute, evidenziandone la pericolosità a seguito di svariati rapporti dell’OMS in merito. Un altro diritto che viene indirettamente violato nel momento in cui si effettua la mutilazione sulle bambine, è quello all’istruzione. Tra le maggiori cause di abbandono scolastico nei Paesi implicati sono annoverati, infatti, gli effetti dell’intervento. Inoltre, si pensa che dal momento che le ragazze sono ormai da considerarsi adulte grazie al rituale e quindi pronte per il matrimonio, sia inutile il continuum della loro educazione. Le MGF possono essere considerate violazioni anche dell’articolo 1 della Convenzione contro la Tortura e altre Pene o Trattamenti Crudeli, Inumani e Degradanti [9], poiché causano sofferenze atroci e vengono inflitte per motivi discriminatori. Il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti è riconosciuto da ulteriori strumenti legislativi internazionali, come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ed il Patto sui Diritti Civili e Politici, e regionali quali la Convenzione Americana sui Diritti Umani, la CEDU e la Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli. Con la risoluzione 1247 del 2001 [10], il Consiglio d’Europa ha chiaramente riconosciuto le mutilazioni genitali come un’espressione dei trattamenti inumani e degradanti condannati dall’articolo 3 della CEDU [11]. Ha poi affermato la sussistenza della violazione del divieto in esame anche nella misura in cui l’operazione sia stata praticata da personale professionalmente competente, andando, quindi a scongiurare qualsiasi tipo di giustificazione alla medicalizzazione delle MGF (tendenza in atto negli ultimi anni, secondo la quale l’operazione viene svolta da personale medico competente).

Con la Conferenza del Cairo del giugno 2003, i rappresentati di 28 paesi africani ed arabi in cui le MGF erano convenzione radicata individuarono i contenuti legali e le misure necessarie allo sviluppo di una normativa più efficace a tale proposito. Il 23 giugno fu adottata la Dichiarazione del Cairo per l’Eliminazione delle MGF, che incoraggia i governi a riconoscere e proteggere i diritti umani di donne e bambine tramite l’approvazione di leggi “integrate nel contesto di una legislazione più ampia che tenga conto di altre questioni quali: l’uguaglianza tra i sessi, la protezione da ogni forma di violenza contro donne e bambini, salute riproduttiva ed i diritti delle donne e dei bambini.” [12], volte ad una graduale abolizione della pratica. Per arrivare a un definitivo cambiamento sociale non basta, tuttavia, solo una buona base legislativa: la tradizione delle MGF deve essere sradicata dalla cultura tramite una maggiore informazione pubblica.

In merito alla posizione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il Relatore Speciale sulla Violenza contro le Donne, ha affermato nel 2009 che le pratiche culturali tradizionali che causano dolore, sofferenza e violazione dell’integrità di un soggetto, debbano essere considerate come atti di tortura sulla base del diritto consuetudinario. In più, il Relatore Speciale sulla Tortura ed altri Trattamenti o Pene Crudeli, Inumani e Degradanti ha dichiarato in un suo report del 2008 che le mutilazioni genitali femminili possono essere considerate una forma di tortura se lo Stato non opera con la giusta diligenza.

Anche l’Assemblea Generale, con una risoluzione del 2007 (“Intensification of efforts to eliminate all forms of violence against women“) [13] fa presente agli Stati l’impossibilità di utilizzare tradizioni, credenze religiose o costumi come giustificazione per evitare il loro obbligo di eliminare tutte le forme di violenza. È necessario che gli Stati convalidino delle leggi adatte a combattere il fenomeno e che si impegnino nell’empowerment delle donne, nonché educhino le comunità ai diritti umani.

Nel 2008 è stata adottata una dichiarazione congiunta, di concerto tra varie agenzie ONU (OHCHR, UNAIDS, UNDP, UNECA, UNESCO, UNFPA, UNHCR, UNICEF, UNIFEM e WHO), che analizza i motivi per i quali la pratica sussiste e perché la stessa debba essere considerata una violazione dei diritti umani, auspicandone l’eliminazione definitiva. [14]

Uno dei momenti fondamentali di questa lotta è la Risoluzione 67/146 del 20 dicembre 2012 (Intensifying global efforts for the elimination of female genital mutilation”) [15]: prima moratoria globale dell’Assemblea Generale espressamente rivolta alle mutilazioni genitali femminili. Essa condanna le MGF e tutte le pratiche tradizionali dannose correlate e sollecita gli Stati membri delle Nazioni Unite a sostenere il processo di abolizione nel minor tempo possibile all’articolo 1: “[..] the empowerment of women and girls is key to breaking the cycle of discrimination and violence and for the promotion and protection of human rights, including the right to the highest attainable standard of mental and physical health, including sexual and reproductive health, and calls upon States parties to fulfil their obligations”. [15]

La dimensione occidentale del problema è cominciata verso l’inizio degli anni ’90, a causa delle incessanti migrazioni verso l’Europa. L’Unione Europea si è, allora, attivata per coinvolgere gli Stati europei nella lotta alle MGF considerandole per prima cosa “come una forma di violazione dei diritti umani da perseguire sia civilmente che penalmente” e “[..] qualsiasi forma di mutilazione genitale femminile come un crimine specifico[..]” (Risoluzione del 2001 del Parlamento Europeo [16]). Sempre il Parlamento Europeo ha emanato altre due Risoluzioni il 24 Marzo [17] e 26 Novembre del 2009 [18] che da una parte condannano qualsiasi tipo di MGF “[..] in quanto atto di violenza contro le donne che costituisce una violazione dei loro diritti fondamentali, in particolare il diritto all’integrità personale e alla salute fisica, mentale, sessuale e riproduttiva [..]“, e dall’altra sollecitano gli Stati membri a “[..] rifiutare qualsiasi riferimento a pratiche culturali, tradizionali e religiose o tradizioni come fattore mitigante in caso di violenza contro le donne, includendo i cosiddetti crimini d’onore e le mutilazioni genitali femminili.” Nella più recente risoluzione del 14 giugno 2012 [19], il Parlamento Europeo rinnova le sue sollecitazioni nei confronti degli Stati membri e aggiunge la richiesta di migliorare la situazione dal punto di vista sanitario. Infine, la Convenzione di Istanbul entrata in vigore l’1 agosto 2014 (dopo 10 ratifiche di cui 8 di Paesi membri del Consiglio d’Europa) [20] ha carattere vincolante e impone agli stati una serie di obblighi per adempiere alla prevenzione, protezione e denuncia di qualsiasi forma di violenza basata su una discriminazione di genere. L’articolo 38 si occupa espressamente del problema delle MGF e impone agli Stati di adottare “le misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i seguenti atti intenzionali: a) l’escissione, l’infibulazione o qualsiasi altra mutilazione della totalità o di una parte delle grandi labbra vaginali, delle piccole labbra o asportazione del clitoride; b) costringere una donna a subire qualsiasi atto indicato al punto a, o fornirle i mezzi a tale fine; c) indurre, costringere o fornire a una ragazza i mezzi per subire qualsiasi atto enunciato al punto a.”

In conclusione, le donne hanno il diritto di essere trattate con dignità e  i principi fondamentali che le tutelano devono interamente essere rispettati. Il problema per il contrasto di tali violenze è che tutto l’approccio su cui ci si basa è improntato sugli standard occidentali che non concepiscono i lati positivi che derivano dalla circoncisione femminile, in quanto legati ai costumi sociali delle comunità coinvolte. Il dolore e tutte le conseguenze successive all’intervento vengono considerate un minimo prezzo da pagare per il raggiungimento di futuri benefici sociali e standard economici elevati. “In pratica, sono le stesse potenziali vittime che rivendicano il loro diritto a essere sottoposte a mutilazione genitale: paradossalmente, dunque, ciò che per l’Occidente è inconcepibile, in altre culture è addirittura doveroso, e anzi desiderabile” [21]. Dunque, cosa deve prevalere tra universalità e relativismo? E’ giusto che vengano forzatamente “imposti” diritti a comunità che li condividono il nostro modello di società?

 [1] R. Cabrini, “MGF: mutilazioni genitali femminili” (

[2] Organizzazione dell’Unità Africana, Art. 18, comma 3, Carta Africana dei Diritti dell’Uomo, 27 giugno 1981  (OAU Doc. CAB/LEG/67/3 rev. 5, 21 I.L.M. 58 (1982))

[3] Unione Africana, Protocollo alla Carta Africana sui diritti dell’uomo e dei popoli sui diritti delle donne in Africa, 25/11/2005

[4] Assemblea Generale, Dichiarazione universale dei diritti umani, 10 dicembre 1948 

[5] Assemblea Generale, Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women, 3 settembre 1981 

[6] CEDAW, General Recommendation n. 14 Female Circumcision (Document A/45/38), 1990

[7] ONU, Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, 27 ottobre 2011

[8] Assemblea Generale,  Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, 20 novembre 1989

[9] Assemblea Generale, Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, 10 dicembre 1984

[10] Assemblea Generale del Consiglio d’Europa, Risoluzione 1247/2001, 22 maggio 2001

[11] Consiglio d’Europa, Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, 3 settembre 1953

[12] Dichiarazione del Cairo per l’Eliminazione delle MGF, 23 giugno 2003

[13] Assemblea Generale, Risoluzione 62/133, 18 dicembre 2007

[14] OHCHR, UNAIDS, UNDP, UNECA, UNESCO, UNFPA, UNHCR, UNICEF, UNIFEM, WHO, Eliminating Female genital mutilation, an interagency statement, 2008

[15] Assemblea Generale, Risoluzione 67/146, 20 dicembre 2012

[16] Parlamento Europeo, Risoluzione B5-0686/2000/, 26 febbraio 2001

[17] Parlamento Europeo, Risoluzione 2008/2071(INI), 24 marzo 2009

[18] Parlamento Europeo, Risoluzione 2009/2681(RSP), 26 novembre 2009

[19]  Parlamento Europeo, Risoluzione 2012/2684(RSP), 14 giugno 2012

[20] Consiglio d’Europa, Convenzione di Istanbul, 1 agosto 2014

[21] A. Cassese, I diritti umani oggi, edizione 2016

Sabrina Certomà

Classe 1996, laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università degli studi di Trieste. Studentessa presso la Scuola di giornalismo Lelio Basso a Roma. Collaboratrice dell'area di diritto internazionale con particolare interesse per i diritti umani.

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